Il Tempo, in sé fluire di momenti transeunti che vanno accolti, si apre a un "oltre" custode Eterno di valori trascendenti che vanno abitati. Vicende e realtà tendono alla suprema fusione nell'infinita Totalità, anima di ogni Speranza.

venerdì 21 dicembre 2012

...in ascesa... riflessioni Quintiniane per l'Associazione "Amici di Don Quintino"

per l'Associazione "Amici di Don Quintino" Melissano (Le), dicembre 2012

Contemplare significa saper osservare ogni cosa e ascoltare ogni messaggio, al fine di scoprire verità sempre nuove e vedere beni sempre maggiori; e per don Quintino il silenzio della contemplazione era il modo migliore per ascoltare gli altri, avvicinandosi loro sino a condurli alla Verità eterna: nell’ascolto dell’altro si diventa veramente persone, che non hanno paura della diversità che le circonda; ma è necessario mettere a tacere tutto ciò che è puramente umano e psichico, facendo tacere ogni elemento contingente e porgendo l’orecchio alla voce della verità, che parla con un linguaggio umanamente ineffabile, perché superiore allo stesso pensiero. Nella contemplazione solitaria e silenziosa l’uomo si lascia affascinare e possedere dalla verità, con la quale instaura una relazione amorosa quasi fosse una persona vivente. E, colui che conosce e possiede la verità, può realizzare ogni propria aspirazione solo unendosi all’altro, e non lo lascia più: nella meditazione silenziosa si attua il grande mistero del superamento delle diversità e della loro unificazione totale; un mistero dell’amore alla Verità che unisce, e che fa guardare tutta la realtà, penetrandovi sin nella più profonda intimità. Don Quintino ha incontrato l’Eternità, e nell’eternità ha scoperto la propria identità”.

domenica 8 aprile 2012

DEMOCRAZIA IN CRISI. DIGNITA’ UMANA E GIUSTIZIA SOCIALE

La “democrazia”, prima che una dottrina politica e una forma di governo, è una visione generale dell’uomo e del mondo, fondata su valori propri e caratterizzata da princìpi consolidati e storicamente sperimentati. La concezione ideale normalmente condivisa di democrazia è riassumibile nella formula “governo del popolo, da parte del popolo, per il bene del popolo”. Si tratta di un trinomio inseparabile, tale, cioè, che in mancanza di uno solo dei tre termini, la sostanza dello spirito democratico rimane incompiuta, falsata e tradita. Ogni popolo ha bisogno di una guida e, quindi, deve poter contare su un “buon governo”. Ad accollarsi questo peso e a caricarsi questa responsabilità debbono essere, perciò, guide esperte, sagge e prudenti; chiunque si gravi della responsabilità di governare un popolo deve possedere competenze adeguate, conoscenze ampie e idonee, doti morali d’indiscussa trasparenza, princìpi etici solidi ed esemplari. Il “governante”, che voglia essere e agire “democraticamente”, si deve astenere da ogni tornaconto personale o da qualunque interesse esclusivo di qualche gruppo, dedicandosi, al contrario, esclusivamente ad amministrare quale delegato da tutto il popolo e per il bene di tutto il popolo. Questo significa che egli, almeno per tutto il tempo in cui è responsabile della cosa pubblica, cessa d’essere cittadino “privato” o “di parte” e diventa “pubblico”, cioè di tutti; come tale deve sottoporsi a continua verifica da parte del popolo, in modo da potersi proporre a tutti come “modello” di onestà, di probità, di altruismo disinteressato e gratuito. Solo così sarà e mostrerà a tutti d’essere testimonianza di democrazia autentica: questa, infatti, è servizio rivolto a tutti e reso con impegno e disinteresse; servizio, cioè, che rigetta qualunque forma di attaccamento al potere e rifiuta ogni tentativo d’asservimento del potere a obiettivi personali o di parte.

La democrazia, di conseguenza, non resta mai una pura idea astratta, ma s’incarna nelle persone concrete che la gestiscono e si traduce in regole operative quotidiane, che ispirano e dirigono i comportamenti concreti sia dei governanti sia dei governati. E i caratteri fondamentali dello stile democratico risultano l’altruismo, la coerenza, l’integralità, la testimonianza. Grazie alla condotta suggerita da questi valori, il sistema democratico persegue e garantisce lo sviluppo materiale e morale dei singoli e dei popoli, in quanto permette di capire e di gestire il presente nel massimo rispetto del passato e nella ragionevole proiezione del futuro. Quando, invece, il sistema d’un governo e il modo concreto d’operare d’una democrazia s’allontanano dagli ideali democratici o addirittura ne tradiscono i valori fondamentali, s’apre inevitabilmente il precipizio delle crisi, che generano demagogie e sfociano in populismi più o meno camuffati.

Una delle conseguenze che nascono dalla crisi della democrazia è il dilagare dell’ingiustizia in ogni sua forma: da quella giuridica a quella politica, da quella sociale a quella economica. Ora, è innegabile che nei nostri tempi s’assiste a gravi casi d’indebolimento della democrazia e, in qualche caso, addirittura di un suo sostanziale tradimento. E, quando ciò accade, è perchè comincia a venir meno soprattutto il terzo termine del “trinomio democratico”; cioè, perché si dimentica il “bene di tutto popolo”, si trascura e si misconosce il “primato del bene comune”; e, siccome questo è il fondamento dell’intero sistema democratico, resta necessariamente compromesso l’intero assetto della società, che viene sommersa dalle macerie di quello stesso stato, che avrebbe dovuto tenerla riparata e tutelata.

Il segno più evidente di una democrazia in crisi è il graduale distacco tra governanti e governati: i primi diventano sempre più insensibili e sordi alle giuste esigenze dei secondi, i quali, sentendosi misconosciuti e vedendosi trascurati, perdono la fiducia in chi dovrebbe governarli, per cui ricercano direttamente vie più o meno traverse o imboccano scorciatoie forse criticabili, ma certamente per loro efficaci. Questa situazione, però, determina il rovesciamento del potere democratico, perché ne snatura l’essenza: esso, infatti, non è più servizio generoso e gratuito verso gli altri, ma diventa asservimento disumano degli altri agli interessi propri e di parte. Diventa, allora, normale, anzi legittimo e addirittura necessario il beffeggiare chi concepisce e compie l’impegno politico come “dovere morale” e, all’opposto, si sbandiera come naturale e giusta la pretesa di chiunque di disporre di un chimerico (e tuttavia arrogante e pericoloso) “diritto di fare politica” (intesa come ‘possesso del potere’), come se il governare un popolo possa essere uno dei tanti lavori, cui dedicarsi, per tener occupato piacevolmente il tempo della propria vita. Ovviamente in questo clima si creano gruppi di cittadini avversari, che si vivono non come compagni d’una stessa sorte, ma come rivali e addirittura nemici, che debbono combattersi reciprocamente, rivendicando ciascuno esclusivamente i propri bisogni. Attecchisce e prospera, così, la triste pianta dell’egoismo individuale e di gruppo, su cui s’innestano e prosperano demagogia e populismo capeggiati dall’astuto agitatore di turno.

Cosa aspettarsi da un simile stato di cose, se non il proliferare delle ingiustizie, naturalmente propagandate come necessarie premesse per successive conquiste di benessere di tutti? Ecco, allora, la gravità dei problemi generati da ogni crisi della democrazia. Problemi che possono essere risolti, almeno in parte, solo riscoprendo nella vita sociale la dignità della persona umana e riproponendo di fatto nel governo dei cittadini la centralità dei loro diritti e dei loro doveri in quanto persone tutte d’uguale valore. Questo significa creare e mantenere sistemi politici e governativi costruiti sulla “reciprocità”. Non è più pensabile, infatti, una società “gerarchica”, nella quale i cittadini siano divisi in classi diverse e, quindi, la distribuzione di diritti e di doveri sia “giusta”, solo se rispetta la “proporzione gerarchica”. Le società dei nostri giorni, invece, sono “egalitarie”, per cui si riconoscono tutti i cittadini di pari valore e di uguale dignità: di conseguenza, ogni cittadino, in quanto persona, gode degli stessi diritti e degli stessi doveri, indipendentemente dalla scala sociale di appartenenza. Questa concezione dell’uomo e della politica è quella proposta dal personalismo cristiano, secondo cui l’uomo è unità integrale di corpo e di spirito, aperto alla dimensione della socialità: cioè, è “persona” dotata di razionalità e di conoscenza, di volontà, di sentimento, di libertà e, quindi, di responsabilità, cui non può né deve rinunciare.

martedì 7 giugno 2011

GIOVANI, MORALE E FELICITÀ

Il mondo dei giovani d’oggi è una realtà complessa e mutevole e, proprio per questo, non si presenta come un sistema immediatamente e chiaramente riconoscibile. Esso è, piuttosto, come un universo aperto, nel quale s’incontrano e si scontrano inclinazioni diverse, talora contraddittorie. Questo potrebbe far pensare che è problematico formulare e presentare una proposta morale fatta su misura delle necessità dei giovani. Infatti, da una parte, negli ultimi decenni sono intervenuti mutamenti così rapidi e profondi che è quasi impossibile fare un confronto con il passato anche recente; dall’altra parte, le diversità del presente sono così importanti che non consentono di fare riferimento a modelli culturali certi. Ciò non toglie, però, che nel comportamento dei giovani dei nostri giorni esistano e si possano rintracciare tratti caratteristici, ai quali riferirsi, per sviluppare una proposta di morale. Questa proposta, però, non dovrà solo puntare a prescrivere precetti dettagliati e precisi, ma dovrà anche (e soprattutto) mirare a illuminare il campo della libertà dei giovani, offrendo loro la possibilità d’autonomia di giudizio e di responsabile autodeterminazione.

Sotto quest’aspetto si rileva subito un elemento significativo e importante: cioè la forte aspirazione dei giovani a ricercare la felicità, a soddisfare i loro bisogni, a migliorare la qualità della loro vita. Allora, è quanto mai doveroso fare i conti con quest’aspirazione dei giovani, stando attenti, però, tanto a non cedere ad accondiscendenze frettolose e ingenue, quanto a non rimanere prigionieri di prevenzioni e di paure eccessive. Infatti, se è vero che il far prevalere nelle scelte la libera decisione dei singoli può condurre ai pericoli dell’indifferenza e del relativismo, è anche vero, tuttavia, che può costituire una preziosa occasione, perché il giovane conquisti una più alta forma di moralità, centrata sulla maturazione della sua coscienza e sull'assunzione concreta delle sue responsabilità.

Del resto, oggi i giovani rifiutano chiaramente e con fermezza le morali, che si fondano su leggi oppressive e su imposizioni esterne, e reclamano con decisione una morale fondata sulla coscienza personale formata ragionevolmente e sulle responsabilità assunte volontariamente. Naturalmente quest’atteggiamento può nascondere equivoci e ambiguità, in quanto talora vuol significare un volersi “liberare” da insegnamenti scomodi e da proposte impegnative, per aderire (o meglio, per “asservirsi”) a modi di pensare propri del consumismo e libertarismo. E questo è un atteggiamento molto pericoloso, perchè non permette di stabilire e rispettare una scala di valori credibili e condivisi, in quanto molti bisogni, che vengono sollecitati dalla società, hanno lo scopo di mantenere sistemi socio-economici, che coprono profonde ingiustizie e gravi sperequazioni tra gli uomini.

Questa situazione, però, ha i suoi aspetti costruttivi, che sono d’estrema importanza. Infatti, con questa loro rivendicazione i giovani (nella loro maggioranza) esprimono l’esigenza di liberarsi da divieti inutili e di sottrarsi a tradizioni ormai superate, ma imposte autoritariamente dall’esterno. Essi rivendicano il bisogno di vivere secondo una propria identità: e questo bisogno non dev’essere interpretato con superficialità come il tentativo di sfuggire ai propri doveri, ma va inteso come il segnale del loro legittimo e lodevole ricercare una morale, che sia espressione della propria coscienza, la quale, in verità, è la vera sede delle decisioni umane autentiche. E’ chiaro, comunque, che quest’esigenza dei giovani va gestita con estrema prudenza: ne va compresa e valorizzata la ricchezza dei contenuti, ma, nello stesso tempo, ne vanno previsti e neutralizzati i pericoli d’ogni eccesso.

Solo in questo contesto, però, si può collocare il problema delle regole morali per i giovani. Infatti, il pericolo del relativismo morale è generato dalla confusione tra “valori” e “norme” di comportamento, per cui è necessario intendersi sul loro significato. I “valori” sono fondati direttamente sui diritti fondamentali della persona, per cui costituiscono il punto di riferimento essenziale della condotta umana. Le “norme”, invece, hanno, per loro natura, il carattere di relatività, in quanto sono (e debbono) essere dettate dalle situazioni concrete e, come tali, sono destinate a mutare col mutare delle condizioni sociali e culturali. Pertanto, una morale della responsabilità, che faccia appello innanzi tutto alla coscienza del singolo, dev’essere per la maggior parte impostata come “morale dei valori”, senza preoccuparsi eccessivamente di somministrare “ricette” particolareggiate valide per tutte le situazioni. Sottolineare eccessivamente l’importanza delle norme dettagliate, non solo determina atteggiamenti di pura acquiescenza, ma finisce anche per rendere labile nelle coscienze il rapporto con i valori.

Di qui l'esigenza di assumere, nel campo dell'educazione morale, un atteggiamento propositivo, che punti a offrire uno stile di vita complessivo, in cui ognuno sia capace di articolare autonomamente la scala gerarchica dei valori, e tale che venga assimilato in profondità dalla coscienza dei singoli. La vita morale, cioè, non va presentata come un’astratta ipotesi di principi sganciati dall'esistenza, ma come un cammino di crescita verso una meta ideale, i cui lineamenti vanno, di volta in volta, identificati nella loro concreta possibilità di attuazione dentro la vita della quotidianità. Oggi i giovani colgono con maggiore realismo la compresenza del bene e del male nella realtà della loro vita quotidiana e vivono con sofferenza la crisi dei valori veri e la sfiducia nelle capacità umane. Possono uscire da questo stato di sofferenza, solo se ritroveranno la fiducia nella propria ragione, capace di discernere e di decidere. Il recupero del valore della coscienza individuale – se bene inteso e lealmente perseguito - può costituire un momento felice per il recupero d’una nuova morale umana.

lunedì 9 maggio 2011

I GIOVANI E I VALORI DELLA VITA

Nei confronti della condotta di molti “giovani di oggi” non è né difficile né raro sentire affermare - forse un po’ troppo semplicisticamente - che essi non hanno valori che li sostengano e li guidino, non nutrono ideali che li facciano impegnare responsabilmente, non si prefiggono mete elevate da raggiungere, soprattutto se richiedono sacrificio. Insomma, i giovani di oggi non coltiverebbero interessi validi né per se stessi nè per gli altri, in quanto sarebbero privi di valori morali veri.

A questo punto, però, sembra opportuno chiedersi se sia davvero così. E, soprattutto, domandarsi: quali sono i valori che i giovani di ieri avevano e che i ragazzi di oggi dovrebbero avere e non hanno? Quali sono gli ideali che hanno fatto sognare e vivere la generazione di ieri e di cui l’attuale generazione sarebbe priva? Quali sono gli interessi che hanno animato i giovani dei decenni passati e che il giovane dei nostri giorni non apprezzerebbe? Sforzarsi di trovare lealmente risposte a questi interrogativi è di grande importanza per il bene sia dei giovani e sia dell’intera società. Infatti, il futuro delle società e il destino di tutta l’umanità sono strettamente connessi alle scelte dei giovani, da cui dipendono inevitabilmente. Entrare in contatto con i giovani, però, non è sempre facile, soprattutto quando essi sono sommersi da messaggi, che li spingono verso visioni incerte e superficiali della morale.

Per ottenere qualche risposta credibile, allora, è necessario in primo luogo decidere che cosa sono i valori morali e qual è la loro funzione. Ora, si possono considerare “valori morali” tutte quelle regole, quei principi e quelle linee di condotta, che consentono a ciascuno di progettare la propria esistenza, di stabilire le proprie priorità, per compiere le scelte individuali ritenute appropriate al proprio progetto di vita. Questo, in verità, vale per tutti e per ogni età; ma è maggiormente importante per i giovani, i quali, man mano che crescono, debbono affrontare le difficoltà di un mondo, che spesso non conoscono bene, per cui debbono possedere validi punti di orientamento, che li illuminino nel fare le scelte giuste.

Quando, però, si va ad individuare quelli che debbono essere i “punti di riferimento” fondamentali e i “valori” veri, nasce il bisogno di capire quali sono le responsabilità e il ruolo degli adulti in tutto ciò. Infatti, non possiamo pensare di cambiare la cultura o d’influire sulle persone, se non ci impegniamo noi stessi nel dare testimonianza sicura di quei valori, che richiediamo che ci siano e che vogliamo che gli altri condividano e facciano propri. Gli adulti, quindi, non possono pretendere dai giovani una testimonianza di vita morale, senza avere prima essi stessi sviluppato e testimoniato un proprio modo di vivere morale degno d’essere presentato alle nuove generazioni.

Ora, non c’è dubbio che alle nuove generazioni si cerca di dare (o, in alcuni casi, almeno di suggerire) sin dalla prima infanzia un indirizzo etico, perché è stata sempre riconosciuta l’importanza per ogni uomo di vivere secondo un comportamento degno della natura umana. E da sempre ci si è resi conto che la vita dell’uomo non può essere ridotta ai soli bisogni del corpo (magari da soddisfare con ogni mezzo), e all’inseguimento del benessere materiale (magari da raggiungere sempre e a ogni costo). L’uomo, infatti, è dotato anche di ragione e di spirito, per cui, in quanto essere umano, è prima di tutto capacità di ragionare e di decidere cosa fare, per vivere in maniera piena la propria esistenza e convivere con gli altri in condizioni serene. È grazie alla ragione esercitata nella vita quotidiana che nasce e si sviluppa in ciascuno il senso di ciò che è giusto e di ciò che è sbagliato, cioè, l'idea di bene e di male. Quindi, conquistare forti valori morali, a cui ispirarsi nell'agire quotidiano, significa compiere un percorso, mediante il quale, giorno per giorno, attraverso anche fallimenti e afflizioni, si giunge a capire quello che per ciascuno è veramente importante e pieno di significato per la vita propria e degli altri.

Ovviamente questo percorso non viene compiuto nell’isolamento né viene realizzato nel chiuso del recinto della propria individualità. Non si nasce da soli, non si cresce da soli, non si vive da soli. L’uomo è un essere sociale: e sono proprio le persone che lo circondano che influenzano la sua strada e gl’indicano la via che potrebbe seguire; sono le persone più vicine che, inevitabilmente, influenzano la scelta di quelli che saranno i valori di ciascuno. Quindi, è innanzitutto dalla famiglia che giungono le prime e più importanti informazioni. Una famiglia, fondata sull’altruismo generoso e quotidianamente alimentata dal senso di donazione gratuita, comunicherà ai suoi membri certamente i valori della corresponsabilità, della complementarietà, della dedizione, della generosità; una famiglia, invece, fondata sull’egoismo, preoccupata solo per i propri problemi e attenta esclusivamente al raggiungimento dei propri interessi, non potrà che inviare messaggi d’assoluta indifferenza per gli altri e infonderà sentimenti d’insensibilità, di ostilità e di cinismo morale. All’azione della famiglia seguirà l’opera della scuola. Se nella vita della scuola ci sono operatori professionalmente preparati, umanamente pronti a intuire i problemi dei giovani e capaci d’indicare loro nobili traguardi, da raggiungere con sistemi onesti, certamente vengono gettati semi di rettitudine umana e di sana solidarietà, i quali, sviluppandosi, creeranno futuri uomini adulti maturi, che sapranno separare ciò che è buono da ciò che è cattivo. Infatti, quando il giovane, a suo tempo, s’inserirà nella vita della società, porterà in essa le idee rette, i principi sani e i valori morali, ch’egli ha acquisito e fatto propri, e arricchirà così tutti quelli che lo circondano a livello culturale, morale, politico e religioso.

Un compito non facile, che hanno dovuto affrontare anche i “giovani di ieri”, ma forse con una differenza notevole: oggi, infatti, messaggi pubblicitari e società esterna hanno assunto un’influenza maggiore che in passato. Ma è comunque importante che i giovani acquisiscano una morale, e non sottovalutino il ruolo che debbono svolgere: è nella loro buona condotta che si nasconde la speranza del mondo; un futuro morale degno dell’uomo dipende solo da loro. Infatti, i comportamenti di oggi segneranno fortemente il domani. Il problema è che a volte non sono solo i giovani a non avere valori morali, ma hanno le loro responsabilità anche i “grandi”.

venerdì 8 aprile 2011

IL MONDO DEI GIOVANI: CHI SONO? CHE COSA CERCANO?

Tracciare il profilo dei giovani d’oggi non è compito facile, e bisogna evitare giudizi affrettati e generalizzazioni semplicistiche. Ognuno di noi, pertanto, dovrebbe esaminare e verificare personalmente, secondo le proprie esperienze, tutto ciò che viene sostenuto sull’argomento. Infatti, è vero che il mondo giovanile attuale si presenta come una realtà complessa e talora anche contraddittoria; ma, ciò nonostante, si possono individuare alcuni fatti, che accomunano il modo di pensare e di reagire di tutti i giovani, in quanto influiscono fortemente sulla loro formazione e sul loro comportamento. Basti pensare all’influsso della globalizzazione e dell’economia di mercato, alle ripercussioni dei mutamenti nella vita di coppia, alle conseguenze della crisi del modello di famiglia tradizionale, agli effetti dell’eccessivo esibizionismo della sessualità, all’impatto di certa qualità di musica, di televisione e di cinema, all’uso di internet, che ormai unifica la mentalità in ogni parte del mondo.

I “giovani” sono quelli compresi tra i 22 e i 35 anni circa (infatti, si indicano “adolescenti” quelli compresi tra i 18 e i 22 anni circa). I giovani, quindi, vivono gli anni, in cui per natura si aspira a divenire autonomi psicologicamente e indipendenti socialmente, mediante l’affermazione della propria personalità nei vari aspetti della vita e nei momenti soprattutto delle scelte decisive. I giovani, cioè, vivono fortemente il bisogno d’essere se stessi, per cui, sulla spinta del mutare delle situazioni sociali e culturali, sentono il bisogno di riesaminare quello che hanno ricevuto dall’educazione e di prendere le distanze dalle richieste (secondo loro non sempre utili) della società che li circonda. Per questo è possibile incontrare giovani, che sono già inseriti negli studi o anche impegnati in attività precarie, ma che tuttavia sentono il bisogno d’acquistare piena fiducia in se stessi, liberandosi dai dubbi sulla vita e assumendosi impegni seri e durevoli.

In questo cammino di crescita e di conquista d’una propria dimensione autonoma, però, i giovani si aspettano - e spesso lo chiedono apertamente - il sostegno da parte della società, la quale, al contrario, per diverse ragioni, sembra alimentare in loro per lo più il dubbio e la debolezza, per cui alcuni di essi sono indotti ad affidarsi a risposte superficiali e ad aggrapparsi a soluzioni banali, che non li aiutano certamente nel loro cammino verso la maturità. Oltre a queste difficoltà i giovani debbono affrontare anche quelle ancora più difficili causate dal rapido diffondersi delle moderne tecnologie e dall’uso d’internet e di videogiochi, che riempiono la mente e l’animo di tutti, ma più facilmente dei giovani, in quanto sono più malleabili e più suggestionabili, data anche la poca esperienza di vita vissuta. Infatti, queste tecnologie mediatiche predispongono i giovani a vivere nel mondo dell’astratto e dell’immaginario senza contatti con la realtà, per cui essi hanno difficoltà a entrare in contatto concreto con la vita reale, che peraltro spesso li delude e li deprime.

A questo punto ci troviamo di fronte a una situazione piuttosto strana: da una parte si lamenta che i giovani “non vogliono crescere” e si pretende che essi diventino autonomi il più presto possibile, dall’altra parte, invece, si vedono giovani che vogliono farlo, ma stentano a decidersi di separarsi dal loro ambiente d’origine. Allora forse è bene riflettere su qualche aspetto dell’educazione che oggi viene data loro; un’educazione, forse, che fa nascere nei giovani molte aspettative e li induce ad accarezzare molti sogni, spesso a scapito delle vere realtà, per cui essi finiscono per credere di poter manipolare tutto e sempre in funzione di se stessi, senza comprendere e accettare che nella vita concreta ci sono non poche situazioni che limitano il campo delle proprie scelte e talora costringono a decisioni amare. Oggi, l’educazione forse si concentra troppo sul successo personale a qualunque costo, a scapito della realtà sociale, delle possibilità economiche, della preparazione professionale e della formazione di valori culturali e morali. E tutto questo non aiuta certo il giovane a costruirsi una propria personalità.

I giovani, inoltre, debbono far fronte ad altri due condizionamenti, che determinano il loro comportamento: da una parte, l’aspettativa d’una vita umana più lunga (per cui si suppone che ci sia tantissimo tempo per prepararsi nella vita, e comunque per impegnarsi sul serio) e, dall’altra parte, la vita sociale che li costringe ad un’adolescenza sempre più prolungata. Si tratta di due aspetti che giocano a sfavore dei giovani, che restano tentati, se non addirittura invogliati, a rimandare sempre al più tardi ogni loro risoluzione. Questa loro indecisione non è altro che una tacita richiesta di aiuto, per maturare la propria capacità affettiva e per rapportarsi con le nuove ideologie. In primo luogo, il giovane, per naturale aspirazione della sua età, vuole conoscersi e autostimarsi; però, molte sue richieste restano senza risposta, per cui incorre in dolorosi insuccessi e penosi fallimenti, che lo costringono a rimettersi continuamente in discussione: all’improvviso, si sente più fragile, teme di non essere più capace di sostenere il suo ruolo. Se si pensa che questi disagi si protraggono fino ai 35 anni (se non oltre), è facile capire la sua angoscia e le sue reazioni aggressive. In secondo luogo, la vita affettiva del giovane, sotto l’influsso delle scene erotiche sregolate cui assiste, è portato a pensare che l’affettività è qualcosa d’immediato, senza rispetto di tempi e di modi propri della costruzione di un rapporto che abbia senso umano. La pornografia, le situazioni di separazione e di divorzio, la banalizzazione e l’esibizionismo esplicito della sessualità, sono tutti ostacoli per la maturazione del giovane. E, infine, il crollo delle ideologie politiche e il sorgere di movimenti improntati al liberalismo, al consumismo e all’individualismo hanno compromesso il senso della vita veramente democratica: gli altri non esistono, vale solo l’individualismo morale e l’egoismo economico. Come meravigliarsi, allora, se i giovani brancolano nello scetticismo e si smarriscono nel disordine. Eppure cercano la valorizzazione del matrimonio, i valori della famiglia, la dignità della legge morale e civile, l’inserimento onesto nel campo sociale e professionale, la qualità dell’ambiente, il senso della giustizia e della pace.

martedì 8 marzo 2011

UNA LAICITÀ “NUOVA” PER RIPARTIRE

Nel definire il significato di “laicità” e nel fissarne compiti e ruolo, talora si frappongono alcuni equivoci, che alterano la serenità del dialogo e fuorviano dalle reali intenzioni della discussione. Quindi, è necessario innanzitutto precisare il senso autentico della parola “laicità”, che, pur essendo ricca di contenuto e di valore, non sempre è intesa e adoperata in maniera appropriata. Essere laico, infatti, non significa, come purtroppo spesso si pensa, essere un avversario della religione in generale e del cattolicesimo in particolare; la parola “laico”, di per sé, non vuol dire l’essere né “credente” né “indifferente” né “miscredente”. A essere ostile alla religione e a combatterne ogni forma di predicazione è il “laicismo”, cioè quell’atteggiamento estremista, che disprezza e odia la religione e le chiese per pregiudizio. La vera “laicità”, invece, anche quando non condivide dottrine e regole dei diversi campi religiosi (o anche modelli proposti dalla politica, dalla società, dall’economia, dalla morale, dalla scienza, dalla teologia, ecc)), tuttavia li valuta con serena imparzialità, li rispetta con lealtà e li apprezza con onestà, senza fare confusione tra le rispettive facoltà e, soprattutto, tenendo ben separate – con intelligenza e fermezza – le rispettive competenze delle Chiese e degli Stati.

La “laicità”, pertanto, non è un insieme di dottrine particolari, ma è soltanto un abito mentale, grazie al quale si distingue ciò che è dimostrabile con la ragione da ciò che si accetta per fede. La laicità, quindi, non s’identifica con alcun credo specifico e non sostiene alcuna filosofia o morale o politica o ideologia particolare; essa è soltanto la capacità di articolare le proprie convinzioni (siano esse religiose, filosofiche, sociali, culturali) secondo regole che sono proprie della logica razionale, la quale, per la sua stessa natura, non può accettare o subire condizionamenti esterni, perché perderebbe la sua validità. Infatti, la logica razionale è veramente tale, solo se opera nella sua assoluta autonomia, cioè solo se è libera e, quindi, “laica”: tanto in un San Tommaso d'Aquino quanto in un pensatore ateo, la logica s’affida sempre e solo a principi di razionalità, allo stesso modo in cui, nella matematica, la dimostrazione d’un teorema obbedisce solo alle leggi della matematica, indipendentemente dal fatto che essa sia fatta da un Santo o da un miscredente.

La laicità, così intesa, crea la cultura della tolleranza: quella tolleranza che si concretizza nella sapiente umiltà che fa dubitare delle proprie certezze. Il laico è veramente tale, quando è “libero” davvero, cioè quando non si crea propri idoli da adorare né accetta miti altrui da venerare. Egli crede con forza e coerenza in alcuni valori che fa suoi, ma nello stesso tempo non dimentica mai che esistono anche i valori degli altri, che sono pur’essi nobili e validi e, perciò, meritevoli di stima e di rispetto. Laicità significa, allora, avere il coraggio di fare le proprie scelte, assumendosi la responsabilità delle eventuali rinunce necessarie e degli eventuali errori e fallimenti, senza confondere in nessun caso il pensiero rigoroso con i convincimenti fanatici e senza mescolare il sentimento sincero con le reazioni emotive e passionali. Per queste sue caratteristiche la laicità crea e difende una moralità appropriata, con cui si evitano sia gli eccessi del moralismo fazioso sia le licenziosità del permissivismo. Solo il “laico”, dunque, è e vive da uomo libero, perché solo lui aderisce a un'idea, senza restarne succube; s’impegna politicamente, senza perdere la propria indipendenza critica; non resta schiavo delle sue stesse idee e non denigra quelle degli altri; non inganna se stesso, trovando mille giustificazioni ideologiche per le proprie mancanze.

Questa concezione di laicità è stata condivisa e raccomandata anche dal Concilio Ecumenico Vaticano II, nel quale viene delineata una Chiesa aperta alle esigenze del mondo, attenta ai “segni dei tempi”, alla ricerca di un dialogo fecondo con il “Mondo” nelle sue varie dimensioni. Perciò, si rivendica per l’uomo una fede religiosa integrale, cioè che non può essere ridotta a un affare privato riguardante solo la sfera personale, poiché il credente, in quanto “laico”, non può né deve essere relegato nel recinto del suo tempio, così come chi professa idee diverse deve godere del diritto a realizzare nella vita sociale le sue idee. Il volere per forza chiudere il credente nella sua cappella o il pretendere di scacciare dal proprio recinto chi la pensa diversamente, fa parte d’un laicismo arrogante. Del resto, se si vuole una “Chiesa aperta al mondo” e disponibile a capirne e ad accoglierne – sia pur criticamente - le esigenze, si deve ammettere anche un “Mondo aperto alla chiesa”, disponibile, cioè, a comprendere e ad accettare – sia pur criticamente - le sue opinioni e le sue prese di posizione su temi pastorali, che abbiano eventuali implicazioni sociali e indirettamente anche politiche. Autorevoli pensatori religiosi hanno offerto frequenti esempi di questa chiarezza e continuano tuttora a testimoniare l’esigenza di rispettare la ragione e le sue frontiere. Essi, infatti, rivendicano il ruolo che il Vangelo può e deve avere nell’ispirare una visione del mondo e, quindi, nel contribuire a creare una società più giusta; ma, nello stesso tempo, sostengono che la predicazione del Cristo non può mai tradursi direttamente e immediatamente in articoli di legge, per cui esigono un senso profondo della distinzione tra Stato e Chiesa, tra ciò che spetta all'uno e ciò che spetta all'altra.

La laicità, però, s’oppone anche al cosiddetto pluralismo culturale, spesso falso e ostentato dalla società del nostro tempo, la quale esalta tutte le differenze, ma in realtà, sotto l’ingannevole apparenza d’accogliere tutto indistintamente, persegue soltanto il qualunquismo, in cui ogni proposta è considerata come “valore”: c’è posto per tutto e per tutti, perché in esso regna la più piatta indifferenza. Invece la laicità vera, quella che garantisce il pluralismo autentico, riconosce non tutto senza distinzione, ma ogni reale positività di chi operi con efficacia alla costruzione della vita dei popoli e degli stati, i quali non sono contenitori vuoti da riempire con tutto quello che si vuole, ma sono uno spazio, nel quale ciascuno può e deve portare il suo contributo all’edificazione del bene comune. Oggi c’è bisogno di questa laicità “nuova”, per ripartire verso traguardi di civiltà vera.