FEDELTA’
POLITICA E COERENZA MORALE
Il
Governo che impone al Parlamento il voto palese, motivandolo come atto richiesto
dall’importanza e dall’urgenza del provvedimento presentato. Il Parlamento che ne
contesta le circostanze, esigendo la regolarità e rivendicando la legittimità
del voto segreto a tutela della propria autonomia legislativa. Da una parte il
voto palese rappresentato (o comunque fatto percepire) come costrizione
ricattatoria; dall’altra parte il voto segreto temuto (o minacciato) come opportunità
di ritorsioni e occasione di resa dei conti. Da una parte i partiti, che invocano e pretendono la fedeltà politica dei
parlamentari da loro fatti eleggere; dall’altra parte i parlamentari che
rivendicano il rispetto del loro mandato popolare e della propria coscienza. La
questione potrebbe ridursi a un’interessante dissertazione astratta sul
rapporto politica-morale, se non coinvolgesse il destino della democrazia
repubblicana italiana, la ragion d’essere dei partiti politici, la sorte dell’equità
civile, la difesa della giustizia sociale, la tutela del vivere quotidiano dei
cittadini. Le Istituzioni, pertanto, garanti massime della democrazia italiana,
rischiano di diventare affossatori di democrazia e usurpatori di sovranità
popolare; e questo proprio mentre s’adoperano per attuare fondamentali riforme
istituzionali (senato, regioni, provincie, legge elettorale, riforma dl sistema
giudiziario, assetti ecomico-finanziari),
I
cittadini italiani, in verità, assistono per lo più disincantati e scettici alle
vicende della politica italiana interna ed
estera. Essi, infatti, sanno correttamente che l’idea e l’attuazione delle democrazie
col tempo si sono evolute e continuano a evolversi, lasciando giustamente la
sfera dell’astrattezza, per immergersi nella concretezza del governo dei popoli.
Sono anche convinti, però, che da quest’evoluzione non scaturisce (e non
dovrebbe mai scaturire), quale conseguenza inevitabile, un decadimento dell’idea
e dell’etica, che sostanziano ogni democrazia autentica: questa, infatti, prima
d’essere una tra le possibili forme di governo, è in primo luogo una visione
generale della vita e uno stile di condotta privata e pubblica. Da qui il loro convincimento
che anche l’attuale “democrazia del numero” è uno svolgimento positivo e costruttivo delle democrazie, a
patto, però, ne restino salvaguardati i valori etici e gli obiettivi politici
caratterizzanti. Ciò che oggi preoccupa i cittadini elettori (votanti e
non-votanti) è il dover assistere al deterioramento della morale individuale e il
decadimento dell’etica pubblica, come indicano alcuni segnali pericolosi. Si
pensi, per esempio, alla trasformazione del ruolo degli eletti che ha alterato
sostanzialmente anche il dettato costituzionale. Ovviamente anche la
Costituzione non è testo sacro ispirato dall’alto; può, quindi, anzi deve essere
aggiornata, adeguata, emendata. E’ necessario, però, che ciò sia fatto da chi ne
abbia avuto mandato specifico e, soprattutto, con indiscutibile lealtà d’intenti
ed evidente trasparenza di procedimenti.
Ed
è proprio questo che genera perplessità negli italiani. Assistono, infatti, all’affannosa
corsa a “far passare” provvedimenti proposti come strumenti d’una maggiore efficienza
gestionale; in realtà, però, benché propugnati come mezzi di “stabilità e
crescita”, di fatto implicano modiche sostanziali di princìpi essenziali, peraltro
sanciti come fondamentali dalla Costituzione. Senza nascondersi che è molto
incerto che tutto ciò arrechi qualche utilità alla vita del cittadino. A confermare
la diffidenza dell’italiano politicamente “laico” (quindi, osservatore disinteressato,
imparziale e sereno) non è solo ciò su cui si legifera, ma anche il modo con
cui in questi ultimi tempi si opera in politica, sia nei palazzi e sia nelle piazze.
Infastidiscono e suscitano sospetto l’arroganza dei partiti che il numero dei
votanti di turno designa “maggioritari” e la baldanza di dirigenti, che rivendicano
per sé il compito di decidere contenuti, tempi e modi della vita pubblica, sempre
vigili a salvaguardarla dagl’intralci provenienti sia dai partiti indicati “minoritari”
dal numero dei votanti sia da chi all’interno della cosiddetta “coalizione di maggioranza”
tenti di discostarsi dalla linea dettata dai propri dirigenti. Ovviamente s’invoca
sempre la necessità del dialogo aperto e disponibile a ogni contributo, salvo
poi a non rintracciarne mai alcuno valido e appropriato. Inoltre, non si perde
occasione per sottolineare e recriminare l’importante numero degli elettori non
votanti; addirittura nei loro confronti s’è coniato il termine “astensionisti”,
come se il non recarsi alle urne sia sempre e comunque una scelta
d’irresponsabile disinteresse e non (anche e soprattutto) una decisione
meditata, sofferta e perfino obbligata dai fatti, secondo l’insegnamento anche di
Platone.
Si
conosce da tutti la necessità della tempestività risoluta necessaria ai governanti.
Ma già cinque secoli fa il Machiavelli, commentando e suggerendo l’antico pensiero
di Tito Livio, metteva in risalto il valore della “imitazione” del passato e
insegnava, anche a tal fine, in cosa doveva consistere la “virtù” del governante
efficiente: saggio equilibrio di perspicacia dell’intelligenza. per comprendere
ogni situazione, e di forza volitiva sicura, ma sempre suggerita e valutata dalla
complessità dei problemi. Ma questo richiede il contributo di tutti. Da tutti,
quindi, si richiede un momento di autocritica. Di primaria importanza, per
esempio, è il ponderare le conseguenze possibili dell’uso attuale del voto
segreto e del voto palese, in quanto i rischi cui si può incorrere non sembrano
né pochi, né astratti, né lontani. Da una parte, infatti il voto segreto da espressione
di responsabilità politica e da salvaguardia di libertà di coscienza e divenuto
circostanza per l’esplosione d’inespressi risentimenti e occasione per la resa
dei conti; il voto palese, dall’altra parte, da strumento legislativo condiviso,
spedito e limpido è divenuto strumento di ricatto e di coercizione.
Tralasciando
considerazioni d’altra natura, è innegabile che in questo modo risultano
confusi i confini e stravolti i ruoli tra fedeltà politica e coscienza morale e
si generano pericolosi equivoci avallati spesso da colpevoli silenzi. Non si
tratta di sconfessare e capovolgere la secolare conquista di Machiavelli, rivendicando
oggi l’autonomia della morale dall’egemonia della politica; si tratta di rinverdire
con nuova linfa vitale la deontologia politica, cioè riscoprire le ragioni
etiche, che danno senso all’azione politica, da parte di tutti i cittadini,
ognuno nel ruolo che ha scelto o che gli è stato affidato. Sopravvalutare le
ragioni della politica significherebbe valicare i confini dello stato etico:
sarebbe utile, allora, meditare sulle circostanze e sui contenuti del
“Manifesto degli intellettuali antifascisti”, scritto nel 1925 da Benedetto
Croce. Sopravvalutare il ruolo delle esigenze del privato significherebbe assolutizzare
gli egoismi, avversari d’ogni possibile azione veramente politica. Alcide De
Gasperi – che seppe perché, quando e come dedicarsi alla politica e intuì quando
e come uscirne - insegna che il politico è democratico quando possiede e
pratica il “metodo democratico”, cioè quando cerca il dialogo e rispetta la
deontologia propria della politica: un governante ottimo – ammonisce – rispetta
i valori con fedeltà costante e grande coerenza. Queste, però, non un valore in sè e per sè, ma sempre
agganciate a una scelta, che abbia valore in sé e che ne fondi la validità.
A
battere un terreno più concreto ci indirizza Enrico Berlinguer, audace
innovatore politico: “I partiti – dichiara già nel 1981 a Eugenio Scalfari -
non fanno più politica, e questa è l’origine dei malanni d’Italia”. E Aldo Moro,
martire per la coerenza, avverte: “Per fare le cose, occorre tutto il tempo che
occorre” e raccomanda il rispetto del ruolo degli organi intermedi: “Il
decentramento nella gestione degli interessi comuni – ammonisce - è uno
strumento dell’avvicinamento del potere agli amministrati e dell’umanizzazione
di esso come garanzia del suo retto fine”. Insegnamenti necessari anche nei
nostri tempi. In momenti di particolare smarrimento ci soccorre comunque l’esperienza
di Mahatma Gandhi: “Meglio un milione di volte sembrare infedeli agli occhi del
mondo che esserlo verso noi stessi”.