Il Tempo, in sé fluire di momenti transeunti che vanno accolti, si apre a un "oltre" custode Eterno di valori trascendenti che vanno abitati. Vicende e realtà tendono alla suprema fusione nell'infinita Totalità, anima di ogni Speranza.

mercoledì 5 marzo 2014

DEMOCRAZIA, PARTITI POLITICI, SOVRANITA’ POPOLARE

Il quadro ideologico e il panorama della situazione politica italiana non sono certo rassicuranti; lo scenario presentato dalle condizioni sociali ed economiche dei cittadini è davvero preoccupante. Le offerte formative e le pianificazioni operative della maggior parte degli attori politici appaiono piuttosto deboli e inadeguate, attente per lo più a questioni settoriali e di breve respiro, pur nella loro indiscutibile intrinseca importanza; anche la vita interna dei partiti politici non invia messaggi confortanti di responsabilità collettiva né fornisce esempi di atteggiamenti costruttivi; la libertà dei cittadini risulta sostanzialmente limitata, povera, talora perfino negata nella vita reale. Vacillano fondamenti importanti della vita privata e pubblica, anche se ben consolidati dalla tradizione. Il ritmo delle richieste di trasformazioni è divenuto così frenetico e caotico da impossessarsi dell’animo dei cittadini, i quali, di conseguenza, discutono acriticamente e frettolosamente tutto, senza prendersi il tempo giusto per riflettere, valutare e scegliere. In tale situazione caotica, perciò, mancano le condizioni necessarie per una chiara visione complessiva dei problemi, idonea a trovarne soluzioni assennate e utili. In simili momenti difficili vengono meno il controllo delle volontà (con cui solamente si preserva il senso della concretezza() e il dominio sugli istinti dell’egoismo e del rancore (con cui solamente si salvaguarda la lucidità della razionalità). In questi ultimi anni, invece, le menti dei cittadini sono offuscate e le loro coscienze sono smarrite, poiché assistono, al posto del dialogo civile e del confronto politico, a scontri passionali e a lotte funeste: come, la dissennata denigrazione delle autorità statuali, i furiosi tentativi di delegittimazione degli istituti governativi, l’assalto impulsivo al potere legislativo del Parlamento, denunciato di dilettantismo e da qualche parte minacciato apertamente di inevitabile estinzione per la presunta sua inconcludente inefficienza.

Per un futuro auspicabile per il nostro Paese s’impone la necessità d’una pausa di riflessione pacata e positiva, al fine di restaurare l’unità degli spiriti e ripristinare le difese naturali della rettitudine morale, della libertà sociale e dell’etica politica. Qualità, queste, garantite soltanto dalla libertà di pensiero e dall’autonomia di giudizio morale critico. Quando, infatti, lo spirito partitico arriva a prevalere su questi punti, emerge allora cupo e minaccioso il fanatismo dei singoli e dei gruppi, con tutte le sue nefaste conseguenze. La crescita della vita delle società e degli Stati è, ovviamente, il risultato anche del progresso sociale e dell’avanzamento culturale dei popoli, i quali non vanno guidati faziosamente e, peggio, violentemente fomentati, ma tempestivamente educati e saggiamente formati, affinchè diventino un insieme di cittadini operosi, corresponsabili e coerenti, cioè un ‘popolo’. Questo compito formativo è affidato a tutte le agenzie formative: dalla famiglia alla scuola, dall’associazionismo laico e religioso ai partiti politici, dagli Enti Locali a tutte le Autorità governative e statuali.

Nel perseguimento di quest’opera di formazione sociale e politica del popolo è sempre sottesa una concezione generale di uomo, di società e di stato. Ora, da tempo ormai non si possono più invocare strutture sociali e ordinamenti statuali ispirati esclusivamente alle dottrine d’un collettivismo acritico, astratto e per certi aspetti irrealizzabile: ne deriverebbero inevitabilmente l’assolutizzazione della società e dello Stato, l’immolazione della concretezza delle individualità singole e degli organismi sociali intermedi, premessa rischiosa di svolgimenti pubblici ambigui e d’imprevedibili esiti totalitari. Ma non sono ugualmente i tempi delle altrettanto teoriche rivendicazioni delle dottrine liberali e dell’ottimistico dominio dell’economia liberista: l’entusiastica idolatria del mito del libero mercato, profeta invocato di benessere individuale e collettivo, ha già generato gravi situazioni d’ingiustizia sociale disumana e d’intollerante assoggettamento culturale.

Il cittadino delle democrazie contemporanee, di fatto, non è né il ‘socialista’ devotamente sottomesso, né il ‘liberale’ osservante senza riserve, e nemmeno il testimone d’una presunta ‘democrazia popolare’. L’odierno cittadino democratico, in realtà, è un individuo indifferente al valore delle virtù umane, sordo al richiamo degli ideali etici, insensibile alle istanze dei doveri sociali e politici. L’uomo democratico, con cui bisogna fare i conti oggi, in concreto, è sorretto e motivato unicamente dalla categoria del tornaconto privato, da raggiungere esclusivamente mediante l’astuto calcolo dell’interesse personale, prevedibile con certezza nello scambio da proporre o da valutare o da accettare. Del resto, già Alexis de Tocqueville aveva tratteggiato i connotati di questo moderno cittadino: insofferente d’ogni regola e disciplina; convinto sostenitore della spontaneità della natura e soprattutto dell’umanità; ottimistico profeta dell’autosoluzione d’ogni congiuntura; paladino eroico della singolarità d’ogni uomo, ritenuta unica titolare d’ogni diritto senza alcun corrispettivo dovere. E’ necessario, pertanto, indagare la possibilità d’una concezione, che conduca a una democrazia autentica e umana, che superi, cioè, da una parte l’idolatria dello stato e, dall’altra parte, il calcolo combinato di interessi privatistici. Si tratta di ricercare una cultura, che concili in armonia le diversità, evitando le opposte pericolose soluzioni dell’omologazione e dell’esclusione, in un contesto di condivisa solidarietà.

Il ‘popolo’ italiano, tutto considerato, potrebbe essere già ben incamminato per questa strada, grazie alla visione dell’uomo, su cui è fondata la Costituzione Repubblicana, nella quale il cittadino è valutato come persona integrale in sé e solidale con gli altri. Siccome in questi ultimi decenni essa è stata dimenticata, talora anche svilita, spesso chiamata in causa solo reclamarne la revisione e addirittura la riscrittura, forse sarebbe utile approfondirne almeno alcuni valori e principi sottesi, tenendo nella giusta considerazione che essi sono il risultato della collaborazione delle tre grandi anime culturali, che hanno contribuito alla ricostruzione fisica e morale dell’Italia dopo la guerra: l’anima socialista, quella liberale e quella cattolica. Si tratta di alcuni articoli, in cui si statuiscono in primo luogo la centralità della persona umana nell’organizzazione dello Stato in tutte le sue attività e, in secondo luogo, un sistema di partecipazione sociale ed economica ispirato a solidarietà nazionale e internazionale.

Per quest’ultimo aspetto, basta rileggere e ripensare i vari ambiti, in cui sono chiamati i cittadini a operare come singoli e come popolo. In primo luogo, il lavoro, fondamento della Repubblica Democratica Italiana, considerato sì come rapporto economico, ma rivendicato anche e soprattutto come valore umano e sociale; quindi, non come criterio di appartenenza a una delle classi sociali, ma come diritto di realizzare la propria vita personale (artt. 1 e 4) e di ottemperare, come cittadini, ai “doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale” nell’ambito della nazione (art. 2) e nel contesto internazionale (art. 10). La solidarietà viene estesa, poi, a orizzonti sempre più vasti, fino a farli coincidere con i confini del mondo: l’Italia, “in condizioni di parità con gli altri Stati, consente alle limitazioni di sovranità necessarie” per realizzare “la pace e la giustizia fra le Nazioni” (art. 11). D’importanza non meno rilevante è, ancora, il riferimento al principio di solidarietà, richiesto proprio dalla dignità dell’uomo, a proposito della tutela della salute, dichiarata “diritto fondamentale dell’individuo e interesse della collettività” (art. 32) e, infine, nella dichiarazione del diritto di una “scuola aperta a tutti” (art. 34).

Il rispetto della persona umana, a sua volta, dev’essere esteso a tutti i cittadini, in quanto “hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali” (art. 3). Essi, inoltre, come unitario popolo italiano, sono gli unici titolari della sovranità nazionale. E’ importante, allora, ripensare – specialmente in questi ultimi tempi - le motivazioni e le finalità inerenti agli articoli 49 e 67, in cui è sancita con chiarezza la forma di democrazia, che i Padri Costituenti hanno progettato: in Italia la democrazia non poteva essere né doveva divenire oligarchia, ma rimanere sempre e comunque “governo del popolo”, che andava posto nelle condizioni concrete di esercitare la propria sovranità in modo continuativo e in ogni occasione, e non soltanto il giorno del voto; si stabilì, allora, la norma del voto libero, uguale, personale e segreto, grazie al quale ogni cittadino, in possesso dei diritti richiesti, in condizione di libertà e di uguaglianza, può (e deve) eleggere il suo rappresentante, che legifererà per delega in ogni situazione particolare, ma sempre nella prospettiva dell’interesse dell’intera Nazione. In concreto i Costituenti immaginarono e stabilirono la libera formazione e la responsabile operosità dei partiti politici. Il combinato disposto degli articoli 49 e 67, pertanto, potrebbe costituire la chiave di lettura di tutto il tessuto strutturale della democrazia italiana: “Tutti i cittadini – è scritto nell’articolo 49 - hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale”; ovviamente mediante il proprio eletto, il quale, sancisce l’articolo 67, “rappresenta la Nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato”, essendo il suo mandato di natura esclusivamente politica.

Il partito politico, quindi, nelle intenzioni dei Costituenti, è la struttura politica realizzabile in ogni luogo dell’intero territorio nazionale, in cui i cittadini partecipano e discutono idee, proposte, iniziative, per formulare progetti di scelte politiche. Da ciò scaturiscono gli elementi costitutivi del partito politico, cioè: libertà di associazione, pluralità di associazione, adozione del metodo democratico nella vita organizzativa interna d’ogni partito e nei rapporti tra di loro e nei confronti con tutti i cittadini, libero contributo di ciascun partito per determinare la politica nazionale. La ragion d’essere dei partiti è la formazione della coscienza politica dei cittadini, che dovranno scegliere tra i più meritevoli i propri “rappresentanti”. In concreto tutto ciò è affidato alle disposizioni delle leggi ordinarie e particolarmente a quelle che disciplinano le competizioni elettorali. Se questo modello costituzionale fosse attuato, si creerebbero situazioni, in cui i dibattiti di idee e le proposte d’iniziative operative fra tutti i cittadini porterebbero sicuramente al “libero concorso” di tutti nella formazione delle scelte politiche nelle diverse istituzioni della Repubblica nell’ossequio dei tre poteri “sovrani”: legislativo, esecutivo, giudiziario. Nella realtà odierna ciò non succede. Ed è facile comprendere che, se i partiti non vivono nell’alveo delle regole democratiche, ma si trasformano in comitati d’interessi particolari, se non addirittura personali, allora, tradendo la Carta Costituzionale, diventano organizzazioni oligarchiche, guidate (e talora dominate) da gruppi dirigenti preoccupati di conservare la propria posizione egemonica. Sarà inevitabile, allora, che siano i dirigenti di partito a controllare l’accesso di nuovi ‘tesserati’, ovviamente non sempre veramente degni e capaci Ma questo è la negazione della democrazia popolare, perché si spezza l’anello che lega la sovranità popolare alla democrazia dei partiti e questa alla democrazia delle istituzioni pubbliche. E’ il trionfo della partitocrazia, corruzione pessima della democrazia. La situazione della democrazia italiana oggi è sotto gli occhi di tutti. Aldo Moro nel 69, nel pieno di un grave sconvolgimento del sistema politico, avvertiva: “Questa crisi va fronteggiata, rendendo acuta la sensibilità dei partiti, aperta la loro azione, ricco di riflessione e di adesione il loro modo di essere nella realtà sociale. Non si tratta, dunque, di annullare i partiti, ma di renderli consapevoli del limite che scaturisce da una più grande ricchezza e vivezza della vita sociale. Riconosciuto, però, il limite, nel quale del resto è implicita una straordinaria occasione di arricchimento e di umanizzazione, dev'essere fermamente riconfermata la ragion d'essere dei partiti, il loro naturale pluralismo, la dialettica democratica della quale essi sono parte, la loro distinzione, la loro polemica, il loro convergere come il loro contrastare".

Non è compito della filosofia prevedere se e quando si possano superare e vincere errori e distorsioni. La filosofia può solo additarli e indicare la via meno incerta della verità politica. Ma tutto presuppone una trasformazione culturale radicale e un audace ritorno alle fonti vere dello spirito anche della Carta Costituzionale. Il compito tocca tutti indistintamente, come uomini e come cittadini: nessuno può sottrarsi alle proprie responsabilità, che richiedono coraggio, azione e lotta, ripudio d’ogni forma di neutralità e accettazione di una parte da sostenere.

venerdì 21 febbraio 2014

FARE ASSOCIAZIONE PER SERVIRE GLI ALTRI

In ogni comunità nascono e operano associazioni di varia natura: sportive, ricreative, assistenziali, culturali, religiose, politiche. Il far parte d’una associazione è determinato, pertanto, da motivi personali, rispondenti a interessi individuali indubbiamente apprezzabili: come, trascorrere del tempo in buona compagnia, ritrovarsi per lo scambio di esperienze, confidarsi impressioni, comunicarsi preoccupazioni.

Di natura particolare sono le associazioni a carattere umanitario, tanto sociale che religioso, nelle quali gli aderenti mettono il proprio tempo e le proprie competenze al servizio degli altri in modo disinteressato, volontario, e sempre con discrezione e riservatezza: il centro dell'attenzione, cioè, è l'altro, con le sue necessità, le sue difficoltà, i suoi problemi. Ovviamente, non tutte le associazioni fanno volontariato, così come non tutto il volontariato è affidato alle associazioni. Le cose stanno così, però, in astratto. Osservando la realtà, invece, queste associazioni qualche volta sono percepite diversamente dalla comunità: si sente affermare, infatti, che si tratta di associazioni, alle quali prende parte chi non ha voglia di lavorare, chi non sa come riempire la giornata, chi vuole mettersi in mostra e chi si dedica a opere caritative e assistenziali, perché ha bisogno di lavarsi la coscienza. Si è convinti che si tratta di perdite di tempo, che viene sottratto al lavoro e al dovere; e, comunque, è meglio starsene a casa propria e non impicciarsi di cose altrui.

Giudizi ingenerosi, superficiali e senza fondamento. Tuttavia, non si può negare che, in qualche caso, siano provocati dal comportamento di qualcuno, che, pur impegnandosi lodevolmente all’interno di un gruppo, rimane talora chiuso in se stesso, non partecipando agli altri il proprio lavoro, condannato, perciò, a rimanere sterile e improduttivo. In questo modo si priva tutta la comunità di importanti benefici morali e sociali. D’altra parte, però, anche alcuni cittadini stanno a guardare cosa facciano gli altri, e non sempre con buone intenzioni, anzi pronti a puntare il dito e a commentare con saccenteria ogni attività. Nei due casi prevale la mania di protagonismo sia dei singoli sia dei gruppi, oggi purtroppo tanto diffusa; essere al centro dell'attenzione sembra essere persino un bisogno, forse perché la nostra società ama premiare chi si mette in mostra, senza considerare valore e meriti reali. Per questo l’espressione “bene comune” spesso è usata senza la più pallida idea di che cosa significhi. L’individualismo ha eroso in maniera consistente quello stato d’animo di appartenenza sociale, costituito da un insieme di valori, per il quale si può e si deve prendere parte a una realtà sociale e comunitaria.

E’ necessario riflettere e cambiare. E alla base del cambiamento c’è l’assunzione di responsabilità, che obbliga a rimboccarsi le maniche. Il primo passo per cambiare concretamente, quindi, è mettersi in mezzo agli altri e in sintonia con gli altri, evitando la prima causa dei conflitti: l’eccesso d’egoismo e la sfiducia negli altri. Ecco, allora, l’auspicio che dev’essere formulato: che ogni associazione sia un luogo, in cui si promuova concretamente vero spirito d’altruismo, in cui si realizzi la formazione di cittadini sensibili ai problemi della comunità e dedicati al bene comune, rendendosi disponibili a uscire dal proprio privato e a impegnarsi nel servizio degli altri, pronti ad affrontarne le difficoltà e a superarne eventuali ostacoli, mantenendosi fedeli ai principi della morale e dell’etica, noncuranti degli umori dei disimpegnati, indifferenti davanti ai giudizi dei faziosi, perseveranti nonostante il sarcasmo di chi, affossato nell’insignificanza e nell’inerzia, sa solo osservare e commentare, per disapprovare.

mercoledì 19 febbraio 2014

PER UNA POLITICA AL SERVIZIO DEL BENE COMUNE

Il cammino, che percorre la vita dei singoli e delle nazioni, è sempre determinato dagli orientamenti decisi di volta in volta dalle libere scelte degl’individui e dalle responsabili gestioni da parte dei governanti chiamati o comunque posti a guida dei popoli. Certo, non si possono svalutare e men che mai misconoscere gl’indirizzi di pensiero, che sostengono la dottrina del fatalismo o la concezione del determinismo; sembra, però, forse più consono alla dimensione razionale propria dell’uomo attribuire l’accadere degli eventi anche al libero e responsabile intervento degli uomini. Si tratterà indubbiamente d’interventi storicamente condizionati e, comunque, sempre commisurati alla facoltà volitiva dei singoli, alla capacità decisionale dei reggitori degli Stati e, non ultimo, supportati dal grado di maturità morale e di autonomia politica di ciascun popolo. Ogni tempo, pertanto, è tempo fatto di scelte alternative, tutte ugualmente legittime e possibili, ma fatte – ci si augura - con valutazione seria e prudente delle necessità reali, delle possibilità concrete di realizzazione e delle utilità ipotizzabili. Da qui la necessità d’una visione complessiva dei problemi politici, che permetta scelte in grado di garantire il destino dei popoli. E non solo dell’Occidente. Oggi, infatti, tempo della globalizzazione anche dei doveri e dei diritti, ricade su tutti la responsabilità di rinvenire e condividere una concezione antropologica ed etica, su cui edificare progetti validi di vita comunitaria, indubbiamente diversificati, ma sempre e comunque garanti e salvaguardia della dignità dell’uomo d’ogni cultura e d’ogni angolo dell’universo.

Questa esigenza non pare, però, sia avvertita da tutti e nel modo più adeguato. Si constata spesso, infatti, come da molte parti, anche da esponenti del mondo dell’economia, della politica e della stessa cultura, si faccia quasi a gara a individuare e denunciare le cause presunte dei disordini, che serpeggiano nelle varie nazioni e nei diversi settori della vita sociale; quasi sempre, tuttavia, sembra prevalere in loro la preoccupazione di valutare ed evidenziare le manifestazioni esteriori delle crisi indagate, senza almeno considerare prima di tutto le radici vere di tali sintomi. Sviati, pertanto, da questo fraintendimento, ricercano e suggeriscono come rimedio interventi di natura pragmatica, funzionali a situazioni particolari e settoriali, che toccano soprattutto il governo politico e l’equilibrio economico. Il complesso delle attività umane d’un popolo, però, non è fatto da una molteplicità di attività separate e giustapposte, ma è costituito in sistema unitario e organico, nel quale ogni attività s’accorda e si armonizza nella totalità del corpo sociale, secondo la gradualità del valore intrinseco di ciascuna. E’ questa totalità organica che nel suo insieme unitario deve tendere verso un unico sommo scopo: il bene comune. La vita d’una società, infatti, è simile a quella d’un organismo vivente, per cui il mal funzionamento d’un solo organo compromette la sanità dell’intero organismo. Nelle odierne situazioni di crisi sociali globali non è in causa il pervertimento di organi della società e di funzioni dello Stato, ma prima di tutto il deterioramento dell’intero tessuto sociale e politico, che determina e alimenta comportamenti dannosi. La diagnosi e la terapia, di conseguenza, debbono essere condotte secondo criteri di giudizio richiesti dal male da curare e non proposti e azzardati alla luce d’interpretazioni personali più o meno fondate o interessate; e debbono riguardare l’intero organismo sociale in ciò che esso contiene di più essenziale ed intimo, e non solo qualche settore più o meno evidente. E’ urgente, pertanto, ritrovare una visione culturale e politica integrale, che offra un’antropologia universale, nel senso che nessuna creatura pensante ne sia esclusa.

Gli uomini, però, nonostante ricerchino continuamente quale sia la loro vera dimensione esistenziale, tuttavia trovano raramente risposte veramente appaganti; forse perché non si ha il coraggio di prendere atto e di accettare la realtà sociale e politica per quello che essa è e si mostra oggettivamente. Ma solo in questo modo può concepirsi fondatamente e perseguire fattivamente il progetto d’una decorosa convivenza di uomini tra uomini, capaci di costruirsi la città: cioè, di fare politica ciascuno secondo le proprie risorse e capacità. Questa responsabilità etica verso il futuro anche degli altri non può essere, ovviamente, né affidata agli umori dei singoli governanti né lasciata in balia degli interessi dei diversi popoli e nemmeno delegata all’arbitrio di eventuali dirigenti non sempre animati da principi validi e nobili. Si rischierebbero molti pericoli. Per evitarli, è necessario provvedere un adeguato ordine giuridico, che determini il fine verso cui indirizzare ogni iniziativa e ne definisca tempi e modalità d’attuazione. Le leggi – secondo un’utile convinzione già del Rousseau – salvaguardano dall’eventuale volubilità del governante di turno, in quanto è autorità propria delle leggi e dell’intero ordine giuridico indicare l’ideale, cioè il vero regno delle finalità, cui gli uomini possono ragionevolmente e debbono moralmente aspirare. Le leggi, pertanto, salvaguardano e concretizzano libertà e doveri dei singoli, moralità ed eticità degli Stati. Diritti e doveri, dunque, non risultano stabiliti, concordati o elargiti dall’esterno della natura umana e della storia, ma sono insiti in esse. Lo stesso Giovanni Gentile, trascendendo il rigore logico del suo attualismo, ha scritto arditamente che “la società è dentro l’uomo”.

Ecco, allora, il legame, che unisce diritto ed etica; legame affidato, nella realtà, alla responsabilità di tutti, ma in primo luogo di chi sceglie o accetta di farsi carico del governo della cosa pubblica. Il nesso politica-diritto-morale è stato ed è essenziale in ogni tempo e in ogni situazione, ma s’impone con maggiore forza in tempi, in cui nelle scelte e negli orientamenti delle nazioni, l’affannosa ricerca dell’interesse privato e dei gruppi particolari prevale talmente che il sentimento dell’altruismo e la coscienza delle comuni responsabilità restano sovrastati e talora addirittura annichiliti. Non sembra fuor di luogo, pertanto, l’opportunità di ripensare le proposte antropologiche e socio-politiche avanzate da dottrine ”integrali “ del passato e del presente e di diversa matrice culturale, quali il pensiero umanistico di Erasmo da Rotterdam, gli sforzi dei movimenti ispirati al latitudinarismo e all’irenismo in generale e del XVII secolo in particolare, i messaggi dell’induismo di Mahatma Gandhi aperto al buddismo e al cristianesimo, il personalismo cristiano e in particolare cattolico soprattutto di Emmanuel Mounier e di Jacques Maritain, il principio di responsabilità altruistica degli ebrei Huns Jonas e Emmanuel Lévinas, ovviamente senza disattendere le esigenze espresse e proposte anche da teorie contemporanee della filosofia sia continentale che analitica. Questi pensatori - ciascuno con specificità proprie e nel contesto storico d’appartenenza – intuiscono e ammoniscono sostanzialmente che la politica reale, cioè il costruire fattivamente la città, non è assemblare attività staccate, ma strutturare un intero integrale di attività all'altezza di veicolare l’orizzonte di universalità in ciascuna società, in modo da consentire il graduale superamento dei limiti economici ed individualistici. Dal momento che la società è un organismo eminentemente etico, consegue che lo Stato dev’essere affidato in primo luogo a uomini testimoni e difensori della dignità integrale dell’uomo e del cittadino, e non gestito soltanto da professionisti dell’arte del governo e da tecnici esperti dei meccanismi economici e sociologici. Non si può, infatti, ritenere (come sembrano fare alcune concezioni di democrazia, già rappresentate in modo esemplare nella figura di “homo democraticus” da Alexis de Tocqueville in “La democrazia in America”), da una parte di esaltare la singolarità della natura umana, come pretenderebbe il liberalismo o, dall’altra parte, di sopravvalutarne la dimensione sociale, secondo il dettato del sociologismo sulle tracce del pensiero, tra gli altri, di Auguste Comte, Karl Marx, Emile Durkeim. Tanto l’irripetibilità dell’individuo quanto la sua dimensione sociale vanno sottratte ugualmente alla glorificazione dell’assoluta libertà del singolo, alla boria d’orgogli nazionali e, soprattutto, alle spesso dissennate richieste di mercato. La creazione e il mantenimento della società vanno restituiti al gesto libero e consapevole dell’uomo. Non si tratta di capovolgere le possibilità di relazioni singolo-società, ma solo di reinterpretarle in maniera che si salvino sempre e contemporaneamente la singolarità d’ogni cittadino e le indiscutibili esigenze di convivenza. Bisogna in ogni caso riscattare il responsabile intervento del cittadino nella società: egli, non una volta per tutte, ma momento per momento, quando e se lo vuole, deve poter decidere e lavorare per la costruzione della società, cui sceglie di partecipare.

L’obiettivo finale cui aspirare, pertanto, è di ritrovare le motivazioni etiche prima che giuridiche, capaci di offrire vitalità sempre nuova alla convivenza pacifica e costruttiva tra gli uomini, in una crescente visione del dovere civile e morale dell’impegno anche politico. Il quadro spesso davvero desolato del mondo contemporaneo, però, denuncia la carenza di queste istanze, poiché talora si preferisce ubbidire a qualcuno e sottomettersi a qualcosa piuttosto che affrontare le difficoltà per conquistare la propria formazione umana totale e, quindi, anche politica. L’attuale scena politica fa assistere a “politici di professione”, che all’occorrenza si fanno affiancare anche da “tecnici” per la soluzione di particolari situazioni sociali ed economiche. Questa collaborazione è lodevole ed esemplare. Però, a considerare bene i fatti, nascono dubbi e perplessità, quando si analizzano più a fondo le motivazioni, che determinano le scelte dei tecnici e dei politici di professione. Entrambe le figure operano senza dubbio legittimamente entro la propria logica professionale e politica; ma non si sa quanto integralmente umana. Non si sa, insomma, quanto la loro azione sia ispirata a motivazioni umane generali e non dettata, invece, da contingenze particolari.

Ecco, a questo punto, l’opportunità di affiancare al politico e al tecnico una generazione di “politici di solo servizio alla politica”, che possano collaborare, nella reciproca stima, con i primi. Si tratterebbe di persone dedite ordinariamente ad un mestiere o a una professione, che danno la propria disponibilità per un loro impegno nella politica attiva e, qualora ne sia il caso, anche di assumere impegni, in cui porre a disposizione le proprie competenze ed esperienze, sempre con la pubblica e vincolante promessa di una partecipazione solo a tempo e a titolo di gratuità. Cosa forse non facile. Queste persone, infatti, hanno non pochi motivi per tenersi distanti dalla vita politica. Le ambizioni di molti, nella realtà, renderebbero vana la loro opera; e il modo di pensare comune, convalidato dal corso dei fatti, attesta che il successo spesso premia l’andazzo ed emargina nell’indifferenza e nel silenzio chiunque s’opponga. Certo, questa proposta potrebbe suonare come una nostalgica aspirazione suggerita da rimpianti d’un passatismo mesto e sterile. E’ difficile a dirsi, quindi, se possa essere obiettivo realizzabile o chimera destinata a restare nel mondo degli ideali, come sogno bello o utopia vana. E’ un dubbio, comunque, che aveva assillato già Immanuel Kant, il quale, però, senza assumere alcuna aria di sufficienza ma speranzoso nell’umana ragione, si rispondeva che importante non è che l’ideale si realizzi, ma che l’uomo viva come se lo fosse; e ai suoi contemporanei, che deridevano le idee platoniche da lui riproposte, ribatteva che se, anziché deriderle, si dedicassero al loro possibile raggiungimento, tutto il mondo sarebbe andato certamente meglio.

Non c’è bisogno, allora, di una serie di soluzioni, ma di una soluzione unica e globale, cioè perseguire una politica, che si proponga di esprimere i valori propri della persona umana, riprendendo serie indicazioni d’elevato spessore etico, tali che innalzino il livello del confronto politico, spostandolo dalla mortificante combinazione di interessi parziali a una più vasta visione di obiettivi di portata generale. Per questo è opportuno il coinvolgimento di personalità d’indiscussa esperienza, ma anche in grado di individuare gli interessi generali. E’ un progetto certamente lungo e faticoso; ma forse è l’unico capace di ridare senso alla partecipazione politica del cittadino. E’ un progetto che richiede principalmente fiducia e speranza: si tratta, infatti, di gestire il presente, ma senza rimanere oppressi dalla logica dell’immediato, soprattutto se si considera la vera essenza della democrazia, che è una visione globale dell’uomo e del mondo e uno stile di vita privata e pubblica prima e più che una forma o una tecnica di governo. Essa, se inadeguatamente intesa e perseguita, corre il rischio di rimanere seriamente tradita nella sua stessa ragion d’essere di “governo del popolo, da parte del popolo, per il bene del popolo”, e può diventare dominio del numero più grande (non necessariamente sempre dei migliori) sul numero minore di cittadini (non necessariamente sempre dei meno buoni). E questo vale soprattutto nei nostri giorni, quando la crisi dell'etica pubblica è sotto gli occhi di tutti.

sabato 30 novembre 2013

RIFLESSIONI AL FEMMINILE


Della figura e dei problemi della “donna” in genere parlano “uomini”. Forse è preferibile che parlino le donne stesse. E ascoltiamo qualche riflessione di una filosofa davvero impegnata.

La professoressa Michela Marzano, laureata in Filosofia all’Università di Pisa, è ordinario all’Università di Parigi V. E’ Autrice di numerosi saggi ed articoli di filosofia morale.

L’analisi della fragilità della condizione umana rappresenta il punto di partenza delle sue ricerche e delle sue riflessioni filosofiche.

CONFESSA
Se non avessi attraversato le tenebre, forse non sarei diventata la persona che sono oggi. Forse non avrei capito che la filosofia è soprattutto un modo per raccontare la finitezza e la gioia.

RISPONDE

Professoressa Marzano cos'è per lei l'amore? 
Ah! Domanda difficile, perché in questo momento sto cercando di riflettere… proprio perché sto scrivendo il mio prossimo libro sull’amore.
Dunque, l’amore. Intanto comincerei col dire ciò che non è l’amore. L’amore non è la fusione, non è nel momento in cui io penso che l’altra persona possa colmare esattamente il vuoto che mi porto dentro, che sono confrontata all’amore, perché in quel caso confondo l’amore con il bisogno.
L’amore però, al tempo stesso, non è nemmeno indifferenza, che poi è praticamente lo scoglio di fronte al quale ci troviamo: se non posso arrivare a una fusione con l’altra persona perché l’altra persona non può colmare il mio vuoto, non posso nemmeno fare come se l’altro fosse un estraneo e quindi mettere troppa distanza tra me e l’altro. Partendo da queste due cose da evitare, l’amore è un equilibro delicato che consiste a dare e ricevere. Lacan direbbe che: “Ogni qualvolta che si ama, si dà ciò che non si ha, a una persona che non lo vuole”. Secondo me è una definizione molto bella dell’amore perché effettivamente quando si ama, si ha tendenza a voler dare alla persona che si ama, quello che si vorrebbe ricevere da questa persona. Solo che, siccome l’altra persona è altro rispetto a noi, probabilmente quello che lui o lei vuol ricevere non è quello che gli stiamo dando. Ecco perché c’è questo paradosso, io do a una persona che amo quello che non ho, anche se questa persona molto probabilmente non vuole quello che io le sto dando.
C’è sempre un’incomprensione all’interno dell’amore: si dà e si riceve, anche se il tutto in maniera sempre asimmetrica e imperfetta.

Come spiega l'esistenza della sofferenza in ogni sua forma?
Non credo si possa spiegare la sofferenza. Quando si soffre, si cerca disperatamente di trovare un perché. Il perché di questa sofferenza, però, sfugge sempre. Per certi aspetti, la sofferenza è sempre inutile e sempre senza senso. Ecco perché bisognerebbe smetterla di cercare per forza un “perché”. Quello che conta, talvolta, è spostarsi dal “perché” al “come”: non “perché soffro?” ma “come posso fare per soffrire meno?” Purtroppo quando si parla della sofferenza c’è sempre qualcosa che rinvia al mistero della condizione umana. Questo non vuol dire che si debba accettare la sofferenza. Al contrario. Si deve cercare si superarla e di diminuirla. Sapendo però che tante volte si è impotenti.

Qual è per lei il senso della vita?
Per me il senso della vita è vivere! Se si cerca di andare al di là del vivere, talvolta ci si perde.

sabato 5 ottobre 2013

FEDELTA’ E COERENZA DURANTE LA VITA


Nel corso dell’esistenza umana si sperimenta e, quindi, necessariamente si deve riconoscere e accettare che la vita in ogni suo aspetto (personale e familiare, sociale e relazionale, professionale e lavorativo) non è mai staticità e inerzia; infatti, non sarebbe vita, ma morte. La vita, di conseguenza, comporta inevitabilmente cambiamenti, che richiedono adeguati mutamenti talora sostanziali.

 
L’uomo è chiamato a comprendere con decisione questa verità effettuale, se ha l'intenzione di ricercare realmente il senso vero delle varie situazioni, che si susseguono e investono casi positivi e gratificanti, ma anche momenti avversi e infelici. Ben fermo, allora, nella sua onestà morale e saldamente ancorato sulla sua saggia fedeltà, egli opera scelte coerenti, che sono spesso fondamentali, decisive e talora anche difficili. Sono, infatti, scelte, che spesso richiedono coraggio e pesano moltissimo, e tuttavia destinate a dare senso nuovo e vero al proprio esistere. Se non si ha la forza di allargare lo sguardo oltre l’orizzonte d’un proprio presente tranquillo e confortevole, per scrutare un oltre per lo più misterioso e temuto, si rischia di rimanere irretiti e schiacciati da un presente ormai privo d’ogni consistenza. Non si può restare attaccati ai più o meno ampi confini d’un’esistenza pacifica perché immobile e immutata, a meno che non ci s’illuda d’attribuire un peso anche all’inconsistente e un significato all’impossibile e, proprio per questo, assurdo e insensato. Tutto scorre; anche il tempo scorre. Scorre anche ogni giorno della vita umana. Ciascun uomo ha ogni giorno l’opportunità o di scolpire, come su dura pietra, quotidiani documenti imperituri di vita autenticamente vissuta oppure di scribacchiare, come su fogli cartacei marcescibili, casuali scarabocchi degni solo del macero.


Verità certamente facile a dirsi, forse anche difficile a comprendersi, ma sicuramente molto arduo a realizzarsi. Non è eccessivo paragonare i momenti di questi stati d’animo ai dolori del partorire: senza dolore lacerante non viene alla luce una vita nuova, che sarà poi anch’essa un’avventura di luce e di buio, di bello e di brutto, di bene e di male, di gioia e di dolore, d’entusiasmo e di sfiducia, di voglia di vivere e di tentazioni di odio verso tutto e tutti.

 
Il percorso della vita si realizza, quindi, in continui cambiamenti determinati dal mutare dei convincimenti personali  e delle situazioni sociali e culturali: si tratta, quindi, di mutamenti sollecitati dall’evolvere sia della propria personalità e sia del mondo esterno. Se si trattasse, però, di alternative ricorrenti normalmente, non nascerebbe alcuna difficoltà; i problemi nascono, invece, quando i dettami del proprio animo e le richieste della storia e del mondo socio-culturale sono differenti se non addirittura opposti. E’ in questi casi che nasce il grave interrogativo: cosa sono la coerenza e la fedeltà?

 
Viene subito incontro l’ammonimento di Mahatma Gandhi: “Meglio un milione di volte sembrare infedeli agli occhi del mondo che esserlo verso noi stessi”. La fedeltà e la coerenza, infatti, sono sostanzialmente il segno e la manifestazione del benessere interiore personale. E' una condizione di equilibrio, di serenità e di contentezza, in cui ci si sente esattamente come si desidera essere e in cui si ha proprio ciò che si desidera avere: “Solo chi è fedele in se stesso – avverte Erich Fromm - può essere fedele agli altri”; quegli “altri”, che a volte – anche pensando onestamente e comportandosi in buonafede, addirittura mossi da zelo sincero e persino sollecitati e confermati da elementi apparentemente indiscutibili – corrono il rischio di fraintendere verità personali e obiettive e di snaturare realtà individuali e collettive. Anche in questa circostanza, però, la serenità e la contentezza interiori possono essere solo lambite da brevi momenti di tristezza morale causata da equivoci, confusioni e ambiguità, ma giammai turbate nella loro essenza.

 
QuestauestaQ condizione di benessere interiore, però, non è da confondere con la chimera della felicità (pura aspirazione dell’uomo d’ogni età) e non è caratterizzata dalla quantità di esperienze positive e gratificanti, in quanto in essa permangono tutti gli elementi di fatica, di tedio, di dolore. Ogni avvenimento in qualunque ambito accada - purchè ponderatamente deciso e definito dentro l’orizzonte di fedeltà e di coerenza alla totalità della propria personalità - comporta sempre un arricchimento e produce crescita, benché s’accompagni sempre a stati d’animo di turbamento: i logici motivi della ragione non sempre sono in sintonia con gli umani sentimenti dell’animo; e riorganizzare le nuove modalità di vita richieste dalla propria fedeltà e coerenza è impresa non facile, ma delicata e talora lunga e difficoltosa.

 
Di conseguenza, fedeltà e coerenza in qualunque ambito non sono un valore in sè e per sè, ma sono sempre agganciate a una scelta di vita, che abbia valore in sé e che ne fondi la validità: coerenza e fedeltà scaturiscono sempre da una scelta personale di fondo e sono indirizzate al raggiungimento d’un obiettivo motivato interiormente e giustificato da situazioni storicamente concrete. Nel corso della vita sono molte le strade che si presentano, ma una sola è quella veramente giusta: si  tratta di capire quale sia, fra tutte le altre: cosa non sempre agevole, perché può essere fra quelle meno comode e invitanti; anzi, può presentarsi addirittura sbarrata dai rovi e soffocata da una densa vegetazione, che ne rendono arduo il cammino. E tuttavia un richiamo misterioso, segreto, irresistibile spinge verso di essa, se si è capaci di fare un po' di silenzio nell'animo. Fedeltà e coerenza, pertanto, non sono due facce del comportamento umano, bensì due elementi sostanziali, che costituiscono l’intero spessore vitale d’ogni uomo, racchiuso in un progetto globale dettato dalle spinte della totalità umana: ragione, mente, esperienza, cuore, sentimento, sostenuti sempre da una volontà tenace e soprattutto da una personalità umile e dignitosa, perché libera da tutti e da tutto, anche da se stessa (altrimenti si trasformerebbe in idolo che schiavizza subdolamente).


Percorrere con perseveranza il cammino della vita con fedeltà e coerenza ai convincimenti del proprio animo è difficile, anzi significa rasentare l’eroismo etico. Chiunque, infatti lo testimoni, è uno straniero nel mondo e un anormale nella storia (o almeno così è guardato quasi sempre). Chiunque cammini per le strade della città senza indossare la maschera della finzione e dell’ipocrisia è additato come un fenomeno strano e inquietante dai più, i quali, invece, non se la tolgono mai. In verità, ogni essere umano resta sempre uno straniero per gli altri, in quanto ciascuno porta in sè il proprio mistero e la propria solitudine e cova nell’intimità del proprio animo suoi interrogativi, che nessuno conoscerà mai e ai quali egli stesso forse non saprà dare mai una risposta. A quest’isolamento costitutivo della natura umana s’aggiunge, però, un altro isolamento, forse più amaro: quello cui è condannato chiunque si sforzi d’essere autentico in qualunque circostanza, senza piegarsi alla direzione da cui soffia il vento della convenienza egoistica e del calcolo privato; è l’isolamento cui lo condannano spesso l'indifferenza proprio degli “altri”, la sorda ostilità del vicino e, dolorosamente, la noncuranza dell’amico.

 

 

 

lunedì 5 agosto 2013

IMMORTALITA’ DELL’UOMO E RELIGIOSITA’


Socrate, rivolgendosi ai giudici che gli avrebbero confermato la sentenza di condanna a morte, faceva loro notare ch’egli era ormai molto vecchio, per cui riteneva di non doversi affliggere della sorte che l’attendeva, in quanto non gli sarebbe rimasto comunque molto altro tempo da vivere sulla terra. Ma li avvertiva di una conseguenza certa. Essi, condannandolo a morte, sarebbero stati immortalati dalla fama d’aver ucciso un uomo sapiente; egli, invece, nonostante non si ritenesse sapiente, sarebbe sopravvissuto come martire e sarebbe stato non solo perpetuato, ma anche imitato da molti discepoli e amici. La conseguenza, quindi, era inevitabile: se fino allora il fastidioso fustigatore dei vizi dei potenti era stato uno solo, in seguito si sarebbero moltiplicati. Gli uomini virtuosi, saggi e onesti non muoiono mai del tutto, ma vivono in eterno: la virtù e la rettitudine rendono immortale. E Socrate, infatti, è tuttora vivo, e tale resterà proprio grazie all’integrità conservata fino all’ultimo, fino agli estremi d’ogni umana possibilità. Primo martire della filosofia occidentale, egli non solo non invoca pietà, ma non usa nemmeno parole di suadenti lusinghe per impietosire o false argomentazioni per fuorviare i giudici; si rimette totalmente al loro giudizio qualunque esso sarà; rimane calmo nella serenità propria dell’uomo giusto e onesto. Vissuto nella rettitudine e nella giustizia, è profondamente convinto che può attendersi solo il bene e la felicità anche dall’eventuale condanna a morte, ch’egli immagina o un amabile profondo sonno o un felice ritrovarsi nel regno degli inferi con i grandi eroi d’ogni tempo. E conclude verso i giudici: “Vedo che è tempo ormai di andar via, io a morire, voi a vivere. Chi di noi avrà sorte migliore, è a tutti ignoto, tranne che al nume”.

 

In queste parole conclusive di Socrate resta scolpito l’interrogativo che s’è posto da sempre e continuerà a porsi l’uomo d’ogni tempo: cos’è la vita e cos’è la morte. Interrogativo senza risposta umanamente certa: nessun essere mortale, infatti, ha mai saputo veramente cosa sia quello che si considera “vita” e quello che si definisce “morte”; lo stesso Socrate si limita solo a rappresentarsi due congetture, che scaturiscono dal profondo della sua anima, mentre sta vivendo momenti di rara sublimità. “Quasi per sua natura – scrive a proposito l’Anonimo autore del Sublime - l’anima si esalta e, prendendo non so quale generoso slancio, si riempie di gioia e d’orgoglio (…); il sublime non porta alla persuasione, ma all’esaltazione, perché il sublime è l’eco della grandezza interiore (…); tutti partecipano di un moto d’animo collettivo che genera un’esperienza di vita e un’iniziazione, una comunicazione alta di concetti e di valori, che conduce quasi inevitabilmente a una vita migliore”. Solo affidandosi a simili stati d’animo di “sublimità”, l’uomo giungerà, riguardo al suo essere, a qualche risultato confortante e capace di liberarlo dall’angoscia forse ingiustificata, ma non per questo meno dolorosa, poiché è causa d’un’insopportabile oppressione di paure e di superstizioni.

 

A questo proposito ritorna alla memoria il poeta latino Lucrezio, quando, momentaneamente quasi dimentico delle sue ben salde convinzioni atomistiche e meccanicistiche che sta esponendo nel De rerum natura, inaspettatamente sembra cedere a una forma d’insolito realismo, armonicamente mescolato a una complicità quasi affettiva. Immerso in uno stato d’animo di empatia universale, dà vita a versi intensamente umani, nei quali, dopo aver evocato alla nostra considerazione tutti gli esseri animati e inanimati, con un colpo d’occhio istantaneo ci protende all’infinito fino a trasportarci in un’avventura meravigliosa, che ci innalza fino alla magnificenza e al silenzio degli spazi celesti: “Quando – s’interroga - leviamo lo sguardo agli spazi celesti dell’immenso cosmo, e più in alto ancora all’etere trapunto di astri splendenti, e ci vengono in mente le vie della luna e del sole, allora un’angoscia coperta nel cuore dagli altri dolori comincia a destarsi e anch’essa a levare la testa: forse si sta mostrando un immenso potere divino, che volge le stelle luccicanti nei loro molteplici moti?”.

L’uomo assiste ogni momento all’ineluttabile ciclo che scandisce la vita d’ogni essere abitatore della terra: nascita, crescita, maturazione, declino, morte: guarda questa legge universale con fredda audacia, senza mai sfidarla, talora forse la teme, ma sa benissimo che è comune destino inevitabile. E tuttavia non vi si rassegna mai del tutto. Nel suo profondo percepisce una misteriosa esigenza di sopravvivenza. Non è vile paura di morte né arrogante anelito all’eternità tra i viventi. E’ una nascosta ma forte, arazionale ma umana, inspiegabile ma insopprimibile esigenza d’immortalità. Parte di una Totalità, intuisce, senza saperselo spiegare, che egli non può essere del tutto transeunte e contingente. E spera solo che sia un’esigenza che poggi sul fondamento di qualche realtà immanente come lui, ma nello stesso che lo superi e lo trascenda.

 
E’ la convinzione nutrita anche da Socrate e da Lucrezio. Un nascosto “nume” onnisciente, un ignoto “immenso potere divino” reggono e guidano – forse - il cosmo: è questo il punto d’approdo dei due pensatori così lontani nel tempo e diversi per cultura e sensibilità, ma così in sintonia davanti ai supremi misteri, che avvolgono la vita dell’uomo e la realtà del mondo. E molti secoli più tardi, dopo le conquiste del rinascimento e i progressi delle scienze alla vigilia dell’illuminismo, al loro pensiero s’unirà, tra gli altri, Giambattista Vico con l’arduo pensiero tramandatoci nella Scienza nuova: l’uomo – annota - contemplando il mondo e considerando il magnifico misterioso avvicendamento dei suoi aspetti, viene assalito e dominato da molti sentimenti diversi, di ammirazione e di stupore, ma anche di paura e di sbigottimento, tanto da essere indotto a invocare qualcosa o qualcuno come suo aiuto o comunque come forza amica, che ne garantisca la sopravvivenza e l’immortalità. Si origina allora nell’animo umano il sentimento della “divina provvidenza”, che poi la ragione indagherà e la volontà accoglierà o respingerà. Secondo il Vico, infatti, l’innato desiderio d’immortalità è spiegabile solo da un principio superiore: “Pur gli uomini – sostiene - hanno essi fatto questo mondo di nazioni (...), ma egli è questo mondo, senza dubbio, uscito da una mente spesso diversa ed alle volte tutta contraria e sempre superiore ad essi fini particolari ch'essi uomini si avevan proposti”.
 
La vera “ordinatrice del mondo delle nazioni” è, dunque, la provvidenza: “Ché senza un Dio provvedente, non sarebbe nel mondo altro stato che errore, bestialità, bruttezza, violenza, fierezza, marciume e sangue; e, forse senza forse, per la gran selva della terra orrida e muta oggi non sarebbe genere umano”; e all’inizio dell’opera aveva avvertito prudentemente e con sagacia: “Il diritto naturale delle nazioni egli è certamente nato coi comuni costumi delle medesime: né alcuna giammai al mondo fu nazione d’atei, perché tutte incominciarono da una qualche religione. E le religioni tutte ebbero gittate le loro radici in quel desiderio che hanno naturalmente tutti gli uomini di vivere eternamente; il qual comune desiderio della natura umana esce da un senso comune, nascosto nel fondo dell’umana mente, che gli animi umani sono immortali; il qual senso, quanto è riposto nella cagione, tanto produce quello effetto: che, negli estremi malori di morte, desideriamo esservi una forza superiore alla natura per superargli, la quale unicamente è da ritrovarsi in un Dio che non sia essa natura ma ad essa natura superiore, cioè una mente infinita ed eterna; dal qual Dio gli uomini diviando, essi sono curiosi dell’avvenire”.
 
Il Vico assicura che la potenza del desiderio d’immortalità è proprio della natura umana, ma avverte che non deve divenire e tanto meno cedere alla tentazione d’onnipotenza. E ne indica il rimedio. L’uomo – assicura - ha sempre e comunque il potere e la responsabilità di decidere il cammino suo e dell’umanità; tuttavia, davanti a fenomeni d’enorme potenza ineluttabile, come la morte, sente nascere in sé il bisogno di pensare e d’invocare un “Dio” che lo soccorra nella sua finitezza e rimedi alla sua mortalità.
 
Certo, anche di recente Martin Heidegger in Essere e Tempo avvertiva, dopo le tragedie delle dittature, che “solo un Dio ci può salvare”: ma finiva per sprofondare in antichi sonni dogmatici, dai quali ci aveva svegliato definitivamente Immanuel Kant. Il Vico, invece, anticipando il filosofo del criticismo, aveva portato l’umanità fuori dallo “stato di minorità”, perché non cedeva a qualunque forma di dogmatismo (tanto in metafisica quanto nella stessa fisica). Il bisogno d’immortalità fa invocare un “Dio” superiore a tutto, ma è assolutamente privo d’ogni carattere di antropomorfismo. Vico, inoltre, si discosta dal demiurgo di Platone, dal “sommo Padre Architetto” di Pico della Mirandola e di Isaac Newton; si avvicina e accoglie, invece, il “Dio della Legge” degli antenati, immanente e nello stesso tempo trascendente la mente umana, tale che illumina e guida le scelte d’ogni essere umano nei confronti di se stesso e del cosmo intero. Il Vico, quindi, propone una divinità, che nasce dal desiderio umano e che è vissuto come l’unico sommo “provvedente di tutte le nazioni”, il garante dei valori della “natura umana tutta dispiegata e riconosciuta uguale in tutti”. Per Vico questa è “la sola luce” che fa capire che “il mondo delle gentili nazioni egli è stato pur certamente fatto dagli uomini”, ma nello stesso tempo svela anche “due gran princìpi di vero: uno, che vi sia provvidenza divina che governi le cose umane; l’altro, che negli uomini sia la libertà d’arbitrio, per lo quale, se vogliono e vi si adoperano, possono schivare ciò che, senza provvederlo, altrimenti loro apparterrebbe”.
 
 Ritornare a queste riflessioni di filosofi anche del passato potrebbe sembrare superfluo, poiché la cultura come minimo degli ultimi due secoli ha sancito senza incertezze non solo la mortalità dell’uomo, ma anche la morte di Dio stesso. Nietzsche, infatti, in “Aurora” (1881) derideva coloro che sognavano l’immortalità dell’uomo: “A questa bella vostra coscienza di voi stessi augurate, dunque, una 'eterna durata’? Non è un’insolenza? Non pensate a tutte le altre cose, che dovrebbero sopportarvi per tutta l'eternità, come vi hanno sopportato fino a oggi?”; e qualche anno dopo, nella “Gaia Scienza” e in “Così parlò Zaratustra” annunciava trionfalmente anche la “morte di Dio”. E in verità, se si riflette sulle vicende solo del secolo passato, non si può nascondere un senso di smarrimento: le guerre mondiali, le dittature e le tirannie, i successivi eventi deludenti delle neonate democrazie, le crisi globali non solo e non tanto dell’economia, ma anche e soprattutto delle ideologie e di molti modelli valoriali, non farebbero davvero pensare diversamente e sperare meglio. Preferibile, quindi, rinverdire pensieri e speranze di chi ci ha preceduto.
 
A meno che non ci si voglia rifugiare nell’affascinante profetico progetto della neonata filosofia dell’immortalità, rappresentata soprattutto da Raymond Kurzweil, il quale, rifacendosi al Wittgenstein e alle sue ramificazioni neopositivistiche, nutre grande fiducia, se non addirittura la certezza, di scoprire e garantire entro pochi decenni l’immortalità umana, grazie alle scoperte del trinomio Genetica-Nanotecnolgia-Robotica. A questo riguardo, però, sarebbe augurabile dare ascolto ai prudenti e sofferti messaggi di Huns Jonas: è certamente necessario dimostrare ampia apertura verso la dignità e la libertà di ricerca, la quale deve poter compiere il suo compito, ma non si deve mai dimenticare di verificare le reali capacità conoscitive della ragione umana. Certo, l’allungamento della vita dell’uomo è un fatto evidente, ed è una considerevole conquista incontestabile della ricerca scientifica; allo stesso modo, è anche ragionevole prevedere che altri progressi ridurranno ancora i tempi dell’invecchiamento e della mortalità. Ma è lecito chiedersi, comunque, fino a che età si potrà vivere in futuro e se si potrà raggiungere davvero l’immortalità. A quel punto, però, bisognerà chiedersi anche se il bisogno di una divinità scomparirà realmente oppure sarà solo rimpiazzato dall’onnipotenza dell’uomo. Alle porte di questo evento, comunque, potrebbe stare in agguato e attenderci il destino prefigurato dall’onnipotente Kirillov de “I demoni” di Dostoevskij: l’uomo realizzerà e dimostrerà la sua onnipotenza, solo quando sarà capace di vincere e distruggere tutto: compreso, quindi, se stesso. L’onnipotenza dell’uomo coinciderà con il nulla totale.