Il Tempo, in sé fluire di momenti transeunti che vanno accolti, si apre a un "oltre" custode Eterno di valori trascendenti che vanno abitati. Vicende e realtà tendono alla suprema fusione nell'infinita Totalità, anima di ogni Speranza.

martedì 22 dicembre 2015

IL DILEMMA DEI POTENTI A PARIGI: IL MONDO O CAMBIA MODO DI PENSARE O MUORE


Pubblicato su Affaritaliani il 2.12.2015
 
Fino al prossimo 11 dicembre 190 Paesi tratteranno per un nuovo accordo, per ridurre le emissioni, che causano il riscaldamento del pianeta Terra. L’umanità intera aspetta con preoccupazione ciò che verrà deciso. Il problema è molto serio e non dà alcuno spazio a dichiarazioni di rito, come potrebbero apparire - a causa delle prese di posizione già annunciate da parte di alcuni Stati - quelle del Presedente francese, che ha esordito: “Prenderemo in qualche giorno decisioni che avranno conseguenze per decenni, la posta in gioco è il futuro del pianeta”, e, collegando responsabilmente la minaccia del terrorismo ai cambiamenti climatici, ha concluso: “Sono le due grandi sfide che dobbiamo raccogliere, perché ai nostri figli dobbiamo lasciare in eredità non soltanto un mondo liberato dal terrore, anche un pianeta preservato da catastrofi”. 

Ormai è consolidato che il genere umano ha un destino unico di vita o di morte, legato ormai in massima parte ai giochi dell’economia e ai capricci del mercato, determinati apertamente da una verità fondamentale, cioè che le sorti del Nord e del Sud della Terra sono indubbiamente collegate, ma, realisticamente esaminate e oggettivamene valutate, sono determinate e sostenute non dal Nord, ma dal Sud, in quanto l’economia dell’eccessivo benessere e dello sfrenato consumismo del Nord è alimentata dallo sfruttamento che il Sud ha subìto e continua a patire ormai da secoli. Oltre alla corsa sregolata al benessere e all’accumulo di capitali, è necessario, poi, riconsiderare la linea politica degli armamenti, che, mentre ingrossa i profitti del Nord, accresce la povertà del Sud, aggravando le piaghe delle ingiustizie sociali e della miseria d’interi Paesi condannati davvero alla fame. Causa di questi modi di pensare e di vivere non sono certo da rintracciare nell’immutabile natura umana o nell’apatia endemica di alcuni popoli, bensì nelle scelte di chi li “governa”.  

Ora, non si tratta di difendere le faticose conquiste di alcune Nazioni e di segnalare la colpevole inerzia di altre; forse non c’è più tempo per strategie ideologiche e tatticismi politici; è giunto definitivamente il tempo per far prevalere in tutti, ma soprattutto nei potenti, l’innato istinto di conservazione, da usare per debellare i veri nemici dell’umanità. E’ tempo che gli uomini tornino a pensare che per propria natura non sono “lupi” tra di loro, bensì individui d’uno stesso genere, accomunati dallo stesso destino. Certo le disuguaglianze e le ingiustizie, sempre riemergenti in modo forse più marcato, a svantaggio dei più indifesi grida il dolore della miseria e urla la disumanità della fame. I potenti riuniti a Parigi, pertanto, dibattano pure sugli obiettivi da loro considerati meno nocivi, ma non dimentichino che ogni loro decisione avrà il senso di soluzioni credibili solo se l’obiettivo finale è l’abbattimento della belligeranza e il perseguimento della pacificazione dei Popoli.  

Diano vita a una cultura della pace, propugnando una politica, che, incrementando e valorizzando la presenza attiva dell’uomo nel campo della storia umana, consenta il passaggio da una civiltà fondata sulla competizione ad una civiltà fondata sulla valenza dell’uomo e sulla corresponsabilità reciproca. Però, non come un pacifismo mistico o utopico, ma come un cammino faticoso verso un ideale, che rimarrà tale, ma verso il quale l’umanità deve marciare, avvicinandosi il più possibile, come auspicava già secoli fa Erasmo, quando nel Lamento della pace, concludeva: “Vengano resi i massimi onori a chi ha contribuito a tenere lontano la guerra (…), a chi si è prodigato senza risparmio non per allestire la massima potenza di schiere armate e di macchine belliche, ma per non doverne abbisognare”.

 

 

domenica 20 dicembre 2015

SOLITUDINE INTERIORE E VERTIGINE ESISTENZIALE


Pausa di solitudine “interiore”: indefinita densa profonda. Momenti interminabili d’uno smarrimento totale, insospettato. Angosciata sospensione di tutto, strana misteriosa interruzione di realtà. 

Non la riflessione distaccata sull’origine del proprio esserci, o la ricerca appassionata del come del proprio esistere, o la struggente inquietudine d’indovinare la destinazione della propria vita. E neppure il dolente rimuginare i pochi o molti rapporti più o meno sinceri e disinteressati o calcolati o falsi intercorsi nel tempo. E nemmeno il rimembrare le passate vicende: belle e gratificanti oppure tristi, frustranti, talora quasi fatte e destinate per il peggiore andamento della vita. 

Forse importante, ma certamente penoso, è il bisogno d’intrattenersi mestamente con se stessi, per poter prendere atto della realtà del naturale evolvere della vita cosmica in generale e umana in particolare, che inesorabilmente ha un inizio, uno svolgimento, un termine, secondo una propria inarrestabile ciclicità esistenziale, dall’incomprensibile criterio. Non meno angosciosa è la voglia di confortarsi, magari con un malinconico sorriso di auto-commiserazione e di rassegnata auto-sopportazione; momentanea è anche l’illusione di sostenersi, rannicchiandosi in un’inerte accettazione di tutto il passato e in una spenta disponibilità a partecipare a qualunque accadimento futuro. Non si sente neppure lo stimolo a tentare almeno di non sentirsi e di non viversi fuscello di paglia in balia d’un arcano destino. Nessun impulso a tentare d’evitare di dover concludere che tutto è soltanto coincidenza o casualità o addirittura caos.  

Ma .... “toccarsi concretamente” quasi con mano nel fondo della propria realtà, intuirsi profondamente nel proprio nucleo esistenziale senza alcuna mediazione di ragionamenti o sentimenti o volontà, verificare inesorabilmente che colui che si sta quasi toccando con mano, che si sta intuendo identico a sè, che si sta constatando realmente e con sicurezza come un esistente vivente già nel passato, nel presente come pensante all’oggi ma nel tentativo anche d’intuire un qualche flusso premonitore del futuro … è proprio lui!

Lui, ora, da solo, unico come identico a se stesso e necessariamente diverso e diviso da ogni altra realtà: lui che vive come gettato - insieme al tempo - nel cosmo universale, immerso nell’infinità che scorre ora dolcemente ora crudelmente verso un’eternità agognata ma ignota, sperata ma spesso evanescente, forse anche del tutto inconoscibile. Solo; con tutto ciò che è stato e ha fatto. Intuirsi, allora; e viversi nell’assoluto isolamento da tutto e da tutti.

Dichiararsi pronto a riconoscersi serenamente e accettarsi eroicamente come l’unico vero protagonista della propria vita, per cui può e, qualora ne sia il caso, deve dare conto di se stesso solo a se stesso: mai, allora, potrà ingannare la sua intelligenza né circuire la sua coscienza. Per questo diventa ormai pronto ad accogliere tutto ciò che è successo nello scorrere del tempo, sorridendo del bene che gli occorre alla memoria, rammaricandosi del non bene che potrà aver fatto, addolorandosi di qualche eventuale male, di cui però non ricorda nulla in particolare, che spera non sia esistito, ma che sa, qualora l’avesse fatto, che può correlarlo sicuramente alla sua buona fede, perché è sempre stato del tutto estraneo al suo modo di vivere ogni intenzione malevola o malefica. 

Solitudine interiore. Vertigine da panico. Enorme. Dapprima angosciante con tremore, poi immobile e serena, infine dolce e benevola: tutto, allora, acquista colore e valore. Momenti sublimi: godersi pacificamente, pacatamente, piacevolmente la calma morale che rinvigorisce, l’alito della speranza che vivifica, la brezza dell’entusiasmo che ristora. E gradualmente “toccarsi concretamente” quasi con mano come esistente pervaso da senso, da serenità, perché purificato da ogni scoria colpevole o innocente d’un passato vissuto tra speranza e disperazione, tra amore e odio, tra fatica e passione, tra entusiasmo e depressione. Da essere umano.

 

IL “TERRORISMO” ISLAMISTA INTERROGA LA “CULTURA” OCCIDENTALE

Pubblicato su Affaritaliani il 25.11.2015

Dagli ultimi violenti attacchi terroristici sferrati contro Paesi europei da parte dell’autoproclamato Stato Islamico è trascorso un periodo di tempo sufficiente, perché si possano fare riflessioni attente e valutazioni obiettive, lontano da immediate commozioni umane e al riparo da comprensibili, ma fuorvianti passioni di parte. Questi episodi sono stati definiti da Obama un “attacco al mondo civilizzato”, mirando a coinvolgere non solo l’intero l’Occidente, ma anche e soprattutto la Russia; nello stesso tempo, però, ha fatto riemergere il singolare e ibrido connubio tra Roosevelt, Stalin, Churchill, contro i terrori nazifascisti del secolo scorso. Ovviamente con alcune differenze significative: la Germania e l’Italia erano Nazioni con una propria identità statuale, mentre gli odierni movimenti fondamentalisti islamici ne sono privi, benché siano stati presenti per quasi tutto il secolo scorso, opponendo resistenza al colonialismo e all’imperialismo occidentali, fino a dare origine a un vero  e proprio “nazionalismo arabo”, animato da crescente ostilità contro la presenza militare e l’influenza economico-culturale dell’Occidente.  

Ogni forma di terrorismo, compreso quello dell’Isis, professa e diffonde una propria visione dell’uomo e del mondo, con convinzioni e valori propri, con propri obiettivi sociali e politici; cioè ha una sua “cultura”, anche se da altri considerata sbagliata e pericolosa, perchè ideologica e utopica. Ma l’utopia per sua natura è, in ogni caso, sempre nuova e rivoluzionaria. Proprio per questo la chiave di lettura delle barbarie perpetrate dall’islamismo fondamentalista non può essere “la banalità del male” denunciata come causa del totalitarismo nazista da Hanna Arendt, cioè l’incapacità di ragionare con la propria testa, la mancanza di idee e di valori, l’appiattimento etico della società di massa. Oggi il fondamentalismo terroristico – e non solo religioso e nemmeno solo islamista – necessita d’una sua interpretazione, nuova e  storicamente veritiera, al fine di trovare adeguate soluzioni radicali ed efficaci.

Ora, i movimenti  terroristici – soprattutto quello islamista – vengono propagandati come progetti d’abbattimento dei valori essenziali del mondo “civilizzato occidentale”: libertà, uguaglianza, democrazia, solidarietà, economia di libero mercato. Ricercarne le ragioni – si sostiene - in cause politiche o socio-economiche di diversa natura, sarebbe del tutto sbagliato e deviante, in quanto le vere connotazioni d’ogni terrorismo sono proprio l’irrazionalità e l’assurdità. A ben riflettere, però, forse non è così; non si può mistificare la realtà e sostenere con superficialità che l’obiettivo unico del terrorismo è un assurdo attacco al modo di vivere delle civiltà democratiche, per cui si urla: “non ci faranno cambiare le nostre abitudini”. Nel terrorismo, invece, ci sono intelligenza e razionalità. Bisognerebbe conoscere obiettivamente la storia della millenaria cultura araba e valutare con rispetto la non facile evoluzione del mondo musulmano; o, almeno, bisogna non omettere ciò che il suo mondo ha sofferto anche recentemente negli anni ’90 con la guerra del Golfo, quando è stato colpito nell’essenza profonda della sua civiltà e nella sacralità della sua religione: la potenza economico-militare occidentale ha soverchiato e umiliato il fragile mondo arabo-islamico, e si persino insediato nei suoi territori. Da qui la discutibile propaganda che il mondo islamista vuole vendicarsi di tutto ciò, già a partire dall’attentato dell’11 settembre. Forse, però, più che come una vendetta, bisognerebbe vedere una reazione comprensibile (anche se discutibile) contro una situazione vissuta come occupazione, se non del tutto militare, certamente ideologica e culturale, con cui si vuole modernizzare i suoi territori, iniziando processi di democratizzazione e trasformando, quindi, anche le strutture socio-economico-politiche.

Il mondo occidentale deve imparare meglio a condividere – onestamente e senza calcoli di alcun tornaconto - le diversità, senza la presunzione di detenere ogni verità e felicità, che deve dare a tutti, usando anche la forza con chi non le volesse. Il mondo islamico non intende né tollerare protettorati ormai eccessivi, né subire processi imposti di democratizzazione, né condividere innovanti atteggiamenti etici non richiesti. Non sopporta, soprattutto, di dover accettare e rispettare frontiere territoriali segnate e imposte loro da potenze straniere (l’Occidente avrebbe dovuto imparare qualcosa dalla caduta del muro di Berlino). Insomma, il modello culturale dell’Occidente non deve imporsi, ma deve  aprirsi agli altri modelli culturali, compreso quello culturale arabo; e dialogare con tutti, disponendosi con sincerità anche ad ascoltare e accogliere ogni altro mondo. Emblematico diventa ciò cui s’è assistito in piazza san Marco per i funerali “laici” della giovane Valeria Solesin. In prima fila sedevano congiuntamente il laico Presidente Mattarella, il musulmano Imam, il cristiano-cattolico Patriarca, l’ebraico Rabbino.

L’Occidente – si dice – è in guerra, ma vincerà, conserverà la sua libertà, difenserà i suoi valori. Bisogna chiedersi: in guerra contro chi e per quali obiettivi? Contro il terrorismo islamista, forse? Ma è difficile a capirsi, sapendo quanto è successo qualche giorno fa al G20 di Antalya in Turchia. Più delle tematiche finanziarie all’ordine del giorno, l’incontro affronta il tema del terrorismo: “"Una minaccia per tutti noi", da contrastare "sia dal punto della sicurezza che dal punto di vista finanziario" esordisce il presidente turco Erdogan. Ma dopo, a chiusura dei lavori, Putin, da politico scaltro, denuncia apertamente davanti a tutto il mondo, “Isis è finanziato da individui di 40 Paesi membri del G20”, mettendo in grande imbarazzo lo stesso re dell’Arabia Saudita, Salman, che poco prima aveva tuonato contro i “terroristi diabolici da sconfiggere”, ma che ora veniva additato apertamente come uno dei massimi finanziatori dell’Isis. A chiarire la mente è intervenuta in queste ore la crisi Turchia-Russia per l’abbattimento dell’aereo russo. Vladimir Putin ha definito l’abbattimento “una pugnalata nella schiena da parte dei complici dei terroristi”; osservatori internazionali avvertono: ora “La Turchia mette l’occidente davanti a un bivio”.

E’, quindi, veramente strano (e soprattutto preoccupante) ascoltare Governanti che seminano ottimismo e certezza di trionfo sui nuovi barbari provenienti dall’Oriente. Proclamano libertà e sicurezza, quando nello stesso tempo i cittadini di molti Paesi si sentono sotto assedio e senza alcuna libertà di camminare per strada, vivere nel proprio mondo di lavoro, trascorrere qualche ora libera in luoghi tranquilli. Fare proclami di superiorità culturale, ostentare sicurezza, diffondere infondato ottimismo è facile; ma i popoli hanno paura. Anche perché le guerre sono decise dai pochi ricchi e potenti, ma sono combattute dai molti poveri e deboli. Se si vuole eliminare, o almeno controllare, la guerra, basterebbe che i pochi potenti si sedessero intorno a un tavolo e si imponessero almeno una moratoria per la costruzione e vendita di armi. Ma cosa farebbero le industrie belliche, tutte, nessuna esclusa?