Il Tempo, in sé fluire di momenti transeunti che vanno accolti, si apre a un "oltre" custode Eterno di valori trascendenti che vanno abitati. Vicende e realtà tendono alla suprema fusione nell'infinita Totalità, anima di ogni Speranza.

martedì 17 marzo 2015

POTERE COME SERVIZIO, SPERANZA NELL'ERA MATTARELLA

Pubblicato su "Affaritaliani" mercoledì, 25 febbraio 2015

All'imprevedibile stupore per i forti messaggi della "Enciclica dei gesti", che Papa Francesco (o, meglio, Francesco, vescovo di Roma) lancia ormai quotidianamente, fa seguito un inaspettato sconcerto per il comportamento normale del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Entrambi ai vertici d'un alto potere loro affidato, continuano entrambi a vivere la quotidianità come uomini e cittadini comuni, che adempiono con consapevolezza e senso del dovere ai compiti loro fiduciosamente affidati e da loro liberamente accettati. Crea forte incredulità, tuttavia, che a stupire siano la normalità umana e la dignità istituzionale, che rendono comprensibile, accettabile e persino piacevole l'esercizio del potere come servizio disponibile a tutti e non come supremazia da esercitare su tutti. Crea meraviglia un Presidente della Repubblica, che esce da casa in panda, che usa un volo di linea per recarsi a visitare i suoi cari defunti, che utilizza due mezzi pubblici per andare da Roma a Firenze, per presenziare alla Scuola Superiore della Magistratura l'inaugurazione dei corsi di formazione del 2015.

Stupore e incredulità, tanto opposti sono stati per decenni gli spettacoli offerti dalle varie "cariche pubbliche". E il neo presidente della Repubblica (come già anche il pontefice romano) va diritto non solo nelle forme, ma soprattutto nella sostanza concreta dei problemi reali e, senza alcuna esitazione, anzi con cipiglio mite ma risoluto e, quindi, indisponibile a qualunque aggiustamento improprio, avverte chiunque che le problematiche debbono essere considerate nell'ottica delle esigenze del popolo e risolte nella prospettiva del maggior bene comune. A partire dal potere giudiziario, terzo insieme a quello legislativo ed esecutivo. "I magistrati - scandisce - siano terzi, autonomi e imparziali, né protagonisti né burocrati nel processo"; e a richiedere ciò con urgenza non è qualche tattica compromissoria tra i poteri pubblici o qualche convenienza di equilibri tra i partiti politici, bensì il "bisogno di legalità fortemente avvertito nel Paese". Per soddisfare questo bisogno la stessa magistratura è invitata a darsi "delle strategie organizzative volte al recupero di efficienza", proprio perché è lo stesso ordinamento della Repubblica che "esige che il magistrato sappia collegare equità e imparzialità, fornendo una risposta di giustizia tempestiva per essere efficace, assicurando effettività e qualità della giurisdizione".

Da questo modo di comportarsi del presidente Mattarella sono avvisati gli altri due poteri (Parlamento legiferante e Governo esecutivo) e i responsabili dei partiti politici.

Il Governo proclama e minaccia di "andare avanti per la sua strada", interpretando ogni richiesta di confronto come tentativo di rallentare il cammino e accusando ogni posizione diversa dalla sua come volontà conservatrice. Il Governo s'appella alla decretazione d'urgenza e alla richiesta di fiducia (talora ricattatoria), dalle altre parti si minaccia l'ostruzionismo delle Camere e la contestazione delle piazze. Tutti sono d'accordo ad invocare e reclamare l'intervento del presidente Mattarella. Ma il neopresidente ha fatto sapere che ogni tema, che sarà proposto al suo esame, sarà "esaminato scrupolosamente sotto il profilo della necessità e dell'urgenza". Del resto, nel suo discorso di insediamento Mattarella ha fatto capire - ovviamente a chiunque avesse voluto capire - che suo impegno sarebbe stato quello di riportare la vita politica e istituzionale alla normalità: "Vi è anche la necessità di superare la logica della deroga costante alle forme ordinarie del processo legislativo, bilanciando l'esigenza di governo con il rispetto delle garanzie procedurali di una corretta dialettica parlamentare". Fondandosi su solide basi, anche la Presidente della Camera Laura Boldrini aveva sanzionato il potere esecutivo, in quanto " bisognava considerare i pareri dati dalle Commissioni".

L'arbitro è imparziale. Forse i giocatori non gli facilitano il compito: qualora si propongano di fare, basta che guardino un po' di il là del loro recinto ed esercitino il potere come servizio per il bene comune. Guardando, come modello, ciò che fanno papa Francesco e il presidente Mattarella.

mercoledì 25 febbraio 2015

PER UN PROFILO DEL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA

 
Pubblicato su Affaritaliani il 18 gennaio 2015:
Quirinale, il Palazzo è troppo lontano dal popolo

Non sarebbe forse auspicabile che ci si preoccupasse di ascoltare e interpretare anche le esigenze del popolo, per verificarne "l'aria che tira"?

“La scelta (del Presidente della Repubblica) – ha scritto Sabino Cassese sul “Corriere della Sera” di oggi (domenica 18 gennaio) - ha premiato una esperienza e ha confermato il rapporto Parlamento-presidente-governo”, puntualizzando che i cittadini stanno attenti “non tanto a chi salirà al Quirinale, quanto alle modifiche costituzionali e alla legge elettorale, perché le istituzioni contano più degli uomini”. Per questo invita a “guardarsi indietro e vedere come sono stati scelti i presidenti italiani”. Analisi e preoccupazioni del tutto condivisibili, salvo da aggiungere che la storia italiana dell’ultimo ventennio repubblicano documenta che le “istituzioni” nel passato non molto remoto erano lo specchio (soprattutto) della libera volontà del popolo italiano e non solo (o soprattutto) il risultato dell’azione di alcuni partiti, così come si sono evoluti fino ad oggi. E questa preoccupazione sembra essere confermata dagli ultimi atteggiamenti della politica.

 Infatti, qualche giorno fa il premier Matteo Renzi ha fatto sapere ai suoi: “Nelle 24 ore precedenti al primo voto formalizzeremo la proposta del Pd, riunendo gruppi e grandi elettori”; a completarne il pensiero è intervenuto il presidente del Pd, Matteo Orfini: “I prossimi giorni – ha specificato - si capirà che aria tira dentro al Pd e dentro Forza Italia”; qualche giorno dopo il presidente emerito Napolitano, durante la festa tributatagli nel rione Monti a Roma, con parole misurate e asciutte ha augurato per il suo successore, “chiunque sia, uomo o donna, di fare bene il proprio lavoro, applicarsi molto ai problemi, ed è importante che si torni dopo un periodo eccezionale alla normalità”. E Renzi tempestivamente non ha mancato di rassicurare: “La solidità istituzionale sarà un elemento di assoluto rilievo”. E questo sembra voler essere il senso anche dell’auspicio che, in occasione dell'inaugurazione del palazzo restaurato del consolato di Firenze, John R. Phillips, ambasciatore degli Usa in Italia, ha formulato: "Noi speriamo che gli italiani cerchino di trovare qualcuno che abbia la statura e le capacità che il presidente Napolitano ha sempre continuamente dimostrato".

Per raggiungere questi obiettivi, i responsabili dei vari partiti si stanno dedicando febbrilmente a incontri chiarificatori e a reciproche consultazioni con esperti variamente qualificati, consapevoli della loro responsabilità: vagliare e armonizzare – secondo la stessa ragion d’essere d’ogni azione politica – le esigenze espresse dalle varie parti, tentando al massimo ogni concreta possibilità di accordo e di consenso. Analizzando, però, rigorosamente comportamenti ed esternazioni dei vari capi, nasce, appunto, la forte perplessità. In tutte queste pur lodevoli fatiche della politica, per dare una guida valida al Paese, quanto popolo italiano è rappresentato o comunque “ascoltato”? Non sarebbe forse auspicabile che ci si preoccupasse di ascoltare e interpretare anche le esigenze del popolo, per verificarne “l’aria che tira”? Ovviamente si tratterebbe di frugare nelle menti e di penetrare negli animi della totalità dei cittadini italiani, sia di quelli che i partiti presumono coinvolti e interessati sia di quelli che la politica degli ultimi tempi sta sempre più allontanando dalle istituzioni, tanto da renderli addirittura persone di primo piano della cosiddetta antipolitica, proprio perché molti fatti li obbligano a considerare l’attività politica come conquista del potere solo per interessi privati o di parte e non certo per il bene comune. Oggi, la priorità delle priorità è dare all’Italia un Capo dello Stato capace e degno, che miri, però, soprattutto a riabilitare il ruolo naturale della politica: cioè, potere come attaccamento al bene comune costruito mediante l’unificazione degli animi di tutti, ora lacerati da lotte ideologiche e spossati da governi inadatti e non di rado persino ostili.

La figura di Giorgio Napolitano, ovviamente, non può essere proposta come modello: troppo breve è il tempo trascorso, perché gli animi siano sereni nel valutare e oggettivi nel giudicare. E allora, seguendo il suggerimento anche di Cassese, ripercorriamo qualche pagina della storia, per rintracciare - ove ce ne fosse - qualche esempio valido e utile. Ora, la complessità dell’attuale situazione internazionale,  le difficoltà della politica nazionale presente, la problematicità della sicurezza e i problemi del mondo del lavoro richiamano (in tutto o in parte) i tempi, l’opera e la testimonianza – tra gli altri - di Sandro Pertini. Non sarebbe fuor di luogo, pertanto, che i “grandi elettori”, che il 29 gennaio prossimo voteranno per eleggere il futuro Presidente, si voltino un po’ indietro e meditino la lezione che quest’indiscusso Padre della Patria ci ha lasciato. La candidatura di Pertini al Quirinale emerse, di fatto, l’8 luglio 1078, sessanta giorni dopo l’assassinio di Aldo Moro e al sedicesimo scrutinio, dopo una complicata ricerca d’intesa tra le forze politiche: e fu eletto con 832 voti su 995 votanti. Nel messaggio al Parlamento subito dopo l’elezione non ebbe alcuna reticenza a dichiarare con ardita trasparenza: “Non posso non ricordare che la mia coscienza di uomo libero si è formata alla scuola del movimento operaio di Savona e che si è rinvigorita guardando sempre ai luminosi esempi di Giacomo Matteotti, di Giovanni Amendola e Piero Gobetti, di Carlo Rosselli, di don Minzoni e di Antonio Gramsci,mio indimenticabile compagno di carcere. Ricordo questo con orgoglio, non per ridestare antichi risentimenti, perché sui risentimenti nulla di positivo si costruisce, né in morale, nè in politica. Ma da oggi io cesserò di essere uomo di parte. Intendo essere solo il Presidente della Repubblica di tutti gli italiani, fratello a tutti nell’amore di patria e nell’aspirazione costante alla libertà e alla giustizia”.

“Intendo essere solo il Presidente della Repubblica di tutti gli italiani”: di questo c’è bisogno anche oggi per l’Italia. E’ necessario certamente dotare il nostro Paese d’un Capo di Stato, che sia pronto a stanare la probabile inerzia del Potere Legislativo, attento a sollecitare riforme e provvedimenti necessari  per la soluzione dei molti e gravi problemi, solerte nel guidare e garantire i limiti legittimi d’ogni Potere costituzionale. Ma che sia prima e soprattutto preoccupato a costruire le fondamenta su cui basare tutto ciò: far riappacificare i cittadini tra di loro e far rinascere in loro l’amore verso le Istituzioni, che – sotto la sua vigilanza - dovranno essere virtuose e credibili. “Non dimentichiamo – avvertiva Pertini – che se il nostro paese è riuscito a risalire dall’abisso in cui fu gettato, lo si deve anche e soprattutto all’unità nazionale realizzata allora da tutte le forze democratiche. E’ con questa unità nazionale che tutte le riforme (…) potranno essere attuate. Questo è compito del Parlamento”. Si sente da varie parti reclamare un Capo dello Stato con particolari requisiti. Opinioni tutte lecite e comprensibili. I comportamenti di Sandro Pertini dimostrano che ogni uomo ha una sua storia personale, per cui  sembra più saggio valutare lo spessore e il valore d’un uomo non tanto da ciò è stato, quanto piuttosto da quanto sarà capace di evolvere, divenendo sempre idoneo alle responsabilità, che gli vengono affidate e di cui vorrà liberamente farsi carico.

 

 

lunedì 5 gennaio 2015

LA RIFORMA DEL TERZO SETTORE, URGE UNA RIVOLUZIONE CULTURALE

Pubblicato da "Affari Italiani", Mercoledì, 3 dicembre 2014

La riforma del terzo settore, urge una rivoluzione culturale
di Cosimo Scarcella*

Il Presidente del Consiglio, intervenuto al convegno organizzato per la Giornata internazionale delle persone con disabilità, ha comunica che la delega sulla riforma del Terzo settore andrà in Aula nei primi mesi del prossimo anno. La Commissione Affari Sociali a Montecitorio, di fatto, dopo aver ascoltato nelle ultime due settimane le realtà interessate e comunque coinvolte al problema, è in grado di aprire i termini per la presentazione degli emendamenti e per la discussione nei dettagli sul testo del Disegno di Legge Delega da portare alle Camere. Si tratta, in sostanza, di legiferare sul modello d’impresa sociale, che si ha in mente di promuovere, realizzare e sostenere.

Nel testo approvato dal Consiglio dei Ministri il 10 luglio 2014 è già chiara la visione globale del governo, che sottende sia i motivi che gli obiettivi della riforma proposta; cioè, riordinare la normativa che disciplina attualmente il terzo settore, corredandola di più adeguati strumenti atti a formare un sistema sociale, che garantisca a ogni cittadino la partecipazione responsabile e personale per la crescita, l’occupazione e lo sviluppo di tutti. In termini diversi: coinvolgere l’intera società cosiddetta civile a divenire promotrice autonoma di bene comune. A tal fine è davvero rilevante lo spirito e la serietà, che animano il legislatore: determinare rigorosamente i confini d’ogni attività di terzo settore; favorire i principi di sussidiarietà orizzontale e verticale sanciti nella Costituzione; deliberare valide forme di sostegno giuridico e finanziario; incoraggiare l’evoluzione del mondo del non profit in impresa sociale, soggetto anche economico e, quindi, creatore di occupazione, sviluppo e ricchezza comune.

Sono note le perplessità che provengono da varie direzioni e riguardanti diversi aspetti dell’aggrovigliato mondo del non profit e del complicato comparto dell’intero volontariato. Si teme, infatti, che resti tutto nuovamente scritto nel libro dei buoni propositi per la scarsezza di risorse e che si continui a “usare” il terzo settore come stampella dell’economia pubblica dello Stato e dell’economia privata del Mercato. Settore, appunto, “terzo”: che viene, cioè, solo dopo i primi due, e solo per raccoglierne i residui inutili, onerosi e soprattutto non redditizi; nella migliore delle intenzioni, considerati opportuno strumento per colmare le inefficienze e danni causati dalla crisi dell’attuale modello socio-politico-economico dominante nell’Occidente. Oltre alle incertezze provenienti da questi assetti istituzionali, non meno forti sono i dubbi, che nascono per il ruolo e il coinvolgimento degli Enti Locali, che sono in definitiva i concreti “gestori” delle iniziative del terzo settore e del volontariato. Unanime, infatti, è la condivisione del proposito di ampliare i settori economici, in cui potranno operare le nuove imprese sociali - come il commercio equo e solidale, l’inserimento dei disoccupati, l’accoglienza sociale, il microcredito -; diversificata e, quindi, discutibili e tutti da verificare sono, invece, altri aspetti vitali per la solidità e la sopravvivenza d’ogni futura impresa sociale. Non ci si può non preoccupare, per esempio, di definire il limite minimo dei ricavi dal mercato di ciascuna impresa, di stabilire il limite massimo della distribuzione degli utili, di riconoscere la capacità imprenditoriale di ottenere un ritorno sul capitale sociale. A questo riguardo sembra necessario, pertanto, inventare e introdurre nuovi e adeguati modelli di valutazione e di controllo.

Ogni movimento culturale e ogni progetto di vita sociale ed economica nasce e si alimenta d’un proprio insieme di valori logicamente elaborati, verificati dall’esperienza e confermati dai risultati. Di conseguenza sembra vano porsi al di fuori del sistema Stato e criticarlo per azioni che vanno aldilà dell’economia pubblica; e così per l’economia privata di Mercato. Qualora non se ne condividano le ragioni, è lecito segnalare gli effetti negativi per tutti e invitare a correggere alquanto il passo. Ma giammai ad auto annullarsi e cedere il posto a chi vuole essere promotore d’una nuova modalità di vita. Ragionevole sembra essere, invece, proporre una propria visione alternativa di vita privata e comunitaria e, attraverso confronti leali e liberi, collaborare per orientare al meglio la società in ogni sua componente.

La riforma del Terzo settore ha senza dubbio bisogno dell’adeguamento di norme e regole da erogare da parte delle Istituzioni, ma necessità sopra e prima di tutto d’una profonda rivoluzione culturale da parte della società tutta, finora spesso solo fruitore di beni e servizi attesi e pretesi come un diritto inalienabile. Pertanto, senza snaturare la propria ragion d’essere, per il mondo del Terzo settore è ormai ineludibile che tutti coloro che operano in esso diventino soggetti autonomi e indipendenti, quindi produttivi e in grado di finanziare almeno in parte i propri scopi. Senza questo rinnovamento culturale i soggetti della società civile operanti anche nel Terzo settore continueranno a rimanere beneficiari di beni e servizi, ma non diverranno anche soggetti d’arricchimento collettivo e d’incremento di bene comune. E’ in questione, quindi, un cambio di mentalità, sintetizzato nel famoso appello di Kennedy: “Non chiedere quello che il tuo Paese può fare per te, chiediti invece quello che puoi fare tu per il tuo Paese”. E’ questa la scommessa da vincere. Far ripartire il Paese - come da ogni parte s’invoca – è sicuramente possibile sperando in un futuro magnifico, ma da realizzare grazie alla responsabilità nel presente da parte d’ogni cittadino. E’ impensabile ormai che immense energie umane siano ridotte a supplire carenze di servizi pubblici spesso del tutto assenti; è assurdo che preziose capacità professionali restino soffocate da crisi dell’Impresa; ed è disumano che popoli interi restino vittime del mercato del solo profitto ad ogni costo. Comunque, è indubbio che esseri umani vivano esclusi da ogni forma di vita umanamente sostenibile è da addebitare a ogni singolo uomo e cittadino, sordo allo spirito di sussidiarietà anche orizzontale, che sprona la coscienza dell’uomo verso sentimenti di solidarietà. Pertanto, se le Istituzioni e il Mercato non possono né debbono delegare all’opera assistenzialistica dei privati i loro doveri, nemmeno la società del Terzo settore può usare le negatività di governanti e imprenditori come alibi per evitare i propri doveri d’iniziativa e produttività destinate al bene comune. Per dare vita a forme di vita singola e collettiva più a dimensione d’uomo, è auspicabile davvero un rinnovamento (rivoluzione) culturale globale, che coinvolga tutte le coscienze e tutte le volontà. Così potrà avere buon esito anche la riforma del Terzo settore.
*filosofo

E' FINITA L'ERA DELLA RAPPRESENTANZA POPOLARE

Pubblicato da "Affari Italiani", Giovedì, 20 novembre 2014

IL COMMENTO - Il popolo italiano non elegge già da tempo i suoi "deputati" né li delega a legiferare a nome suo e per il bene di tutti. Ormai deve prendere soltanto atto d'ogni operato dei vari soggetti designati e cooptati dagli schieramenti politici e dalle altre forze che contano... Di Cosimo Scarcella

Giovedì, 20 novembre 2014 - 16:21:00

Il popolo italiano non elegge già da tempo i suoi "deputati" né li delega a legiferare a nome suo e per il bene di tutti. Ormai deve prendere soltanto atto d'ogni operato dei vari soggetti designati e cooptati dagli schieramenti politici e dalle altre forze che contano. Osservando lo scenario odierno offerto dai partiti politici, si capisce finalmente cosa hanno voluto dire molti pensatori assennati e disincantati, quando hanno definito i parlamenti il "mercato delle vacche". Nei mercati di rione, infatti, è normale il "tirare sul prezzo" il più possibile dalle parti contrattanti, con reciproca furbesca attenzione, però, al punto di rottura, che farebbe perdere l'affare sia al compratore che al venditore. A questo sembra essere ridotta la politica italiana di questi ultimi mesi. Politica, in sé e per sé, è abilità di risolvere problemi e soddisfare bisogni reali dei cittadini, che si presentano indubbiamente diversi e talora perfino opposti e, quindi, che vanno legittimamente e saggiamente mediati. Portavoce naturali delle singole voci popolari sono i partiti politici. I governi che si succedono al potere, di conseguenza, hanno il duplice dovere di difendere l'identità della propria parte politica e, nello stesso tempo, di captare i bisogni e intuire i valori delle altre parti. La storia della Repubblica Italiana documenta che è stato questo l'ideale regolativo dei vari governi, almeno fino a un ventennio fa: da Alcide De Gasperi e Togliatti a Enrico Berlinguer e Aldo Moro. E questo è il significato autentico anche del paradosso delle "convergenze parallele", che si dice abbia pronunciato Aldo Moro durante il congresso di Firenze della D.C. nel 1959: concetto assurdo in matematica, ma fondamentale per una politica sana e un governo buono, in quanto le molteplici "parallele" socio-politiche ed economico-finanziarie devono convergere il più possibile in ogni iniziativa governativa, al fine di perseguire il bene comune.

Non susciterebbe stupore, quindi, il fermento che anima palazzi e piazze italiane in questi ultimi mesi: in una normale vita democratica sarebbe ottimo segno di dialettica viva e costruttiva. La cosa, però, insospettisce, anzi spinge ad analizzarne e capirne le motivazioni reali e le finalità forse taciute. Da ogni parte, infatti, s'ostentano dichiarazioni di difesa degli interessi generali e di rivendicazione del bene del popolo, quando nella sostanza dei fatti il popolo risulta del tutto dimenticato o accontentato con qualche briciola residua (forse anche casuale e indiretta, ma certo non disinteressata). I protagonisti della politica odierna sembrano, infatti, mercanti attenti agli affari propri, che mirano a concludere a ogni costo e a ogni prezzo, e perciò attenti solo al punto di rottura: pronti sì alle schermaglie e agli scontri, ma anche disponibili ai compromessi d'ogni genere. Comportamento dettato - si predica - dal proposito di salvaguardare gli equilibri di bilancio, le coperture economico-finanziarie, la difesa dei vari diritti, la dignità delle relazioni internazionali, ecc. Ovviamente - si precisa solennemente - con l'annuncio formale (qui veramente unanime o quasi) che l'unico vero destinatario finale di tutto è il popolo, il quale vedrà (non certo dall'oggi al domani, a tempo opportuno) i frutti copiosi della crescita, dell'occupazione, della rinascita della scuola e della ricerca, del riassestamento del territorio, dell'equità sociale, ecc. Nel frattempo, però, i diversi contrattanti s'assicurano l'affare proprio.

Si è ben lontani, sembra, dall'era della politica della rappresentanza popolare, in cui la classe politica rappresentava veramente e solamente (o soprattutto) il popolo, che di fatto aveva il potere - grazie a leggi e riforme adeguate - di decidere di volta in volta di confermarla o di sostituirla. E' finita quell'era. Osservando alcuni fenomeni attuali, si ha la sensazione che c'è qualcosa di diverso, che si miri a qualcos'altro; ed è una sensazione che genera perplessità per il futuro della nostra democrazia rappresentativa. E' doveroso, senza dubbio, demolire ideologie sorpassate dalla storia e palesemente inutili, ma è pericoloso instaurare procedimenti destinati (forse pure inconsapevolmente, ma non per questo meno nocivi) a smentire e capovolgere la democrazia rappresentativa. Conservare il Parlamento, ma esautorarlo e addomesticarlo all'Esecutivo, allo scopo di mostrare l'impotenza di quell'istituzione, per risaltare la potenza del gruppo dirigente e richiedere il necessario contributo di forze sociali ed economico-finanziarie "estranee"; svuotare il Senato d'ogni competenza di controllo sulla Camera dei Deputati; demolire le funzioni parlamentari apparentemente rispettate, ma nei fatti raggirate come inutili remore; puntare su riforme istituzionali ben cucite su misura; progettare una legge elettorale, che riduce sostanzialmente a farsa il voto dei cittadini. E il tutto con una frenesia, che toglie ogni lucidità di giudizio e limita la possibilità di riflettere e di ponderare i fatti, quasi si abbia paura che s'intuisca qualcosa di più e che si capisca meglio. Ma il popolo italiano non è quello cinquecentesco immaginato dal vecchio Machiavelli. E' quello che s'è costruito grazie alla democrazia rappresentativa sulle macerie di due guerre e di due funesti totalitarismi. E lo conferma il fatto che a tutt'oggi il partito più numeroso è quello dei non-voto, che si gonfia sempre più nel silenzio dell'avversione dignitosa.

ALDO MORO NON E’ TUTTO MORTO!


Pubblicato da "Affari Italiani", Mercoledì, 12 novembre 2014

Giunge con soddisfazione la notizia che è stata conclusa l’inchiesta condotta sul caso Moro, dopo le interessanti dichiarazioni di Enrico Rossi, ex ispettore di PS. Il Procuratore generale di Roma, Luigi Ciampoli, riferirà nella competente Commissione parlamentare. E’ conclusa, dunque, l’inchiesta. Ma nell’animo - particolarmente di chi ha vissuto quei terribili avvenimenti - riaffiorano brutti ricordi e riemerge ancora un forte senso d’incredulità. Il rapimento e l’uccisione di Moro hanno inferto allora un colpo mortale non solo e non tanto a un partito politico, ma anche e soprattutto a tutto il nostro Paese. Ferita così grave e profonda che ancora oggi è veramente difficile prevedere fino a quando rimarrà ancora aperta, con tutte le sue conseguenze. Erano già passati quattro anni dal tragico episodio, quando l’allora Segretario della DC Flaminio Piccoli, tentando di intravedere qualche filo di chiarezza, asseriva che “dire che non abbiamo mai avuto dubbi varrebbe riconoscere che siamo di pietra. Ogni coscienza che si rispetti, dinnanzi ad eventi così spaventosi, s’interroga, si esamina, ricorda momenti e decisioni e li riguarda sotto ogni aspetto, per la ricerca di una verità, che sia portatrice almeno di serenità e di pace”. Non pochi dubbi restano ancora, e forse non si capirà mai la verità delle motivazioni vere e delle finalità politiche occultate, che condannarono a morte Aldo Moro. Non bastano, comunque, celebrazioni e attestazioni. Dimenticando e condannando alla sterilità alcuni suoi validi insegnamenti – consigliati con la vita e testimoniati con la morte da martire del servizio al bene di tutti – forse rimarrebbe “assassinato” di nuovo.

Il giorno del sequestro Moro stava recandosi a Montecitorio, dove Giulio Andreotti avrebbe presentato il nuovo governo, per la cui nascita era stato decisivo il contributo dato da Moro. Circa tre mesi prima, in un clima di grande confusione tra tutti i partiti e all’interno di ciascun patito, egli aveva pronunciato un discorso ai gruppi parlamentari della D.C., durante il quale aveva sostenuto: “Possiamo dire che abbiamo cercato, seriamente e lentamente, la verità: la verità, diciamo in senso politico, cioè la chiave di risoluzione delle difficoltà politiche”. Nella politica operosa e produttiva, quindi, non debbono avere alcuno spazio né la superficialità né l’improvvisazione; tutto va deciso e realizzato con lungimiranza, per vedere oltre l’immediato, e con abilità di mediazione, per trovare risoluzioni condivise il più possibile. Quello di Moro era un abito interiore convinto, che traspariva anche dal suo atteggiamento esteriore, che in quei tempi era molto significativo. Aveva, infatti, un incedere compassato e mai studiato, ponderato e sostenuto, ispirante sempre rispetto sincero: era lo specchio d’un uomo intento a osservare e esercitato a riflettere, consapevole delle proprie responsabilità politiche e morali, in anni di crisi grave e profonda in ogni campo.

Da prigioniero nel “carcere” delle Brigate Rosse, quaranta giorni prima della morte, scriveva a Zaccagnini, allora segretario della Dc, consigliandogli disponibilità a trattare “qualche concessione” con i brigatisti, e concludeva: “Tenere duro può apparire più appropriato, ma qualche concessione è non solo equa, ma anche politicamente utile. Se così non sarà, l’avrete voluto e, lo dico senza animosità, le inevitabili conseguenze ricadranno sul partito e sulle persone. Poi comincerà un altro ciclo più terribile e parimenti senza sbocco”. Nel partecipare all’audizione del Procuratore Generale, tutti i partecipanti ripensino almeno a due direttrici, che Moro ha lasciato in eredità. La verità e il dialogo. “Quando si dice la verità – aveva ammonito lo statista pugliese, non bisogna dolersi di averla detta. La verità è sempre illuminante. Ci aiuta a essere coraggiosi”. E aveva insistito che non basta dirla la verità, “per avere la coscienza a posto: noi abbiamo un limite; noi siamo dei politici, e la cosa più appropriata e garantita, che noi possiamo fare, è di lasciare libero corso alla giustizia, e fare in modo che un giudice, finalmente un vero giudice, possa emettere il suo verdetto”. Per la soluzione più efficace dei problemi d’ogni natura, Moro suggerisce sempre il metodo del dialogo: purchè sia leale e ispirato solo al bene comune; rimane intatta la sua testimonianza, secondo cui la terapia nel pensare e nell’agire politico non è il mutare tecniche operative, ma vivere i valori. Testimoniandoli sino a offrire la propria vita.

"ELOGIO FUNEBRE DEL REGIME PARLAMENTARE”

Pubblicato da "Affari Italiani", Sabato, 8 novembre 2014

“Noi assistiamo alle esequie di una forma di governo”, disse il 19 dicembre 1925 al Senato, nel celebre discorso di rifiuto della legge sulle prerogative del Capo del governo, Gaetano Mosca giurista, politico, senatore e membro del governo Salandra. La riforma che veniva proposta era certamente compatibile, se si guardava alla lettera dello Statuto Albertino allora in vigore, ma la sostanza, che si voleva venisse approvata, era davvero preoccupante, in quanto si sanciva che i singoli ministri non dipendevano più dal Capo dello Stato (allora il re), ma dal Capo del Governo, e si stabiliva che lo stesso Consiglio dei Ministri da “organo collegiale” diventava “organo consultivo”.

Tutto il potere, pertanto, veniva riposto nelle mani del Capo del Governo, il quale creava i ministri, poteva destituire quelli in carica, poteva modificarne le deleghe, poteva attribuirsi le decisioni su questioni di reciproca competenza e aveva perfino il potere di stabilire l’ordine del giorno delle Camere. Il punto più enigmatico, tuttavia, era il problema della fiducia che doveva reggere il Capo del Governo: egli, infatti, restava al potere non solo al di fuori del volere delle Camere, ma persino al di fuori della volontà del Capo dello Stato (allora il re). Nel disegno di legge era scritto espressamente che il Capo del Governo veniva mantenuto al potere dal “complesso di forze economiche e politiche e morali, che lo hanno portato al Governo”. Era qui che si nascondeva l’ambiguità: chi erano quelle strane forze extraparlamentari tanto potenti da non essere soggette al parere neppure del Capo dello Stato. E Gaetano Mosca – maestro di Diritto, fondatore della Scienza Politica nelle università italiane, teorico della “classe politica” – diede voto contrario.

Annunciando il proprio voto contrario, Mosca avvertiva che nei fatti, sotto l’apparenza di strumenti presentati e caldeggiati come più adatti a un governo fattivo ed efficace, si stava cambiando un intero sistema di governo, che coinvolgeva e comprometteva diritti civili, equità sociali, doveri politici e persino valori morali d’una nazione intera già in piena crisi morale ed economica del dopoguerra. Cambiamenti probabilmente non solo opportuni, ma addirittura necessari. Ma erano proprio le motivazioni e le finalità, che si diceva voler perseguire mediante tale cambiamenti che richiedevano prudente valutazione della realtà presente e saggia previsione delle possibili conseguenze future. Egli riteneva che un rinnovamento esageratamente rapido e intempestivo era un “salto nel buio” dettato dall’impulso frenetico d’una “nuova generazione, che crede di sapere tutto e di poter tutto mutare”. Terminava, perciò, le sue parole – sempre dettate con stile dimesso e umile - dichiarando che sentiva come suo “forte dovere di ammonirla”.

Consapevole di alcune reazioni prevedili, Mosca volle raffigurare i sentimenti che lo animavano nel suo comportamento e nella sua decisione, ricordando all’Assemblea l’addio di Ettore ad Astianatte: il tragico epilogo omerico d’una virtù morale e combattiva.

Sono passati circa novant’anni: forse non pochi per rileggere la nostra storia, prendendo qualche utile lezione.

DUE “RIFORMATORI” DEL XX SECOLO: PAPA MONTINI E JACQUES MARITAIN

Pubblicato da "Affari Italiani", Mercoledì, 22 ottobre 2014

Domenica 19 ottobre 2014: in piazza san Pietro una marea di folla fissava per ore intere la gigantografia d’un papa non molto noto ai più, perché (forse) tanto in vita che dopo la morte era rimasto sempre schivo e poco propenso ad apparire. Scetticismo e contentezza s’alternavano e si susseguivano nell’apprendere che papa Montini (1897-1978), uomo di chiara fama e di profonda cultura, veniva riconosciuto anche dalla chiesa cattolica romana - da lui guidata con costante prudenza anche durante gli “anni di piombo” – degno di venerazione per le sue virtù eroiche: spesso incompreso e talora dimenticato, veniva ora riscoperto fino a consacrarlo agli onori degli altari.

Montini percorse tutte le tappe nella vita ecclesiastica fino ad accettare il gravoso “servizio pontificale”; mantenne costantemente ferrea fedeltà ai suoi doveri pastorali e intatta coerenza ai dettami della sua coscienza. Anche da papa rimase ‘nel mondo’, ne esaminò i problemi, prodigandosi generosamente per la loro migliore soluzione; ne condivise le angosce, spendendosi ad alleviarle. Seppe riconoscere, stimare e frequentare anche “laici” saggi, onesti e anch’essi servitori degli uomini: basti ricordare, per esempio, l’amicizia con Aldo Moro (1916-1978) e la frequentazione di Jacques Maritain (1882-1973). Questo pensatore, addirittura, quindici anni più anziano, lo ispirò sempre soprattutto per la sua rivendicazione della ”integralità” dell’uomo, cioè della persona umana, che deve occupare la centralità d’ogni pensiero e d’ogni azione, essendo essa fondamento e fine del bene comune autentico. Non a caso, alla chiusura del Concilio Vaticano II, il papa Montini consegnò simbolicamente proprio al filosofo Maritain il messaggio indirizzato “agli uomini di scienza e del pensiero”, riconoscendolo così degno rappresentante degli intellettuali.

L’8 dicembre 1965, infatti, papa Paolo VI chiudeva il Concilio Vaticano II; il successivo 31 dicembre il filosofo Maritain poneva fine a “Il contadino della Garonna”, in cui esternava la sua esultanza, annunciando: “E’ stata ora proclamata la libertà religiosa. Ciò che così si chiama non è la libertà che io avrei di credere o di non credere secondo le mie disposizioni del momento e di crearmi arbitrariamente un idolo, come se non avessi un dovere primordiale verso la Verità. E’ la libertà che ogni persona umana ha, di fronte allo Stato o qualsiasi altro potere temporale, di vigilare sul proprio destino eterno, cercando la verità con tutta l’anima e conformandosi ad essa quale la conosce, e di ubbidire secondo la propria coscienza. La mia coscienza non è infallibile, ma io non ho mai il diritto di agire contro di essa”.

Sono convincimenti che sembrerebbero nascere dalla mente d’un fautore dell’antropocentrismo del rinascimento o sgorgare violenti addirittura dalla bocca d’un audace promotore dell’individualismo illuminista. Invece sono sofferte affermazioni dell’ultraottantenne filosofo francese, che Paolo VI continuava ad ascoltare e meditare. Il sodalizio culturale Maritain-Pacelli, in effetti, risaliva già a quarant’anni prima, quando, sfidando le opposte dottrine marxiste e neofasciste, nel 1925, Maritain aveva pubblicato i “Tre Riformatori. Lutero, Cartesio, Rousseau”, in cui criticava fermamente i principi professati dai tre “riformatori”: “l’avvento dell’io” di Lutero; “l’incarnazione dell’angelo” di Cartesio; “il santo della natura” di Rousseau. Riconosciuta e rispettata l’oggettività della realtà storica in cui avevano operato i tre pensatori, Maritain analizzava con indagine seria i contenuti e gli esiti delle idee proposte dai tre, concludendo che in ogni caso si era trattato di riforme illusorie. Infatti, Lutero falliva, perché il suo spirito mancava di religiosità; Cartesio doveva fallire, perché dubitava dello stesso strumento razionale; Rousseau sarebbe stato condannato a sbagliare, perché si fondava sul preconcetto dell’intrinseca malvagità della dimensione sociale degli uomini. Maritain, comunque, si professava anche aperto e disponibile a ogni seria ulteriore meditazione, da concretizzarsi mediante il rispetto reciproco e l’esplicazione della verità lealmente creduta da ciascuno.

Dopo appena due anni, il trentenne sacerdote Montini, nella “Festa dell’Epifania 1928”, firmava la sua traduzione del saggio maritainiano, dichiarando: “Se la sapienza di queste limpide pagine potesse convincere qualche giovane che s’ha da essere cauti a parlar di riforme, cioè ad inventare sistemi nuovi e mai prima scoperti, e a procedere nel pensiero e nella vita con la spavalda e avventurosa libertà degli egoisti e dei rivoluzionari, credo che sarebbe raggiunto scopo sufficiente e opportuno neanche per i nostri tempi e per il nostro paese”.

Maritain per aver scritto questo lavoro aveva sopportato critiche e ironie; Montini, per averlo condiviso, tradotto e diffuso, era atteso da ostilità e malevolenze. Tra i due pensatori s’instaurarono una frequentazione e un‘amicizia vive e solide. Nel 1978, infatti, due mesi prima di morire, papa Montini indicò come “atto importante” dell’intera sua azione pontificale quella solenne “Professione di fede”, che dieci anni prima aveva pronunciato in piazza San Pietro a nome di “tutto il popolo di Dio”. La genesi di quella professione di fede è testimoniata dalle lettere del comune amico card. Elvetico Charles Journet, ora raccolte nel volume 3 della “Correspondence Journet-Maritain” pubblicato nel 1998. Vi si legge come fu incaricato proprio Maritain a preparare un testo adeguato alle intenzioni del pontefice. Il filosofo stese il contenuto della professione solo “come bozza”, che il cardinale avrebbe presentato al papa, il quale, però, lo accettò subito, ritenendo un “miracolo che tutti i punti difficili sono stati toccati e riposti in luce”.

Chiunque voglia dedicarsi a “riformare” qualcosa con serietà e senza manie di protagonismo, chiunque senta il bisogno (o il dovere) d’impegnarsi con leale generosità per il bene comune, potrebbe trovare feconda ricchezza di suggerimenti nell’approfondire il pensiero e nel ripercorrere il modello di vita di questi due protagonisti, che hanno scritto la storia recente, attingendo copiosamente all’esperienza anche del passato, cui hanno guardato con umile rispetto e profonda gratitudine.

CRESCITA ECONOMICA E DIGNITA’ UMANA

Pubblicato da "Affari Italiani", Mercoledì, 15 ottobre 2014

In “Il Sole24ore” di domenica 12 ottobre 2014 è stata annunciata la pubblicazione della nuova edizione del saggio “Investire in conoscenza. Crescita economica e competenze per il XXXI secolo”, scritto dal Governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco. Dalla lettura delle pagine inedite anticipate nel dominicale del quotidiano è possibile dedurre alcune riflessioni ispirate a speranza e, nello stesso tempo, improntate a preoccupazione. “La peggiore recessione dal dopoguerra – scrive l’autore - non è solo conseguenza della crisi finanziaria del 2007-08. E’ il risultato di un forte e diffuso indebolimento della capacità del nostro Paese di crescere e competere”. Le cause bloccanti in questi ultimi decenni, pertanto, non sono da attribuire solo alla congiuntura economica sfavorevole, ma anche a molti “nodi irrisolti”, quali l’allargamento spesso repentino dei mercati, l’imporsi di nuovi protagonisti, l’insufficiente tecnologia disponibile per riordinare i contesti del lavoro e, soprattutto “le carenze nella dotazione, qualitativa e quantitativa, di capitale umano”, sprovvisto delle nuove abilità necessarie per sostenere la sfida dei mercati. Da ciò l’autore induce, con ragione, la necessità che in Italia vengano preparati per tempo profili professionali nuovi e disponibili a ricoprire i sempre ultimi ruoli richiesti dagli sviluppi tecnologici e dal variare della domanda dei mercati.

Viene chiamato in causa, così, l’intero sistema socio-economico, educativo e formativo italiano. E la mente corre agli anni post-sessantottini, durante i quali, con i decreti delegati del 1974, nacquero i cosiddetti “organi collegiali” con lo scopo di “rivoluzionare” natura, finalità e metodi dell’istruzione e dell’educazione delle nuove generazioni, grazie a un più facilitato e più esteso accesso ai diversi gradi d’istruzione e grazie, soprattutto, all’interazione fattiva con la società definita “più vasta comunità sociale e civica”. Ottimismo astratto, fondato sul presupposto che sia gli ambienti educativi sia la società fossero, ciascuna per propria natura, comunità educanti. Sono trascorsi quarant’anni e i risultati sono sotto gli occhi di tutti.

Anche da quest’esperienza nascono ora le perplessità sui rapporti tra esigenze socio-economiche proprie d’ogni nazione e sul come sia possibile associare quantità e qualità dei cittadini: elementi ugualmente necessari in ogni società democratica attuale e di domani. La democrazia, infatti, s’ispira nell’organizzazione della vita al principio dell’uguaglianza legale e, principalmente, reale. Ideale anche questo ottimo, ma che può covare il rischio dell’appiattimento o della massificazione, qualora non si armonizzino procedimenti amministrativi opportuni, metodi didattici adatti e mezzi economici proporzionati. Quantità e qualità, infatti, potrebbero sembrare contrapposte, ma in realtà stanno e debbono rimanere sempre e comunque associate. Ora, è indubbio che con le semplici riforme (anche odierne) meccaniche e funzionali all’immediato si fa poco per la qualità formativa dei giovani e per la reale crescita globale (quindi anche economica) di tutta la società. I popoli progrediscono, di fatto e nel senso pieno della parola, solo se s’investe in primo luogo sulla qualità; e, per raggiungere quest’obiettivo, servono esperienza, lungimiranza, competenza, audacia: chi progetta la formazione dei profili professionali del presente e del futuro deve tenere presente che i propri interventi investiranno coloro che nascono oggi e avranno vent’anni nel 2034. Riformare i processi formativi significa avere una concreta e adeguatamente ampia prospettiva generazionale, e non il soddisfacimento d’esigenze immediate e contingenti.

La parte conclusiva dello scritto del Visco, poi, fa sorgere qualche preoccupata considerazione, ovviamente suggerita dal buon senso e dalla ragionevolezza. “Le conoscenze tradizionali – assicura l’autore - resteranno un bagaglio irrinunciabile, ma andranno inserite in un contesto dinamico in cui assumerà importanza crescente ciò che gli educatori definiscono come ‘competenza’ (…). L’esercizio del pensiero critico, l’attitudine alla risoluzione dei problemi, la creatività e la disponibilità positiva nei confronti dell’innovazione, la capacità di comunicare in modo efficace, l’apertura alla collaborazione e al lavoro di gruppo costituiscono un nuovo ‘pacchetto’ di competenze, che possiamo definire ‘competenze del XXXI secolo’”. Quest’elenco, però, a ben riflettere, ha costituito, costituisce e dovrà costituire l’essenza e la ragion d’essere dell’azione educativa e formativa d’ogni tempo, per cui la differenza specifica del “pacchetto” ritenuto necessario nel nostro secolo si potrebbe forse sintetizzare nel maggiormente veritiero fornire (più che ‘formare’) capacità “per far fronte in modo efficace a situazioni spesso inedite e certamente non di routine”. Le perplessità nascono, allorquando si tenta di capire quale sia concretamente la natura delle invocate situazioni nuove: si tratta di situazioni da “utilizzare” per il benessere materiale e morale dei cittadini oppure contesti che pretendono di “utilizzare” la dignità dell’uomo e del cittadino, manipolando il senso della vita e marcando il destino della qualità dell’esistenza quotidiana?

L’evolvere storico della vita dei popoli globalmente intesa va senza dubbio compresa, accolta e coadiuvata nel suo “crescere e competere”; ma è necessario anche riconoscere ogni valida aspirazione dei singoli e in particolare delle ultime generazioni, evitando polemiche faziose, aprendosi a confronti sereni e nello stesso tempo intransigenti nel loro bisogno di coerenza e di seria verifica. Ogni proposta d’innovazione va formulata con spirito razionale e costruttivo, senza del quale può manifestarsi il malessere sordo, che induce molti, soprattutto i giovani, ad atteggiamenti irrazionali e distruttivi. Non si può tollerare che il fine (l’uomo che dispone d’una sola vita) sia ridotto a mezzo strumentale: l’uomo è fatto per vivere aspirando alla “felicità” sua e degli altri, e giammai per diventare “mezzo” per il perseguimento di mete private o di gruppo. Alla salvaguardia di questo diritto inalienabile sono chiamate tutte le “agenzie formative” di qualunque natura; ogni altra loro attività ha valore se è compatibile con la salvaguardia della libertà e la dignità umane. Anche la crescita economica e la concorrenza dei mercati.

FEDELTA’ POLITICA E COERENZA MORALE

Pubblicato da "Affari Italiani", Giovedì, 28 agosto 2014

Il Governo che impone al Parlamento il voto palese, motivandolo come atto richiesto dall’importanza e dall’urgenza del provvedimento presentato. Il Parlamento che ne contesta le circostanze, esigendo la regolarità e rivendicando la legittimità del voto segreto a tutela della propria autonomia legislativa. Da una parte il voto palese rappresentato (o comunque fatto percepire) come costrizione ricattatoria; dall’altra parte il voto segreto temuto (o minacciato) come opportunità di ritorsioni e occasione di resa dei conti. Da una parte i partiti, che invocano e pretendono la fedeltà politica dei parlamentari da loro fatti eleggere; dall’altra parte i parlamentari che rivendicano il rispetto del loro mandato popolare e della propria coscienza. La questione potrebbe ridursi a un’interessante dissertazione astratta sul rapporto politica-morale, se non coinvolgesse il destino della democrazia repubblicana italiana, la ragion d’essere dei partiti politici, la sorte dell’equità civile, la difesa della giustizia sociale, la tutela del vivere quotidiano dei cittadini. Le Istituzioni, pertanto, garanti massime della democrazia italiana, rischiano di diventare affossatori di democrazia e usurpatori di sovranità popolare; e questo proprio mentre s’adoperano per attuare fondamentali riforme istituzionali (senato, regioni, provincie, legge elettorale, riforma dl sistema giudiziario, assetti economico-finanziari).

I cittadini italiani, in verità, assistono per lo più disincantati e scettici alle vicende della politica italiana interna ed estera. Essi, infatti, sanno correttamente che l’idea e l’attuazione delle democrazie col tempo si sono evolute e continuano a evolversi, lasciando giustamente la sfera dell’astrattezza, per immergersi nella concretezza del governo dei popoli. Sono anche convinti, però, che da quest’evoluzione non scaturisce (e non dovrebbe mai scaturire), quale conseguenza inevitabile, un decadimento dell’idea e dell’etica, che sostanziano ogni democrazia autentica: questa, infatti, prima d’essere una tra le possibili forme di governo, è in primo luogo una visione generale della vita e uno stile di condotta privata e pubblica. Da qui il loro convincimento che anche l’attuale “democrazia del numero” è uno svolgimento positivo e costruttivo delle democrazie, a patto, però, ne restino salvaguardati i valori etici e gli obiettivi politici caratterizzanti. Ciò che oggi preoccupa i cittadini elettori (votanti e non-votanti) è il dover assistere al deterioramento della morale individuale e il decadimento dell’etica pubblica, come indicano alcuni segnali pericolosi. Si pensi, per esempio, alla trasformazione del ruolo degli eletti che ha alterato sostanzialmente anche il dettato costituzionale. Ovviamente anche la Costituzione non è testo sacro ispirato dall’alto; può, quindi, anzi deve essere aggiornata, adeguata, emendata. E’ necessario, però, che ciò sia fatto da chi ne abbia avuto mandato specifico e, soprattutto, con indiscutibile lealtà d’intenti ed evidente trasparenza di procedimenti.

Ed è proprio questo che genera perplessità negli italiani. Assistono, infatti, all’affannosa corsa a “far passare” provvedimenti proposti come strumenti d’una maggiore efficienza gestionale; in realtà, però, benché propugnati come mezzi di “stabilità e crescita”, di fatto implicano modiche sostanziali di princìpi essenziali, peraltro sanciti come fondamentali dalla Costituzione. Senza nascondersi che è molto incerto che tutto ciò arrechi qualche utilità alla vita del cittadino. A confermare la diffidenza dell’italiano politicamente “laico” (quindi, osservatore disinteressato, imparziale e sereno) non è solo ciò su cui si legifera, ma anche il modo con cui in questi ultimi tempi si opera in politica, sia nei palazzi e sia nelle piazze. Infastidiscono e suscitano sospetto l’arroganza dei partiti che il numero dei votanti di turno designa “maggioritari” e la baldanza di dirigenti, che rivendicano per sé il compito di decidere contenuti, tempi e modi della vita pubblica, sempre vigili a salvaguardarla dagl’intralci provenienti sia dai partiti indicati “minoritari” dal numero dei votanti sia da chi all’interno della cosiddetta “coalizione di maggioranza” tenti di discostarsi dalla linea dettata dai propri dirigenti. Ovviamente s’invoca sempre la necessità del dialogo aperto e disponibile a ogni contributo, salvo poi a non rintracciarne mai alcuno valido e appropriato. Inoltre, non si perde occasione per sottolineare e recriminare l’importante numero degli elettori non votanti; addirittura nei loro confronti s’è coniato il termine “astensionisti”, come se il non recarsi alle urne sia sempre e comunque una scelta d’irresponsabile disinteresse e non (anche e soprattutto) una decisione meditata, sofferta e perfino obbligata dai fatti, secondo l’insegnamento anche di Platone.

Si conosce da tutti la necessità della tempestività risoluta necessaria ai governanti. Ma già cinque secoli fa il Machiavelli, commentando e suggerendo l’antico pensiero di Tito Livio, metteva in risalto il valore della “imitazione” del passato e insegnava, anche a tal fine, in cosa doveva consistere la “virtù” del governante efficiente: saggio equilibrio di perspicacia dell’intelligenza. per comprendere ogni situazione, e di forza volitiva sicura, ma sempre suggerita e valutata dalla complessità dei problemi. Ma questo richiede il contributo di tutti. Da tutti, quindi, si richiede un momento di autocritica. Di primaria importanza, per esempio, è il ponderare le conseguenze possibili dell’uso attuale del voto segreto e del voto palese, in quanto i rischi cui si può incorrere non 6sembrano né pochi, né astratti, né lontani. Da una parte, infatti il voto segreto da espressione di responsabilità politica e da salvaguardia di libertà di coscienza e divenuto circostanza per l’esplosione d’inespressi risentimenti e occasione per la resa dei conti; il voto palese, dall’altra parte, da strumento legislativo condiviso, spedito e limpido è divenuto strumento di ricatto e di coercizione.

Tralasciando considerazioni d’altra natura, è innegabile che in questo modo risultano confusi i confini e stravolti i ruoli tra fedeltà politica e coscienza morale e si generano pericolosi equivoci avallati spesso da colpevoli silenzi. Non si tratta di sconfessare e capovolgere la secolare conquista di Machiavelli, rivendicando oggi l’autonomia della morale dall’egemonia della politica; si tratta di rinverdire con nuova linfa vitale la deontologia politica, cioè riscoprire le ragioni etiche, che danno senso all’azione politica, da parte di tutti i cittadini, ognuno nel ruolo che ha scelto o che gli è stato affidato. Sopravvalutare le ragioni della politica significherebbe valicare i confini dello stato etico: sarebbe utile, allora, meditare sulle circostanze e sui contenuti del “Manifesto degli intellettuali antifascisti”, scritto nel 1925 da Benedetto Croce. Sopravvalutare il ruolo delle esigenze del privato significherebbe assolutizzare gli egoismi, avversari d’ogni possibile azione veramente politica. Alcide De Gasperi – che seppe perché, quando e come dedicarsi alla politica e intuì quando e come uscirne - insegna che il politico è democratico quando possiede e pratica il “metodo democratico”, cioè quando cerca il dialogo e rispetta la deontologia propria della politica: un governante ottimo – ammonisce – rispetta i valori con fedeltà costante e grande coerenza. Queste, però, non un valore in sè e per sè, ma sempre agganciate a una scelta, che abbia valore in sé e che ne fondi la validità.

A battere un terreno più concreto ci indirizza Enrico Berlinguer, audace innovatore politico: “I partiti – dichiara già nel 1981 a Eugenio Scalfari - non fanno più politica, e questa è l’origine dei malanni d’Italia”. E Aldo Moro, martire per la coerenza, avverte: “Per fare le cose, occorre tutto il tempo che occorre” e raccomanda il rispetto del ruolo degli organi intermedi: “Il decentramento nella gestione degli interessi comuni – ammonisce - è uno strumento dell’avvicinamento del potere agli amministrati e dell’umanizzazione di esso come garanzia del suo retto fine”. Insegnamenti necessari anche nei nostri tempi. In momenti di particolare smarrimento ci soccorre comunque l’esperienza di Mahatma Gandhi: “Meglio un milione di volte sembrare infedeli agli occhi del mondo che esserlo verso noi stessi”.

sabato 8 novembre 2014

L’EPISTOLARIO ABELARDO-ELOISA . MESSAGGI DI FILOSOFIA INTEGRALE

2014-1164. Ricorre l’850° anniversario della morte di Eloisa, la fanciulla diciassettenne, che s’innamorò, amandolo poi per tutta la vita, del suo maestro Abelardo, il filosofo trentasettenne già famoso per la novità del pensiero creativo, l’originalità del metodo d’indagine e l’efficacia della retorica. In una lettera Eloisa confesserà d’essere rimasta affascinata sin dall’inizio dalla cultura e dalla fama del maestro: “Tutti si precipitavano a vederti, quando apparivi in pubblico (…). Avevi due cose in particolare, che ti rendevano subito caro: la grazia della tua poesia e il fascino delle tue canzoni, talenti davvero rari per un filosofo quale tu sei”. Amore, quindi, fondato sulla stima, sbocciato tra i libri e la filosofia, consolidato dagli ostacoli superati: “La mia anima – gli confiderà – non era con me, ma con te”. Nell’Epistolario di Abelardo è conservata memoria di questa vicenda amorosa tra le più belle e tragiche che la storia ricordi; forse per questo rimane un libro che ha occupato e occupa la scena culturale sin dalla seconda metà del 1200. Ha già ispirato, infatti, celebri poeti, come Hofmann von Hofmannwaldau (con Heldenbriefe del 1673), Alexander Pope (con Eloise to Abelard del 1717) J.J. Rousseau (con Joulie ou la nouvelle Héloïse del 1761). E ancora oggi è molto letto dagli studiosi impegnati a discuterne l’autenticità, ma spesso anche mossi dal desiderio di comprendere l’esperienza più intima di vita di due personalità, unite da legame indissolubile, nonostante traversie, allontanamenti imposti dall’ambiente sociale e la separazione definitiva accettata a forza.

Non si può nascondere, in verità, un senso di fastidio per la letteratura di questo genere; l’Epistolario di Abelardo, però, pur avendo come oggetto l’amore, contengono anche importanti riferimenti storico-culturali e utili indicazioni per la ricerca filosofica e teologica. Abelardo, infatti, nelle sue prese di posizione mostra una singolare arditezza, avvalendosi, oltre che della logica razionale, anche dell’apporto di sentimenti umani pre-razionali e a-razionali, per i quali veniva osservato con sospetto, ma di cui c’era e c’è sempre bisogno per una filosofia, che voglia essere completa, capace di preparare l’uomo a morire dignitosamente, ma soprattutto d’aiutarlo a vivere in pienezza e felicità. La filosofia è “amore della sapienza” e nello stesso tempo – sulle orme di Platone e sant’Agostino – “sapienza dell’amore”, per cui si pone come il tessuto compatto realizzato con l’intreccio dei fili della trama della razionale con l’ordito dei fili delle altre capacità dell’essere umano. Così essa diventa fonte di risposte alle domande umane ed energia alimentatrice del vivere umano autentico e libero. Interessanti a questo riguardo risultano i contributi dati, in confronto costruttivo col pensiero di Paul-Michel Foucault, dal filosofo Remo Bodei, il quale sostiene: “Malgrado i ripetuti annunci, è certo che la filosofia, al pari dell’arte, non è affatto ‘morta’. Essa rivive anzi a ogni stagione, perché corrisponde a bisogni di senso, che vengono continuamente – e spesso inconsapevolmente – riformulati. A tali domande, mute o esplicite, la filosofia cerca risposte, misurando ed esplorando la deriva, la conformazione e le faglie di quei continenti simbolici, su cui poggia il nostro comune pensare e agire”.

Potrebbe essere azzardato sostenere che Abelardo – uno dei massimi maestri del suo tempo, il più seguito dagli intellettuali a lui contemporanei - abbia colto le sue intuizioni in filosofia e abbia formulato le sue tesi in teologia grazie allo stato amoroso con Eloisa; è certo, tuttavia, che senza quell’esperienza non avrebbe sostenuto così audacemente le sue dottrine, tanto ardite per quei secoli medievali d’attirarsi invidie, ricatti, persecuzioni e persino attentati alla vita. Del resto è lo stesso Abelardo che confessa che, senza il fascino dell’amore, “il maestro di filosofia si appiattisce in uno sterile ripetitore”; e di se stesso non ha difficoltà a rivelare: “Nelle lezioni diventai freddo e meccanico: tutto mi usciva di bocca per abitudine. Non ero ormai che il ripetitore delle dottrine che avevo creato; se qualcosa mi veniva fatto di creare, questo non era dottrina, era canto d’amore”. Come la “luce” della fede religiosa, quindi, rafforza la capacità conoscitiva umana, rivelandole verità diversamente ignote, così la “luce” dell’amore irrobustisce l’intero essere umano, svelandogli realtà altrimenti non sperimentabili.

Nel pensiero di Abelardo emergono almeno due posizioni allora innovative e oggi di grande attualità: il valore degli “universali” (o idee) e l’etica dell’intenzione. Nel 1200 lo studio della filosofia era inchiodato all’autoritarismo dell'aristotelismo, e la ricerca in teologia era bloccata dall’interpretazione dell’autorità ecclesiastica; persino la scienza doveva fare i conti con l’astratta metafisica: erano davvero molto lontani i Machiavelli, i Keplero, i Galilei, i Cartesio. Dominava assoluto il teocentrismo, usato per controllare le menti e per soggiogare i popoli. Abelardo, però, svincolò il valore dell’idea dall’astrattezza del nominalismo (attirandosi l’ira del filosofo francese Roscellino, suo antico maestro, dal quale fu accusato d’eresia) e la liberò, d’altra parte, anche dalle angustie del piatto realismo (propugnato da sant’Anselmo e da Guglielmo di Champeaux). Abelardo, così, precorre di circa sei secoli Immanuel Kant, rivendicando la “funzione regolativa” d’ogni idea, in quanto essa costituisce l’ideale, che deve avere sempre un fondamento nella realtà e deve tendere a creare altre possibili realtà future, oggetto di speranza sostenuta da forte fede razionale.

Veramente temeraria è, poi, la proposta della morale dell’intenzione, fondata su un robusto antropocentrismo. L’uomo – argomenta Abelardo - è dotato di ragione; questa, però, pur essendo una facoltà straordinaria, che distingue e nobilita la natura umana, resta tuttavia una facoltà limitata, imperfetta e fallibile, proprio perché umana. E’ necessario, di conseguenza, che essa muova sempre dal dubbio, unico fondamento solido, per costruire una ricerca valida e veritiera. Il “credere”, in ogni ambito, dev’essere un atto di comprensione e un gesto di vitalità umana: si deve capire ciò che si crede e perché lo si crede. “E’ ponendo domande che impariamo la verità”, afferma apertamente Abelardo, precisando che non si crede a una cosa perché Dio l’ha detta, ma si ammette ch’egli l’abbia detta, perché razionalmente la cosa è vera. Affermazioni pericolose; ma Abelardo continuò a insegnare senza remore che “Dio tiene conto non delle cose che si fanno, ma dell’animo con cui si fanno; e il merito e il valore di chi agisce non consistono nell’azione, ma nell’intenzione”. E preciserà ancora: “Gli uomini giudicano di quel che appare, non tanto di quello che è nascosto (…). Solamente Dio, che guarda allo spirito con cui si fanno le cose, valuta secondo verità la consapevolezza della nostra intenzione”.

La statura culturale di Abelardo va compresa certamente mediante la profondità del suo pensiero e il coraggio mostrato nella vita “esteriore”, ma anche attraverso l’esperienza della sua “vita intima”: in filosofia non sono mai scindibili le due cose. Abelardo è stato interpretato come il filosofo spregiudicato e intemperante; così come Eloisa è stata additata come esempio d’amore libero e moralmente deplorevole. Esaminando, però, senza pregiudizio alcuni comportamenti dei due, si rivela diversa la realtà. E’ vero che Eloisa, infatti, dopo la nascita del figlio Astrolabio, si oppose al matrimonio, ma solo perché sarebbe stato “infamante” e “oneroso sotto ogni aspetto” per il marito: “Quante lacrime verserebbero – scrisse - coloro che amano la filosofia a causa del matrimonio”. Ma quando capì la decisione di Abelardo, concluse con angoscia: “Resta una sola cosa; la certezza che non soffriremo meno di quanto ci siamo amati”. E dopo il matrimonio e l’evirazione di Abelardo, quando si decise di prendere entrambi la vita monastica, Abelardo si chiuse nel silenzio del tormento, per non accrescere la sofferenza d’Eloisa. Lui entrò nel monastero a Saint-Gildas de Rhuys, e mandò lei nel monastero di Argenteuil. Le strade si separano e i due non si rivedranno mai più.

Successivamente, quando per caso ebbe tra le mani una lettera di Eloisa, in cui ella confidava la sofferenza per l’amore ancora vivo, Abelardo ne rimase molto turbato: aveva sperato che il tempo avrebbe almeno attenuato tormenti della sua donna. Repressa, allora, la sua angoscia, le si rivolse con fare volutamente freddo e distaccato, ricordandole i nuovi doveri di badessa. Lei gli ricordò alquanto risentita il fervore del passato; Abelardo, sempre con fare distaccato, le scrisse: “Io adesso sono circondato anche nell’anima”; Eloisa, allora, gli pose la straziante domanda finale: “Perché la sublimazione si dovrebbe raggiungere soltanto annichilendo i sensi e il sentimento d’amore che si prova verso un’altra persona?”. Abelardo, allora, chiuso in un silenzio degno d’un martire, non risponderà mai esplicitamente; poco prima di morire, però, l’ammonì: “Ricordati che io ti appartengo”. Abelardo muore nel 1142, Eloisa nel 1164. Sepolti in uno stesso loculo, secondo la volontà di Eloisa, i loro resti giacciono in una cappella nel cimitero del Pére Lachaise a Parigi. Ai piedi della tomba c’è la scultura raffigurante un cane, simbolo di fedeltà.

domenica 12 ottobre 2014

FERMARE LA GUERRA

Pubblicato da "Affari Italiani" Domenica, 14 settembre 2014 - 11:34:00

Il Papa: “Fermare la guerra”. L'analisi del filosofo Scarcella

Il Papa: la guerra distrugge, è follia. E il filosofo Cosimo Scarcella sceglie Affaritaliani.it per commentare le parole del pontefice: "La novità terrificante dell’ultimo intervento è stata la sua aperta e chiara accusa che la guerra è scelta e decisa dalla libera volontà di alcuni uomini. Le guerre sono possibili – ha detto – “perché oggi dietro le quinte ci sono interessi, piani geopolitici, avidità di denaro e di potere". La storia del passato e le esperienze del presente documentano, infatti, che le guerre sono generate o dal fondamentalismo religioso o dalla brama di potere economico e politico, ma..."

La pace sembra essere la chimera degli ottimisti utopici; la guerra la realtà tragica, ma necessaria e inevitabile. “Fermare la guerra” aveva già gridato il papa qualche giorno fa; e, con lo sguardo rivolto sulle tombe dei caduti in guerra, ha ripetuto: “Dopo il secondo fallimento di un’altra guerra mondiale si si può parlare di una terza guerra combattuta ‘a pezzi’, con crimini, massacri, distruzioni”. La novità terrificante dell’ultimo intervento è stata la sua aperta e Chiara accusa che la guerra è scelta e decisa dalla libera volontà di alcuni uomini: le guerre sono possibili – ha detto – “perché oggi dietro le quinte ci sono interessi, piani geopolitici, avidità di denaro e di potere, c’è l’industria delle armi, che sembra essere tanto importante!”. La storia del passato e le esperienze del presente documentano, infatti, che le guerre sono generate o dal fondamentalismo religioso o dalla brama di potere economico e politico. Negli ultimi tempi in campo religioso abbiamo assistito a numerose concrete iniziative di dialogo e di riavvicinamento. Non si può dire la medesima cosa nel campo politico, in cui indubbiamente anche i “grandi” si riuniscono, ma per trovare equilibri di dominio e di ricchezza, Il loro dialogo si fonda sul compromesso politico e sul ricatto economico; unico argomento da discutere è sempre quale profitto si possa trarre dal diniego o dall’accettazione di una proposta. Ed è terrificante leggere che si è giunti persino alla conclusione (condivisa) di promuovere delle guerre per spegnerne delle altre e addirittura dell’opportunità di “inviare armi per vendicare stragi”. Non a caso lo stesso pontefice alcuni giorni prima aveva dovuto sottolineare: “Ho detto ‘fermare’ e non ‘bombardare’ la guerra!”. Sono gli uomini a decidere la guerra e la pace: quindi possono scegliere di perseverare o cambiare rotta.

Molto significativo è stato l’aver puntato il dito sulla “industria delle armi, che sembra essere tanto importante!”. Affermazione questa, che ci rimanda a circa settanta anni fa, quando Pio XII, sfidando la “follia” del nazismo e del fascismo, leggeva e trasmetteva i radiomessaggi natalizi degli anni 1940-1942, che rappresentarono – secondo il giudizio dell’ambasciatore tedesco di allora, Von Weizsäcker, "un manuale completo per il ritorno alla ragione internazionale". Rivolgendosi direttamente ai responsabili della guerra, il pontefice, elenca i principi su cui doveva nascere dalle macerie della guerra il nuovo ordine: vincere l’odio serpeggiante tra i popoli, ridare dignità al diritto internazionale, eliminare la priorità dell’utilitarismo, controllando le divergenze in economia mondiale, eliminare lo squilibrio tra un esagerato armamento degli Stati potenti e il deficiente armamento dei deboli, scendere a un ampio e proporzionato limite nella fabbricazione e nel possesso di armi offensive; nel messaggio del 1942, infine, il papa si spinse oltre, concentrandosi soprattutto sui principi sociali e morali che dovevano essere "il sostrato e il fondamento di norme e leggi immutabili per costruzioni sociali di interna solida consistenza".

Quei messaggi allora non furono accolti benevolmente da parte di tutti. Il sacerdote modernista Ernesto Bonaiuti, per esempio, notò che il Natale, occasione propizia per riflettere sui lutti dell’umanità, serviva al papa per “ammannire dalla radio vaticana una lezione di diritto internazionale”; il cattolico fascista Giovanni Papini giunse a scrivere: “Il papa somiglia a uno che dinanzi a una metropoli in fiamme faccia saggi discorsi, per dimostrare che ai bambini non vanno affidate le scatole di fiammiferi". Ed è risaputo il sarcasmo di Benito Mussolini: “Il Vicario di Dio – disse - non dovrebbe mai parlare: dovrebbe restare tra le nuvole".

Oggi tutti si augurano che I responsabili del governo dei popoli e delle nazioni diano ascolto al dolore del papa, che avverte: “E’ proprio dei saggi riconoscere gli errori, provarne dolore, pentirsi, chiedere perdono e piangere”. Sperano che a questo Papa, che si appresta a parlare nell’aula dell’Unione Europea, non accada ciò che accadde con papa Giovanni XXIII, che nella crisi di Cuba, grazie anche a queste precedenti posizioni della chiesa cattolica, poté rivolgersi alle due massime potenze, che minacciavano di far precipitare il mondo nel baratro di un conflitto nucleare: “Noi supplichiamo – disse - tutti i governanti a non restare sordi a questo grido dell'umanità. Che facciano tutto quello che è in loro potere per salvare la pace”. Fu ascoltato. Ma fa riflettere ciò che il russo Anatoly Krasikov riferisce nella biografia di Giovanni XXIII: "Resta curioso il fatto che negli Stati cattolici non si riesca a trovare traccia di una reazione ufficiale positiva, all'appello papale alla pace, mentre l'ateo Kruscev non ebbe il più piccolo momento di esitazione per ringraziare il papa e per sottolineare il suo ruolo primario per la risoluzione di questa crisi che aveva portato il mondo sull'orlo dell’abisso".

martedì 16 settembre 2014

L'uomo e il cielo stellato


Pubblicato da Affari Italiani (affaritaliani.it) mercoledì, 30 luglio 2014 - 15:10:00

Il filosofo Scarcella alza lo sguardo dai "deliri del mondo" e regala ad Affari le sue riflessioni

Disastri aerei, complotti che minacciano gli equilibri mondiali. In Libia l'esplosione di un razzo ha devastato la capitale e il conflitto di Gaza fa sentire in tutto il mondo l'odore del sangue. Anche seguendo le piccole, ma per noi tanto grandi, vicende italiane si ha la sensazione che il mondo non dia tregua. Non lasci più tempo per riflettere, osservare, magari sperare. C'è invece chi, proprio partendo dallo sguardo disincantato di quello che accade, si ferma un momento e contemplando il cielo, da sempre musa di idee e scoperte per l'animo umano, si lascia andare alla riflessione più libera e pura, profonda e a tratti poetica. Si tratta di un filosofo, Cosimo Scarcella (http://cosimoscarcella.blogspot.it/), esperto di Condorcet e studioso di dottrine politiche e filosofiche applicate alle concrete situazioni storiche, che "regala" ai lettori di Affaritaliani.it due pagine che riportano l'attenzione sul pensiero, quell'attività oggi quasi dimenticata.


Il mese d'agosto è ormai alle porte e gli occhi degli uomini si voltano più spesso a guardare in alto verso il cielo, per intercettare (per ricerche scientifiche o per curiosità o anche solo per superstizione) l'improvviso luccichio di qualche "stella cadente". Nelle notti, soprattutto in alcuni momenti, sembra davvero di assistere a una pioggia di stelle: da alcuni interpretata come malinconico pianto di partecipazione alle cupe calamità terrestri, da altri vissuta come presagio di luce e di fiducia. "C'è chi si fissa a vedere solo il buio. Io - confida Victor Hugo - preferisco contemplare le stelle". La contemplazione del cielo - in qualunque stagione dell'anno, di giorno o di notte, terso o nuvoloso, sereno o tempestoso - invita alla riflessione, genera commozione, nutre speranza. La riflessione è esigenza della razionalità, la commozione è frutto dell'umana sensibilità, la speranza è figlia della verità. La verità che rende liberi: non la verità voluta e difesa come unica e assoluta, ma quella consentita alle umane capacità. La smisurata volta celeste, però, è icona anche di verità che l'uomo vorrebbe raggiungere, ma invano. "L'ultimo passo della ragione - ammonisce prudentemente Pascal - è il riconoscere che ci sono un'infinità di cose che la sorpassano"; e il grande matematico suggerisce: "I movimenti degli astri sono un canto ininterrotto per molte voci, percepito non dall'orecchio, ma dalla mente; una melodia figurata, che traccia dei punti di riferimento nell'incommensurabile fluire del tempo".

Punti di riferimento L'uomo guarda e interroga il cielo: non sa chi lo abbia messo al mondo, né che cosa sia il mondo, né che cosa sia lui stesso. Si sente invaso da un'ignoranza spaventosa. Vede quegl'infiniti spazi celesti e si smarrisce: si sente rinchiuso in un piccolissimo angolo, e non sa nè perché né per quanto tempo vi rimarrà nell'eternità che l'ha preceduto e che lo seguirà. L'uomo! Essere germinato dalla Terra o disceso dal Cielo? Inerte frammento d'una zolla di terra governata dall'assurdo gioco di movimenti atomici, oppure splendido ritaglio di luce inviato dalle stelle e destinato ad essere riassorbita nello splendore dell'energia dell'eterna vita cosmica?

Rilegge nel Testo Sacro la promessa di Javè ad Abramo: i suoi discendenti sarebbero stati numerosi come le stelle. Il cielo stellato, allora, non resta al di sopra dell'uomo, ma gli sta a fianco; non è indifferente alle vicende degli uomini, ma ne partecipa, vivendo insieme a loro. L'uomo e il cielo stellato non sono coinquilini estranei in un cosmo ignoto, e nemmeno reciproci accompagnatori ipocritamente disponibili. Sono fatti l'uno per l'altro. Uomini e stelle sono in tensione reciproca: uomini che si rivolgono e dialogano con le stelle, e stelle che sorridono e rispondono agli uomini, con un silenzio profondo che sa di sacro. Sempre il medesimo cielo guardato perennemente dai medesimi figli dell'uomo, i quali pudicamente gli confidano dubbi e ansie, gioie e dolori, progetti e delusioni, sperando senza stanchezza un qualche svelamento d'arcani misteri. Nasce, allora, e cresce a poco a poco, un intimo puro totale amplesso dell'uomo con il cielo: amplesso che sublima, emoziona, commuove, penetra, permea le profondità dell'animo. Attimi eterni, come quelli vissuti dal Leopardi, quando confida: "E quando miro in cielo arder le stelle, dico fra me pensando: a che tante facelle? Che fa l'aria infinita? E quel profondo infinito sereno? Che vuol dir questa solitudine immensa? Ed io che sono?".

All'uomo superficiale, che è certo di tutto e a tutto ha pronta la risposta, Montale, straordinario interprete dei recessi dell'animo umano, svela: "Forse un mattino … vedrò compirsi il miracolo … Ma sarà troppo tardi: ed io me ne andrò zitto, tra gli uomini che non si voltano, col mio segreto". Rispettiamo il segreto del poeta, ma per l'uomo responsabile e pensoso non è difficile indovinare alcune gravi e serie domande. Si vorrebbe comprendere le reali motivazioni e le vere aspirazioni di tante scelte libere o condizionate; si vorrebbe afferrare il senso di tante vicende personali. Se la vita degl'individui, dell'umanità, del cosmo - si dicono uomo e cielo - non è frutto del caso, ma risultato di una qualche Ragione ordinatrice, perché l'ordine che si manifesta nelle leggi fisiche non è presente pure nella vita dell'Uomo e dell'Umanità, dominata dalla paura e dalla violenza? Perché dilagano disordine morale e sociale, confusione individuale e ingiustizia generale? Perché dominano egoismi e disonestà, perché divampano guerre e si commettono massacri? Di fronte a fatti veramente incredibili, l'uomo, anche lontano da sensibilità religiosa e vicino a convinto agnosticismo, talora invoca e addirittura, quasi per un impulso innato, attende un qualche intervento del cielo; anzi giunge a meravigliarsi del non intervento del cielo. Certo potrebbe essere impudente presunzione dell'uomo credersi centro del cosmo, intorno al quale dovrebbe ruotare tutto; ma è "umano" attendere un qualcosa di straordinario, quasi un miracolo. Basti pensare che lo stesso Kant, noto per il suo rigorismo razionale, ritiene che non si può escludere un evento straordinario; sicuramente è un atteggiamento "unphilosophisch" (antifilosofico), ma tuttavia dettato da profondo "sentimento umano". Certo - avverte il filosofo tedesco - non bisogna contare su quest'interventi sovrumani; è sempre preferibile attenersi all'ordine razionale, che impone di vivere senza mai sacrificare "la diligenza e l'onestà" alla speranza d'un aiuto superiore: cioè, si deve vivere secondo la legge della nostra coscienza, sede vivente del "divino" che è nell'uomo. Nel contemplare la volta celeste, allora, l'animo dell'uomo si allarga fino ad abbracciare gli estremi confini dell'universo e si concede, con meravigliosa donazione illimitata, all'armonia vivente del Cosmo. Anche il cielo, allora, corrisponde e abbraccia la terra e i suoi abitatori. Sembra che esso di giorno voglia nascondere e salvaguardare il suo prezioso manto stellato, per poi svelarlo e offrirlo la notte agli occhi e all'animo dell'uomo, che lo aspetta con gioiosa fedeltà, per potergli confidare i segreti sigillati nell'inaccessibile scrigno del proprio animo. E tutto ciò in estrema misteriosa fusione, in totale sovrumano silenzio: perché "il piacere di amare senza osare dirlo - annota Pascal - ha i suoi tormenti, ma anche le sue dolcezze".

Queste riflessioni potrebbero apparire solitarie meditazioni poetiche: belle, ma poco utili per la comprensione e la soluzione dei problemi reali degli uomini, che debbono guardare attentamente per terra, per non cadere in qualche pericoloso fosso come accadde a Talete. Oggi molta scienza pretende di conoscere ogni cosa attraverso le sempre aggiornate acquisizioni scientifiche e il vertiginoso progresso tecnologico; molte teologie formulano questioni anche importanti, deducendone, però, conclusioni indiscutibili; molta "classe politica" si vanta di trovare "regole" sempre nuove, confondendo spesso novità per validità vera e a dimensione d'uomo; molti reggitori di popoli e di nazioni sfoggiano forza militare e ostentano potere economico, per perseguire giustizia e pace. Uno sguardo alla storia, però, farebbe dubitare molto e inviterebbe alla prudenza. Giovanni Keplero giunse alla scoperta delle leggi dell'astronomia fisica, contemplando la "Armonia del Mondo"; in quel periodo la teologia del latitudinarismo irenico sanò molte piaghe causate dalle trentennali guerre di religione; Marco Aurelio consolidò e pose ordine all'impero romano, mettendo in pratica gl'insegnamenti della filosofia stoica; più vicino a noi, il Mahatma Gandhi conquistò l'indipendenza della sua nazione e ottenne numerosi diritti civili e politici, conducendo una vita semplice e umile, convinto che "non aveva nulla di nuovo da insegnare al mondo, in quanto la verità e la nonviolenza sono antiche come le montagne". Figure eloquenti, per smitizzare la pretesa di alcuni di poter indirizzare secondo le proprie opinioni la natura, la realtà e persino tutta la storia degli uomini. Guardando il cielo è facile osservare come ciascuna stella è solo una minuscola parte, sempre identica a se stessa e diversa da tutte le altre; la Totalità armonica delle loro infinite diverse individualità crea e garantisce ordine e felicità.

mercoledì 5 marzo 2014

DEMOCRAZIA, PARTITI POLITICI, SOVRANITA’ POPOLARE

Il quadro ideologico e il panorama della situazione politica italiana non sono certo rassicuranti; lo scenario presentato dalle condizioni sociali ed economiche dei cittadini è davvero preoccupante. Le offerte formative e le pianificazioni operative della maggior parte degli attori politici appaiono piuttosto deboli e inadeguate, attente per lo più a questioni settoriali e di breve respiro, pur nella loro indiscutibile intrinseca importanza; anche la vita interna dei partiti politici non invia messaggi confortanti di responsabilità collettiva né fornisce esempi di atteggiamenti costruttivi; la libertà dei cittadini risulta sostanzialmente limitata, povera, talora perfino negata nella vita reale. Vacillano fondamenti importanti della vita privata e pubblica, anche se ben consolidati dalla tradizione. Il ritmo delle richieste di trasformazioni è divenuto così frenetico e caotico da impossessarsi dell’animo dei cittadini, i quali, di conseguenza, discutono acriticamente e frettolosamente tutto, senza prendersi il tempo giusto per riflettere, valutare e scegliere. In tale situazione caotica, perciò, mancano le condizioni necessarie per una chiara visione complessiva dei problemi, idonea a trovarne soluzioni assennate e utili. In simili momenti difficili vengono meno il controllo delle volontà (con cui solamente si preserva il senso della concretezza() e il dominio sugli istinti dell’egoismo e del rancore (con cui solamente si salvaguarda la lucidità della razionalità). In questi ultimi anni, invece, le menti dei cittadini sono offuscate e le loro coscienze sono smarrite, poiché assistono, al posto del dialogo civile e del confronto politico, a scontri passionali e a lotte funeste: come, la dissennata denigrazione delle autorità statuali, i furiosi tentativi di delegittimazione degli istituti governativi, l’assalto impulsivo al potere legislativo del Parlamento, denunciato di dilettantismo e da qualche parte minacciato apertamente di inevitabile estinzione per la presunta sua inconcludente inefficienza.

Per un futuro auspicabile per il nostro Paese s’impone la necessità d’una pausa di riflessione pacata e positiva, al fine di restaurare l’unità degli spiriti e ripristinare le difese naturali della rettitudine morale, della libertà sociale e dell’etica politica. Qualità, queste, garantite soltanto dalla libertà di pensiero e dall’autonomia di giudizio morale critico. Quando, infatti, lo spirito partitico arriva a prevalere su questi punti, emerge allora cupo e minaccioso il fanatismo dei singoli e dei gruppi, con tutte le sue nefaste conseguenze. La crescita della vita delle società e degli Stati è, ovviamente, il risultato anche del progresso sociale e dell’avanzamento culturale dei popoli, i quali non vanno guidati faziosamente e, peggio, violentemente fomentati, ma tempestivamente educati e saggiamente formati, affinchè diventino un insieme di cittadini operosi, corresponsabili e coerenti, cioè un ‘popolo’. Questo compito formativo è affidato a tutte le agenzie formative: dalla famiglia alla scuola, dall’associazionismo laico e religioso ai partiti politici, dagli Enti Locali a tutte le Autorità governative e statuali.

Nel perseguimento di quest’opera di formazione sociale e politica del popolo è sempre sottesa una concezione generale di uomo, di società e di stato. Ora, da tempo ormai non si possono più invocare strutture sociali e ordinamenti statuali ispirati esclusivamente alle dottrine d’un collettivismo acritico, astratto e per certi aspetti irrealizzabile: ne deriverebbero inevitabilmente l’assolutizzazione della società e dello Stato, l’immolazione della concretezza delle individualità singole e degli organismi sociali intermedi, premessa rischiosa di svolgimenti pubblici ambigui e d’imprevedibili esiti totalitari. Ma non sono ugualmente i tempi delle altrettanto teoriche rivendicazioni delle dottrine liberali e dell’ottimistico dominio dell’economia liberista: l’entusiastica idolatria del mito del libero mercato, profeta invocato di benessere individuale e collettivo, ha già generato gravi situazioni d’ingiustizia sociale disumana e d’intollerante assoggettamento culturale.

Il cittadino delle democrazie contemporanee, di fatto, non è né il ‘socialista’ devotamente sottomesso, né il ‘liberale’ osservante senza riserve, e nemmeno il testimone d’una presunta ‘democrazia popolare’. L’odierno cittadino democratico, in realtà, è un individuo indifferente al valore delle virtù umane, sordo al richiamo degli ideali etici, insensibile alle istanze dei doveri sociali e politici. L’uomo democratico, con cui bisogna fare i conti oggi, in concreto, è sorretto e motivato unicamente dalla categoria del tornaconto privato, da raggiungere esclusivamente mediante l’astuto calcolo dell’interesse personale, prevedibile con certezza nello scambio da proporre o da valutare o da accettare. Del resto, già Alexis de Tocqueville aveva tratteggiato i connotati di questo moderno cittadino: insofferente d’ogni regola e disciplina; convinto sostenitore della spontaneità della natura e soprattutto dell’umanità; ottimistico profeta dell’autosoluzione d’ogni congiuntura; paladino eroico della singolarità d’ogni uomo, ritenuta unica titolare d’ogni diritto senza alcun corrispettivo dovere. E’ necessario, pertanto, indagare la possibilità d’una concezione, che conduca a una democrazia autentica e umana, che superi, cioè, da una parte l’idolatria dello stato e, dall’altra parte, il calcolo combinato di interessi privatistici. Si tratta di ricercare una cultura, che concili in armonia le diversità, evitando le opposte pericolose soluzioni dell’omologazione e dell’esclusione, in un contesto di condivisa solidarietà.

Il ‘popolo’ italiano, tutto considerato, potrebbe essere già ben incamminato per questa strada, grazie alla visione dell’uomo, su cui è fondata la Costituzione Repubblicana, nella quale il cittadino è valutato come persona integrale in sé e solidale con gli altri. Siccome in questi ultimi decenni essa è stata dimenticata, talora anche svilita, spesso chiamata in causa solo reclamarne la revisione e addirittura la riscrittura, forse sarebbe utile approfondirne almeno alcuni valori e principi sottesi, tenendo nella giusta considerazione che essi sono il risultato della collaborazione delle tre grandi anime culturali, che hanno contribuito alla ricostruzione fisica e morale dell’Italia dopo la guerra: l’anima socialista, quella liberale e quella cattolica. Si tratta di alcuni articoli, in cui si statuiscono in primo luogo la centralità della persona umana nell’organizzazione dello Stato in tutte le sue attività e, in secondo luogo, un sistema di partecipazione sociale ed economica ispirato a solidarietà nazionale e internazionale.

Per quest’ultimo aspetto, basta rileggere e ripensare i vari ambiti, in cui sono chiamati i cittadini a operare come singoli e come popolo. In primo luogo, il lavoro, fondamento della Repubblica Democratica Italiana, considerato sì come rapporto economico, ma rivendicato anche e soprattutto come valore umano e sociale; quindi, non come criterio di appartenenza a una delle classi sociali, ma come diritto di realizzare la propria vita personale (artt. 1 e 4) e di ottemperare, come cittadini, ai “doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale” nell’ambito della nazione (art. 2) e nel contesto internazionale (art. 10). La solidarietà viene estesa, poi, a orizzonti sempre più vasti, fino a farli coincidere con i confini del mondo: l’Italia, “in condizioni di parità con gli altri Stati, consente alle limitazioni di sovranità necessarie” per realizzare “la pace e la giustizia fra le Nazioni” (art. 11). D’importanza non meno rilevante è, ancora, il riferimento al principio di solidarietà, richiesto proprio dalla dignità dell’uomo, a proposito della tutela della salute, dichiarata “diritto fondamentale dell’individuo e interesse della collettività” (art. 32) e, infine, nella dichiarazione del diritto di una “scuola aperta a tutti” (art. 34).

Il rispetto della persona umana, a sua volta, dev’essere esteso a tutti i cittadini, in quanto “hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali” (art. 3). Essi, inoltre, come unitario popolo italiano, sono gli unici titolari della sovranità nazionale. E’ importante, allora, ripensare – specialmente in questi ultimi tempi - le motivazioni e le finalità inerenti agli articoli 49 e 67, in cui è sancita con chiarezza la forma di democrazia, che i Padri Costituenti hanno progettato: in Italia la democrazia non poteva essere né doveva divenire oligarchia, ma rimanere sempre e comunque “governo del popolo”, che andava posto nelle condizioni concrete di esercitare la propria sovranità in modo continuativo e in ogni occasione, e non soltanto il giorno del voto; si stabilì, allora, la norma del voto libero, uguale, personale e segreto, grazie al quale ogni cittadino, in possesso dei diritti richiesti, in condizione di libertà e di uguaglianza, può (e deve) eleggere il suo rappresentante, che legifererà per delega in ogni situazione particolare, ma sempre nella prospettiva dell’interesse dell’intera Nazione. In concreto i Costituenti immaginarono e stabilirono la libera formazione e la responsabile operosità dei partiti politici. Il combinato disposto degli articoli 49 e 67, pertanto, potrebbe costituire la chiave di lettura di tutto il tessuto strutturale della democrazia italiana: “Tutti i cittadini – è scritto nell’articolo 49 - hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale”; ovviamente mediante il proprio eletto, il quale, sancisce l’articolo 67, “rappresenta la Nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato”, essendo il suo mandato di natura esclusivamente politica.

Il partito politico, quindi, nelle intenzioni dei Costituenti, è la struttura politica realizzabile in ogni luogo dell’intero territorio nazionale, in cui i cittadini partecipano e discutono idee, proposte, iniziative, per formulare progetti di scelte politiche. Da ciò scaturiscono gli elementi costitutivi del partito politico, cioè: libertà di associazione, pluralità di associazione, adozione del metodo democratico nella vita organizzativa interna d’ogni partito e nei rapporti tra di loro e nei confronti con tutti i cittadini, libero contributo di ciascun partito per determinare la politica nazionale. La ragion d’essere dei partiti è la formazione della coscienza politica dei cittadini, che dovranno scegliere tra i più meritevoli i propri “rappresentanti”. In concreto tutto ciò è affidato alle disposizioni delle leggi ordinarie e particolarmente a quelle che disciplinano le competizioni elettorali. Se questo modello costituzionale fosse attuato, si creerebbero situazioni, in cui i dibattiti di idee e le proposte d’iniziative operative fra tutti i cittadini porterebbero sicuramente al “libero concorso” di tutti nella formazione delle scelte politiche nelle diverse istituzioni della Repubblica nell’ossequio dei tre poteri “sovrani”: legislativo, esecutivo, giudiziario. Nella realtà odierna ciò non succede. Ed è facile comprendere che, se i partiti non vivono nell’alveo delle regole democratiche, ma si trasformano in comitati d’interessi particolari, se non addirittura personali, allora, tradendo la Carta Costituzionale, diventano organizzazioni oligarchiche, guidate (e talora dominate) da gruppi dirigenti preoccupati di conservare la propria posizione egemonica. Sarà inevitabile, allora, che siano i dirigenti di partito a controllare l’accesso di nuovi ‘tesserati’, ovviamente non sempre veramente degni e capaci Ma questo è la negazione della democrazia popolare, perché si spezza l’anello che lega la sovranità popolare alla democrazia dei partiti e questa alla democrazia delle istituzioni pubbliche. E’ il trionfo della partitocrazia, corruzione pessima della democrazia. La situazione della democrazia italiana oggi è sotto gli occhi di tutti. Aldo Moro nel 69, nel pieno di un grave sconvolgimento del sistema politico, avvertiva: “Questa crisi va fronteggiata, rendendo acuta la sensibilità dei partiti, aperta la loro azione, ricco di riflessione e di adesione il loro modo di essere nella realtà sociale. Non si tratta, dunque, di annullare i partiti, ma di renderli consapevoli del limite che scaturisce da una più grande ricchezza e vivezza della vita sociale. Riconosciuto, però, il limite, nel quale del resto è implicita una straordinaria occasione di arricchimento e di umanizzazione, dev'essere fermamente riconfermata la ragion d'essere dei partiti, il loro naturale pluralismo, la dialettica democratica della quale essi sono parte, la loro distinzione, la loro polemica, il loro convergere come il loro contrastare".

Non è compito della filosofia prevedere se e quando si possano superare e vincere errori e distorsioni. La filosofia può solo additarli e indicare la via meno incerta della verità politica. Ma tutto presuppone una trasformazione culturale radicale e un audace ritorno alle fonti vere dello spirito anche della Carta Costituzionale. Il compito tocca tutti indistintamente, come uomini e come cittadini: nessuno può sottrarsi alle proprie responsabilità, che richiedono coraggio, azione e lotta, ripudio d’ogni forma di neutralità e accettazione di una parte da sostenere.

venerdì 21 febbraio 2014

FARE ASSOCIAZIONE PER SERVIRE GLI ALTRI

In ogni comunità nascono e operano associazioni di varia natura: sportive, ricreative, assistenziali, culturali, religiose, politiche. Il far parte d’una associazione è determinato, pertanto, da motivi personali, rispondenti a interessi individuali indubbiamente apprezzabili: come, trascorrere del tempo in buona compagnia, ritrovarsi per lo scambio di esperienze, confidarsi impressioni, comunicarsi preoccupazioni.

Di natura particolare sono le associazioni a carattere umanitario, tanto sociale che religioso, nelle quali gli aderenti mettono il proprio tempo e le proprie competenze al servizio degli altri in modo disinteressato, volontario, e sempre con discrezione e riservatezza: il centro dell'attenzione, cioè, è l'altro, con le sue necessità, le sue difficoltà, i suoi problemi. Ovviamente, non tutte le associazioni fanno volontariato, così come non tutto il volontariato è affidato alle associazioni. Le cose stanno così, però, in astratto. Osservando la realtà, invece, queste associazioni qualche volta sono percepite diversamente dalla comunità: si sente affermare, infatti, che si tratta di associazioni, alle quali prende parte chi non ha voglia di lavorare, chi non sa come riempire la giornata, chi vuole mettersi in mostra e chi si dedica a opere caritative e assistenziali, perché ha bisogno di lavarsi la coscienza. Si è convinti che si tratta di perdite di tempo, che viene sottratto al lavoro e al dovere; e, comunque, è meglio starsene a casa propria e non impicciarsi di cose altrui.

Giudizi ingenerosi, superficiali e senza fondamento. Tuttavia, non si può negare che, in qualche caso, siano provocati dal comportamento di qualcuno, che, pur impegnandosi lodevolmente all’interno di un gruppo, rimane talora chiuso in se stesso, non partecipando agli altri il proprio lavoro, condannato, perciò, a rimanere sterile e improduttivo. In questo modo si priva tutta la comunità di importanti benefici morali e sociali. D’altra parte, però, anche alcuni cittadini stanno a guardare cosa facciano gli altri, e non sempre con buone intenzioni, anzi pronti a puntare il dito e a commentare con saccenteria ogni attività. Nei due casi prevale la mania di protagonismo sia dei singoli sia dei gruppi, oggi purtroppo tanto diffusa; essere al centro dell'attenzione sembra essere persino un bisogno, forse perché la nostra società ama premiare chi si mette in mostra, senza considerare valore e meriti reali. Per questo l’espressione “bene comune” spesso è usata senza la più pallida idea di che cosa significhi. L’individualismo ha eroso in maniera consistente quello stato d’animo di appartenenza sociale, costituito da un insieme di valori, per il quale si può e si deve prendere parte a una realtà sociale e comunitaria.

E’ necessario riflettere e cambiare. E alla base del cambiamento c’è l’assunzione di responsabilità, che obbliga a rimboccarsi le maniche. Il primo passo per cambiare concretamente, quindi, è mettersi in mezzo agli altri e in sintonia con gli altri, evitando la prima causa dei conflitti: l’eccesso d’egoismo e la sfiducia negli altri. Ecco, allora, l’auspicio che dev’essere formulato: che ogni associazione sia un luogo, in cui si promuova concretamente vero spirito d’altruismo, in cui si realizzi la formazione di cittadini sensibili ai problemi della comunità e dedicati al bene comune, rendendosi disponibili a uscire dal proprio privato e a impegnarsi nel servizio degli altri, pronti ad affrontarne le difficoltà e a superarne eventuali ostacoli, mantenendosi fedeli ai principi della morale e dell’etica, noncuranti degli umori dei disimpegnati, indifferenti davanti ai giudizi dei faziosi, perseveranti nonostante il sarcasmo di chi, affossato nell’insignificanza e nell’inerzia, sa solo osservare e commentare, per disapprovare.