Un antichissimo
adagio recita: la storia è maestra di vita. Qualcuno, per esperienza o per burla,
lo traduce: la storia ha insegnato e
insegna che gli uomini da essa non hanno imparato e non vogliono imparare mai nulla.
Considerando, infatti, come viene considerato, giudicato e rispettato il
passato, sia nei suoi aspetti negativi che nei suoi apporti positivi, non si
può negare che la storia, da scrigno prezioso di saggezza e di esperienza, è trattata
spesso come vecchio ripostiglio ingombro di oggetti inutili e spesso di
ostacolo. Si valutano, pertanto, e si esaltano progetti futuribili belli e
accattivanti, ma che sembrano spesso sradicati dalla realtà concreta, più volatili
delle radici aeree. Progetti, tuttavia, che, se validamente sostenuti da responsabile disponibilità a fruire - come si
sostiene nell’articolo allegato - di “ competenze
che ci sono e attingendo al capitale inestimabile dell’esperienza in casa e
fuori”, sarebbero veramente conquiste di valori umani e di traguardi di
sviluppo sociale.
Nel “Domenicale” de Il
Sole24Ore di qualche settimana fa è
apparso uno scambio di corrispondenza tra Adolfo Battaglia e Roberto Napoletano
dal titolo “La lezione italiana di un riformismo non ideologico”. I toni eloquentemente pacati, i contenuti
esposti con sintesi magistrale, il suggerimento a riflettere e a nutrire una
qualche pur timida speranza, fanno dello scritto qualcosa che merita d’essere
letto,. E soprattutto d’accettarne la “lezione”
Lettera di Adolfo
Battaglia
Caro Direttore,
la sua nota sul senso e l’importanza dello schema Vanoni pubblicata nello scorso Domenicale ha il raro merito di puntualizzare la trama politico-culturale che la nostra storiografia normalmente trascura e che è invece uno dei pochi pilastri solidi su cui si è retto lo Stato repubblicano per alcuni decenni. Nella concretezza del riformismo italiano stanno certamente uomini e forze dalle posizioni per tanti altri versi differenti. E accanto a De Gasperi, Einaudi, Vanoni, Saraceno, Ugo La Malfa, Ciampi vengono anche i Menichella, i Siglienti, i Cosciani, i De Gennaro, i Visentini, i Giordani; e perfino, in tempi differenti e per obiettivi differenziati, Fanfani e Moro, che realizzeranno in verità i due soli governi realmente riformatori avutisi in cinquant’anni (in ambedue, vedi caso, aveva un peso La Malfa).
la sua nota sul senso e l’importanza dello schema Vanoni pubblicata nello scorso Domenicale ha il raro merito di puntualizzare la trama politico-culturale che la nostra storiografia normalmente trascura e che è invece uno dei pochi pilastri solidi su cui si è retto lo Stato repubblicano per alcuni decenni. Nella concretezza del riformismo italiano stanno certamente uomini e forze dalle posizioni per tanti altri versi differenti. E accanto a De Gasperi, Einaudi, Vanoni, Saraceno, Ugo La Malfa, Ciampi vengono anche i Menichella, i Siglienti, i Cosciani, i De Gennaro, i Visentini, i Giordani; e perfino, in tempi differenti e per obiettivi differenziati, Fanfani e Moro, che realizzeranno in verità i due soli governi realmente riformatori avutisi in cinquant’anni (in ambedue, vedi caso, aveva un peso La Malfa).
Quella linea richiama senza dubbio
alla dirigenza dell’IRI e della Banca d’Italia negli anni ’30-60; ma anche al
grande turmoil keynesiano, generatore delle esperienze riformatrici
americane e nord-europea. In Italia, occorrerebbe ripensare a Beneduce, al
Nitti di inizio secolo, alla comprensione della struttura economico sociale
moderna che fu nel ’24-26 dell’ultimo Amendola, fino al “Socialismo liberale”
di Rosselli. La storiografia ha difficoltà a compiere un salto che implica la
visione di una linea del riformismo italiano a prescindere da posizioni e da
ideologie dei partiti. È un fatto invece che quella linea esiste ed è esistita
nella concretezza delle opere di governo, come il portato di un sentimento
democratico, e di una cultura economica largamente comune, aldilà di ogni
teoria generale. Ed è sull’aggiornamento e sulla innovazione di quella trama
riformatrice che le presidenze di Carlo Ciampi e di Giorgio Napolitano sono
riuscite a salvare il Paese. Pensa che sarebbe male se oggi l’opera di governo
si ispirasse di più a una tradizione così ricca?
Adolfo Battaglia
Risposta di Roberto
Napoletano
Adolfo Battaglia rivela i segni della
sua storia politica repubblicana, dimentica qualcuno tra gli uomini del fare
del miracolo economico italiano, penso a Gabriele Pescatore, e loda a ragione
come riformatori i governi Fanfani e Moro di “impronta lamalfiana”, ben
distanziati tra di loro, ma dimentica ciò che di buono è venuto ancora un bel
po’ dopo: la stagione della politica dei redditi dell’esecutivo Ciampi e il
primo governo Prodi che vinse la battaglia dell’euro, entrambi vanno di diritto
considerati dentro quell’alveo di riformismo non ideologico che ha dimostrato
di saper coniugare visione politica e buona amministrazione, di fare le cose,
custodendo negli anni i cromosomi delle persone perbene e lo spirito forte
della Nota aggiuntiva di Ugo La Malfa.
Soprattutto Battaglia ha ragione da
vendere quando chiede al governo Renzi, che dimostra coraggio politico e
capacità di azione ma eccede a volte in semplicismi e sicurezze di risultato,
di attingere al capitale di valori della tradizione di governo più bella e
ricca del Paese. Negli anni della ricostruzione e del miracolo economico
italiano intelligenza tecnica, riformismo cattolico e cultura laica si seppero
intrecciare positivamente e riuscirono a trasformare un Paese agricolo di
secondo livello prima in un’economia industrializzata poi in una potenza
economica mondiale. I De Gasperi, i Fanfani nell’età dell’oro italiana non
rinunciarono mai al capitale della esperienza e della competenza, vollero
intorno a sé uomini del fare del calibro di un Menichella, che come governatore
della Banca d’Italia fece vincere alla lira l’oscar mondiale delle monete, e di
un Pescatore, chiamato alla guida della prima Cassa del Mezzogiorno organizzata
come un’agenzia americana di sviluppo, che tennero sempre fuori la politica
dalle scelte di gestione, unirono le due Italie con gli acquedotti, le dighe e
le strade, riuscirono a portare in casa i primi soldi esteri fino ad arrivare a
raddoppiare il prestito Marshall. Per capire di che pasta erano questi uomini è
sufficiente ricordare che quando andarono in America a raccogliere risorse per
l’Italia, impresa che riuscì alla grande, si imposero di consumare un solo
pranzo frugale al giorno perché nessuno potesse nemmeno pensare che erano
andati a fare baldoria con i dollari che avrebbero dovuto raccogliere per
contribuire a ridare una casa e un lavoro agli italiani.
Che cosa dire, poi, dei discorsi
parlamentari di Ugo La Malfa quando metteva in guardia dai rischi di un eccesso
di regionalismo che avrebbe moltiplicato i capi di gabinetto, i direttori di
divisione e di sezione, avrebbe elevato al cubo le clientele e smarrito, di
fatto, la capacità realizzativa, cioè, la qualità di fare le cose giuste con la
velocità giusta? Quella storia di malaffare, profeticamente paventata dal
“realismo visionario” di La Malfa, si verificò puntualmente, determinò quasi
sempre la paralisi e si intrecciò, spesso, rovinosamente con un capitalismo
lazzaronesco-feudale e una politica corrotta. Le macerie di questa storia di
immobilismo e di clientele sono arrivate fino ai nostri giorni: a decidere di
fare un tentativo serio di rimuoverle, per la prima volta, è stato proprio il
governo Renzi riformando il Titolo V con il suo carico di distorsioni e di
corruzione. Ancora una volta la scelta compiuta è quella giusta, e ne va reso merito, ma perché si traduca poi in atti concludenti ci vogliono ancora un paio di passaggi e proprio lo spirito e l’orgoglio di quegli uomini che hanno scritto la trama politico-culturale del miracolo economico italiano, la stessa fame di fare e cambiare le cose e la stessa, identica, voglia di affrontare e risolvere i problemi senza un approccio ideologico, puntando a unire non a dividere, seguendo le competenze che ci sono e attingendo al capitale inestimabile dell’esperienza in casa e fuori.