Il Tempo, in sé fluire di momenti transeunti che vanno accolti, si apre a un "oltre" custode Eterno di valori trascendenti che vanno abitati. Vicende e realtà tendono alla suprema fusione nell'infinita Totalità, anima di ogni Speranza.

giovedì 3 marzo 2016

SENZA PARTITI (VERI) NON C’E’ POLITICA DEMOCRATICA (VERA)

Pubblicato su Affaritaliani il  23 febbraio 2016

Lo spettacolo che sta dando il mondo della politica italiana non è certo dei più esaltanti, anzi è di livello talmente deludente che spinge a riflessioni attente, per poter valutare oggettivamente e con responsabilità ogni circostanza. Infatti, sembra che regnino – sia nelle strutture partitiche sia negli organismi istituzionali legislativi e di governo – uno smarrimento generale e un’incontrollata frettosa premura di salvaguardare gli interessi di parte, probabilmente anche legittimi, ma certamente avulsi dalle reali esigenze del bene comune. 

Certo, come tutte le organizzazioni sociali, anche i partiti attraversano momenti di floridezza e momenti di fiacchezza, determinati o da infondate interpretazioni dei disagi della società o da inadeguatezza dei leader del momento oppure da comportamenti suggeriti più da tattica partitica che da strategia politica. Il malessere e il disagio aumentano, poi, allorquando i partiti giungono a occupare spazi pubblici non propri, fino a impadronirsi delle istituzioni e abusarne. Allora ne consegue la loro delegittimazione, smarrendo sempre di più il contatto vitale con i cittadini, i quali, non vedendone l’utilità, nutrono e accrescono i latenti sentimenti di antipolitica, fino al qualunquismo e all’assenteismo. S’impone, allora, l’urgenza di riannodare il legame società-politica-istituzioni, ricollocando ciascuno nell’alveo del proprio spazio, secondo le funzioni e i ruoli propri. Il problema non si risolve, però, riconoscendo e denunciando lo scollamento tra politica e base popolare. Devono, invece e in primo luogo, rinnovarsi i partiti, riconquistando la loro natura originaria, servendosi d’ogni mezzo nuovo messo a disposizione dall’evoluzione e dal progresso: cioè devono tornare ad essere aggiornati e validi strumenti di partecipazione dei cittadini e non costruzione di classi a loro ostili.


E i partiti politici, pur nella loro molteplicità talora eccessiva, sono insostituibili per una politica veramente democratica. Il popolo d’un Paese libero si munisce sempre di forme associative, mediante le quali vive e agisce nella vita politica da soggetto responsabile e attivo; così come è ovvio che ogni governo, che voglia essere democratico, esercita il potere nel rispetto morale e con l’ausilio delle rappresentanze sociali territoriali, prime fra tutte i partiti politici e le organizzazioni sindacali. Indubbiamente non mancano vie alternative per una partecipazione politica, ma i corpi territoriali intermedi, liberamente organizzati e abilmente diretti, garantiscono con maggiore efficacia molte opportunità, tra cui due veramente fondamentali: quella d’individuare decisioni concrete e pertinenti al bene comune e quella di preparare il ricambio della classe politica con soggetti validi e capaci. 


Questo è confermato dalla storia e sostenuto da studiosi esperti. Alla fine del primo conflitto mondiale, per esempio, il giurista James Bryce sostenne categoricamente: “Nessun grande paese libero è stato senza i partiti. Nessuno ha mostrato come un governo rappresentativo possa operare senza di essi. Essi creano l’ordine dal caos di una moltitudine di elettori”. E dopo le sciagure della seconda guerra mondiale, i nostri Padri Costituenti hanno stabilito concordemente: “L'Italia è una Repubblica democratica” (art, 1), per cui, dovendo “riconoscere e garantire i diritti inviolabili dell'uomo, sia come singolo, sia nelle formazioni sociali” (art. 2), hanno riconosciuto ai cittadini il “diritto di associarsi liberamente, senza autorizzazione, per fini che non sono vietati ai singoli dalla legge penale” (art. 18), concludendo con l’articolo 49, in cui hanno indicato i partiti politici come il luogo naturale dove i cittadini si riuniscono e si confrontano liberamente, “per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale”. 

E’ nei partiti, quindi, che i cittadini elaborano liberamente idee proprie, lontani dal rischio di rimanere ostacolati o addirittura fuorviati da pericolosi giochi politici. Non pare, quindi, sia stato un gesto di pura formalità il richiamo che il Presidente Mattarella ha rivolto al Parlamento nel suo discorso d’insediamento: “La strada maestra di un Paese unito è quella che indica la nostra Costituzione, quando sottolinea il ruolo delle formazioni sociali, corollario di una piena partecipazione alla vita pubblica”. E, manifestando preoccupata attenzione al mutamento dei tempi, annotava che “la crisi di rappresentanza ha reso deboli o inefficaci gli strumenti tradizionali della partecipazione”, divenuti ormai un forte ostacolo per il dispiegarsi delle energie del paese, per cui s’impone una riconsiderazione e una ristrutturazione delle rappresentane sociali e soprattutto dei partiti e delle forze sindacali.


E’ evidente che in Italia i partiti politici  attraversano ormai da qualche decennio una profonda crisi, mostrando sempre di più d’aver smarrito la ragion d’essere assegnata loro dalla Costituzione.  Da organizzazioni libere di cittadini liberi sono diventati associazioni d’interesse privato, sia elettorale sia economico e sia di potere; non operano più come laboratori di progetti d’interesse generale, ma come fucina di personalismi decisionisti; non vivono più come presidio di dialogo aperto tra cittadini benpensanti, ma come colonia di leader da ascoltare e ubbidire. Faticano a riconoscere e denunciare che la causa profonda della loro crisi è ancora più drammatica: è la loro intrinseca incapacità di darsi un ordinamento interno e un metodo di interconnessione reciproca, causata dalla sempre più massiccia personalizzazione del potere, incarnata nel leader del momento.


La personalizzazione dei partiti s’è rivelata ancor più incisiva, da quando il medesimo leader occupa la guida d’un partito (che ha compiti di progettazione e di programmazione) e nello stesso tempo presiede la massima istituzione del potere esecutivo (ovviamente controllandola). Con la legge 400 del 1988 l’Italia s’è dotata d’un Presidente del Consiglio dei Ministri con prerogative e competenze adeguate ai suoi poteri esecutivi; gradualmente, con successivi procedimenti di riforme sostanziali, la Presidenza del Consiglio è divenuto di fatto il fulcro operativo dell’attività dell’intero governo, sul piano sia organizzativo e sia legislativo. E’ utile ricordare, inoltre, che il rafforzamento dei poteri del Primo Ministro italiano ha coinciso con il progressivo spostamento di una vasta serie di funzioni normative dal Parlamento all’Esecutivo. E tutto ciò è avvenuto nei tempi della grave crisi dei partiti tradizionali, offrendo, così, ai Presidenti del Consiglio l’opportunità di servirsi d’ogni occasione per consolidare il partito d’appartenenza o di formarsene uno proprio. Ma il tempo scorre, e tutto o cambia o viene travolto: ogni assetto sociale, politico, istituzionale. La divisione dei poteri, la separazione tra governanti e governati, la diversità controllori e controllati non sono invenzioni astratte, ma insegnamenti concreti che la storia millenaria dell’umanità consegna ai nuovi tempi. Alla saggezza e all’onestà degli uomini farne buon uso.


giovedì 11 febbraio 2016

DON LORENZO MILANI PER UNA SCUOLA DEL DOMANI

Nella trasmissione odierna de “Il pane quotidiano”, condotta da Concita De Gregorio, è stato presentato il volume “L’uomo del futuro” (Mondadori), scritto da Eraldo Affinati, in cui l’Autore descrive alcune intuizioni e commenta l’opera di don Lorenzo Milani, il contestato “maestro” della Scuola di Barbiana e autore della Lettera a una professoressa del 1967.  “Avere il coraggio – vi scriveva con ardita convinzione il prete disubbidiente - di dire ai giovani che essi sono tutti sovrani, per cui l'obbedienza non è ormai più una virtù, ma la più subdola delle tentazioni; che non credano di potersene far scudo né davanti agli uomini né davanti a Dio; che bisogna che si sentano ognuno l'unico responsabile di tutto”.

Elisabetta Rosaspina, dalle colonne del Corriere della sera rimarcava lo straordinario lavoro dell’Affinati: “Se n’è andato per il mondo, a cercare tutti i don Milani - sostiene -. Tutti coloro che mettono in pratica quella lezione. Ma forse il fatto più sorprendente è che li abbia trovati davvero: a Benares, a Pechino, a Volgograd, in Gambia, a Città del Messico, a New York, a Berlino. E anche dentro se stesso; ma, questo, Eraldo Affinati tutt’al più lo lascia intendere”. E in verità Affinati - come è stato scritto - ha cercato l'eredità spirituale di don Lorenzo nelle contrade del pianeta dove alcuni educatori isolati, insieme ai loro alunni, senza sapere chi egli fosse, lo trasfigurano ogni giorno: dai maestri di villaggio, che pongono argini allo sfacelo dell'istruzione africana, ai teppisti berlinesi, frantumi della storia europea; dagli adolescenti arabi, frenetici e istintivi, agli italiani di Ellis Island, quando gli immigrati eravamo noi; dalle suore di Pechino e Benares, pronte ad accogliere i più sfortunati, ai piccoli rapinatori messicani, ai renitenti alla leva russi, ai ragazzi di Hiroshima, fino ai preti romani, che sembrano aver dimenticato, per fortuna non tutti, la severa lezione impartita dal priore”.

Don Milani ha anticipato tante idee, tanti avvenimenti - dichiara lo stesso Autore del volume. Lo si capisce guardando la sua foto con un bambino congolese in braccio, leggendo quanto aveva scritto nella sua Lettera a una professoressa. Oggi i ragazzi di Barbiana vengono dall’Africa, dal Medio Oriente. Lorenzo poteva immaginare che li avremmo accolti così? Sì, avrebbe potuto sospettarlo. Era l’uomo del futuro, soprattutto perché aveva sognato una scuola che oggi stentiamo ancora a realizzare, ma cui non possiamo rinunciare. È la scuola del maestro che si mette in gioco e guarda negli occhi il suo scolaro. Uno a uno. Irrealizzabile? No, ho viaggiato molto nelle scuole italiane e tanti professori lavorano così”.

Pensavano queste cose e in questo modo i governanti italiani nel programmare la “Buona Scuola”?

mercoledì 20 gennaio 2016

DRAMMATICA ATTUALITA’ DEL “MANIFESTO RUSSEL-EINSTEIN”

Pubblicato su Affaritaliani il 16.01.2016

 “Questo è, dunque, il problema che vi presentiamo - affermavano sessant’anni fa il filosofo Russel e lo scienziato Einstein -, è problema orrendo e terribile, ma non eludibile: metteremo fine al genere umano oppure l'umanità saprà rinunciare alla guerra? La gente non vuole affrontare questa dicotomia, perchè abolire la guerra è difficile”. Anche oggi, purtroppo, nonostante siano trascorsi sessant’anni ricchi di esperienze umane e di conquiste culturali, l’umanità si ritrova in situazioni ugualmente “orrende e terribili”. 

Alla metà del secolo scorso dominava paurosamente la “guerra fredda” e incombeva pericolosamente il rischio d’una guerra nucleare, che avrebbe devastato il pianeta terra e annichilito l’umanità intera. Nel marzo 1954, infatti, gli USA avevano sperimentato la potentissima bomba all’idrogeno, provocando una pioggia radioattiva vasta e micidiale. La BBC inglese, allora, invitò lo scienziato polacco Joseph Rotblat a evidenziare gli aspetti tecnici della bomba H insieme all’arcivescovo di Canterbury e al filosofo Bertrand Russell, che ne avrebbero discusso le implicazioni morali. Fu l’occasione perché ci si rendesse concretamente conto dell’enorme pericolo che incombeva sull’umanità intera. Russel partecipò le conclusioni del confronto ad altri intellettuali e fisici, tra cui Einstein, col quale concordò sull’opportunità di estendere a tutti la conoscenza del rischio, coinvolgendo soprattutto i maggiori responsabili della vita dei popoli e della salvaguardia della terra: il mondo dell’intellighenzia, i governanti, i pionieri dell’industria, i magnati dell’economia e della finanza.  Nacque il documento noto come “Manifesto Russel-Einstein”, ma che fu subito condiviso e sottoscritto anche da Max Born, Percy W.Blidgeman, Leopold Infeld, Frederic Joliot-Curie, Herman J. Muller, Linus Pauling, Cecil F. Powell, Joseph Rotblat e Hideki Yukawa. Il Manifesto fu pubblicato ufficialmente il 9 luglio 1955, proprio nel pieno della Guerra Fredda. 

Sono trascorsi ormai 60 anni, ma ancor oggi l’umanità corre gravi rischi di catastrofe umanitaria e di distruzione planetaria. Siamo nel pieno di quella che è stata definita a ragione “guerra mondiale a pezzi”, combattuta con armi sempre più potenti e impensabili, sino a trasformare esser umani in bombe vaganti. Una guerra “mondiale” perenne e disumana, che quotidianamente divora vite umane anche innocenti, devasta valori culturali faticosamente conquistati, schiaccia come un rullo compressore ogni sentimento proprio del genere umano. I potenti del mondo, i possessori delle ricchezze, i produttori e commercianti delle armi belliche, insieme ai governanti dittatoriali e tirannici (in qualche luogo persino sanguinari) si fanno trascinare dai loro propositi di forza e di prepotenza, divenendo sempre più insensibili agli strazi di esseri simili a loro, ma che conducono nel baratro della miseria e della morte, preludio di distruzione totale d’ogni civiltà. Fanno sospettare il peggio le rivalità, spesso mascherate ma sempre ugualmente forti e accese, tra Russia e Stati Unit d’America, tra Occidente e Medio Oriente, tra Paesi ricchi e Paesi poveri, tra Potenze consolidate e Potenze emergenti.  E non meno pericolosi sono le rivendicazioni e le azioni dei fanatismi di matrice religiosa. 

Non è fuor di luogo, quindi, rileggere e ripensare oggi quel “Manifesto Russel-Einstein”, meditandone responsabilmente alcuni passaggi significativi per la loro attualità.  

Il primo ammonimento lasciatoci in eredità è l’appello indirizzato al mondo della cultura, della ricerca, della scienza e della tecnologia. Gli intellettuali, sacerdoti di verità e di  progresso, debbono salvaguardare sempre e comunque la propria libertà di pensiero, operando con assoluta autonomia di giudizio e ispirandosi a una visione umana universalistica. “Non parliamo – avvertono gli Autori del Manifesto - come membri di questa o quella nazione, continente o fede, ma come esseri umani, membri della specie Uomo. II mondo è pieno di conflitti; per questo, chiunque abbia un qualche interesse per la politica nutre diverse opinioni su queste questioni; ma noi vorremo che ognuno metta da parte questi sentimenti e si consideri solo come parte di una specie biologica che ha avuto una evoluzione notevole, e la cui sparizione nessuno di noi può desiderare”. 

In secondo luogo rimarcano la necessità d’un modo di pensare rinnovato e richiesto dalla giusta evoluzione e mirato a un proficuo cammino di tutti i popoli, e non dettato dall’interesse economico, culturale, religioso solo di alcuni a danno di altri. La gara da affrontare non è di rendersi sempre più forti e più temibili, ma di “armarsi” di corresponsabilità e onestà. Infatti, sostengono senza esitazione: “Dobbiamo imparare a pensare in un nuovo modo. Dobbiamo imparare a chiederci, non già quali misure occorre intraprendere per far vincere militarmente il gruppo che preferiamo. Quel che ci dobbiamo chiedere è come impedire un conflitto armato, il cui esito sarebbe catastrofico per tutti?”. 

Ecco, quindi, il dilemma di allora, ma anche del nostro tempo e che tutti siamo chiamati a risolvere: “Si apre di fronte a noi, se lo vogliamo un continuo progresso in felicità, conoscenza e saggezza. Sceglieremo invece la morte, perché non sappiamo dimenticare le nostre contese?”. Dalla risposta data oggi dipende, di conseguenza, tutto il futuro nostro e e il destino delle generazioni future. Solo lo sguardo lungimirante degli uomini e la cultura dell’accoglienza delle diversità e delle minoranze salveranno l’umanità. Spinti e sostenuti da questa consapevolezza, Einstein e Russel insistevano: “Ci appelliamo, come esseri umani, ad altri esseri umani: ricordate la vostra umanità e dimenticate il resto. Se vi riuscirete, si apre la via verso un nuovo paradiso; se no, avete di fronte il rischio di morte universale”.  

L’aver smarrito il senso di comune appartenenza al genere umano è la causa prima della guerra; il riscoprirne la realtà ne sarà il rimedio. Ma è necessario uscire dagli egoismi e pensare agli altri e al futuro: “Forse – i due Autori annotavano con un velo di sfiducia - quel che impedisce maggiormente la piena comprensione della situazione è il termine ‘umanità’, che suona vago e astratto. La gente fa fatica ad immaginare che il pericolo riguarda le loro stesse persone, i loro figli e nipoti, e non solo un vago concetto di umanità. Essi faticano a comprendere che davvero essi stessi, ed i loro cari, corrono il rischio immediato di una mortale agonia”. 

Anche oggi dobbiamo meditare su questi appelli. Dobbiamo chiederci cosa è rimasto oggi di quegli insegnamenti e di quegli ideali, come possiamo riconquistare quella consapevolezza di umanità, per comprendere ciò in cui siamo immersi. Gli errori possono essere ottima occasione per correggersi e migliorare; ma quelli della storia passata e recente sembrano essere stati disastrosi allora e inutili oggi. Forse l’uomo contemporaneo deve ricercare e riconquistare la lucidità razionale necessaria per capire che non c’è più tempo; che è giunta l’ora di cambiare e di impegnarsi in prima persona a “lottare” per la salvezza e la felicità propria e dell’umanità.