Il Tempo, in sé fluire di momenti transeunti che vanno accolti, si apre a un "oltre" custode Eterno di valori trascendenti che vanno abitati. Vicende e realtà tendono alla suprema fusione nell'infinita Totalità, anima di ogni Speranza.
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sabato 17 maggio 2008

UN EREMITA GIA' "POSTMODERNO"

IL SENSO DI UNA RICORRENZA:
IL 40° ANNIVERSARIO DELLA MORTE DEL SERVO DI DIO
DON QUINTINO SICURO da MELISSANO (Lecce)

Quest’anno ricorre il 40° anniversario della morte del Servo di Dio don Quintino Sicuro. Mio concittadino illustre ed esemplare, don Quintino Sicuro è un prezioso patrimonio di cultura popolare e di spiritualità religiosa, che va ripensato e imitato sempre, ma soprattutto nei tempi attuali, in cui sembra che gli uomini abbiano smarrito molti punti validi di riferimento e s’affidino, perciò, a ideali falsi, anche se lusinghieri e allettanti.
Don Quintino Sicuro si presenta come l’uomo totale che, con lucida persuasione e convinta adesione, scopre in sé stesso i sensi veri dell’essere umano, valuta con serietà il contesto sociale in cui la storia l’ha fatto nascere e vivere e, di conseguenza, imprime alla sua vita quelle svolte che, a suo modo di sentire, uniche gli facevano realizzare una vita piena e degna dei suoi intimi convincimenti.
Gli uomini del nostro tempo – come quelli del secolo scorso in cui don Quintino è vissuto – sembrano stordirsi tra i rumori degli affari e del potere, dissiparsi nell’inseguire ricchezze e onori, distruggersi nel rincorrere il tempo che scorre vorticosamente, trascinandosi ogni valore di dignità umana vera.
Don Quintino Sicuro, che viveva con impegno nella realtà della Melissano d’allora, siccome non lo soddisfaceva interiormente, decise di cambiare nel tentativo di trovare modi di vita più appaganti, finchè giunse alla svolta radicale: si separò dal mondo e si rifugiò nel silenzio della solitudine, in cui, andando al di là della realtà mondana, trovò la verità. Scelse, quindi, di rimanere e operare nel mondo, ma di non essere più del mondo. Comprese che tutte le mostruosità dell’umanità si racchiudono nella smania che l’uomo ha di diventare il centro e il termine della propria esistenza. Egli volle diventare eremita, cioè uno che vive in solitudine ma tra la gente: in questo modo ricorda agli uomini che essi valgono non per quello che fanno, ma per quello che sono. E faceva tutto ciò con grande spirito di servizio. La sua solitudine, quindi, serviva a scoprire e vedere la verità, per poi avvicinarsi agli altri e comunicarla loro. Aveva capito che la più grave povertà di oggi è la mancanza di pace, la paura della sofferenza, della morte; aveva compreso che il vero deserto sta nella vita caotica delle città piccole e grandi, per cui era necessario creare oasi di pace e di riconciliazione. E realizzò tutto ciò in atteggiamento costante improntato alla gioia, alla libertà, alla pace e all’armonia tra di loro degli uomini e delle cose.
La sua esperienza eremitica dice anche oggi che c’è bisogno di momenti di solitudine, per saper leggere nell’animo nostro, per divenire capaci di non condividere sempre e comunque i modi di pensare e di agire dei più e della moda del momento.


martedì 15 gennaio 2008


Herbert Marcuse in Eros e Civiltà, nella Prefazione politica 1966, scriveva:

Eros e Civiltà: con questo titolo intendevo esprimere un’idea ottimistica, eufemistica, anzi concreta, la convinzione che i risultati raggiunti dalle società avanzate potessero consentire all’uomo di capovolgere il senso di marcia dell’evoluzione storica, di spezzare il nesso fatale tra produttività e distruzione, libertà e repressione – potessero, in altre parole, mettere l’uomo in condizione di apprendere la gaia scienza (gaya ciencia), l’arte cioè di utilizzare la ricchezza sociale per modellare il mondo dell’uomo secondo i suoi istinti di vita, attraverso una lotta concertata contro gli agenti di morte. Questa visione ottimistica si basava sull’ipotesi che non predominassero più i motivi che in passato hanno reso accettabile il dominio dell’uomo sull’uomo, che la penuria e la necessità del lavoro come fatica venissero ormai mantenuti in essere “artificialmente”, allo scopo di preservare il sistema di dominio. Allora avevo trascurato o minimizzato il fatto che questi motivi ormai in via di estinzione sono stati notevolmente rinforzati (se non sostituiti) da forma ancora più efficaci di controllo sociale. Proprio le forze che hanno messo la società in condizione di risolvere la lotta per l’esistenza sono servite a reprimere negli individui il bisogno di liberarsi. Laddove l’alto livello di vita non basta a riconciliare le genti con la propria vita e con i propri governanti, la ‘manipolazione sociale’ delle anime e la scienza delle relazioni umane forniscono la necessaria catarsi della libido. Nella società opulenta, le autorità non hanno quasi più bisogno di giustificare il dominio che esercitano. Esse provvedono al continuo flusso dei beni; esse provvedono a che siano soddisfatte la carica sessuale e l’aggressività dei loro soggetti; come l’inconscio, il cui potere di distruzione esse personificano con tanto successo, esse rappresentano insieme e il bene e il male, sicchè il principio di contraddizione non trova alcun posto nella sua logica”
(Prefazione politica a Eros e civiltà, pubblicata per la prima volta su “Nuovo Impegno”, anno II, n. 8, Pisa, maggio-luglio 1967, traduzione di Domenico Settembrini (noi citiamo dalla edizione Einaudi del 1964, pp. 33-24).

Il Marcuse prevedeva, o comunque si augurava, ottimisticamente (ma forse ingenuamente) che strutture sociale, istituzioni politiche e organizzazioni governative - che il mondo “civile” si andava costruendo sulle basi di concezioni liberistiche, animate, quindi, dall’unico “parametro valoriale” dell’economia di mercato – contenevano in sé qualche potenzialità di accrescimento di civiltà e d’ incremento di valori umani. Quasi si potesse sperare che condizioni economicamente più ricche si traducessero in situazioni umane più degne e a più reale dimensione dei fondamentali diritti personali.

Noi dubitiamo che si potesse nutrire ancora una simile speranza anche come possibilità eventuale. Soprattutto dopo quello che Jacques Maritain aveva scritto già nel 1936 e che confermerà proprio nel 1966, quando il Marcuse dettava le idee riportate sopra.

Il filosofo francese, infatti, nell’Umanesimo integrale (1936), dopo l’acuta analisi del mondo contemporaneo e nella prefigurazione di un futuro possibile per la futura umanità (condotte ovviamente dal suo punto di vista di “credente” e di neotomista, ma non per questo meno indicative), scriveva:

“C’è un ‘uomo vecchio’ da distruggere. E quale è quest’uomo? E’ l’uomo ‘piccolo borghese’, l’uomo del liberalismo borghese (…). Come, dal nostro punto di vista, potremo caratterizzarlo? (…). Tutta una metafisica idealistica e nominalistica è al fondo del suo comportamento. Di qui, il mondo da lui creato, il primato del segno: dell’opinione nella vita politica, del denaro nella vita economica. Quest’uomo borghese ha negato tutto il male e l’irrazionale in lui, in modo da poter gioire della testimonianza della propria coscienza, da essere contento di sé, giusto per se stesso. Egli prende dimora, così, nell’illusione e nell’inganno d’una falsa coscienza di sé nominalistica. Fa, d’altra parte, grande uso di moralismo e di spiritualismo, è animato da una devozione, spesso sincera e ardente, verso verità e virtù d’ordine naturale, ma le vuota del loro contenuto prezioso e le rende in qualche modo mitiche (…).

Quest’uomo borghese, che dispiace alla coscienza cristiana quanto alla coscienza comunista, il comunismo vuol mutarlo meccanicamente e dal di fuori, con mezzi tecnici e sociali (…). E per ciò aggredisce non solo quest’uomo borghese, ma l’Uomo nella sua stessa natura e nella sua dignità essenziale (…). Checché ne sia delle correzioni arrecate alla teoria per necessità di vita, la teoria conduce a fare dell’uomo una semplice energia della vita comune, perché, per la filosofia marxista, ogni valore trascendente, qualunque esso sia, è legato allo sfruttamento dell’uomo da parte dell’uomo."

(Umanesimo integrale, trad. it., Borla, Milano 1973, pp. 118-125).

Nel 1966, il medesimo Jacques Maritain, scrivendo Il contadino della Garonna, premetteva alcune pagine, nelle quali esponeva i motivi essenziali che invitavano – a suo modo di vedere – ad esultare grazie alle immense concrete conquiste che la Chiesa Cattolica e l’Umanità intera aveva realizzato grazie alla celebrazione delk Concilio Ecumenico Vaticano II. Tra l’altro scriveva:

“Si esulta al pensiero che è stata proclamata la libertà religiosa. Ciò che così si chiama non è la libertà che io avrei di credere o di non credere secondo le mie disposizioni del momento e di crearmi arbitrariamente un idolo, come se non avessi un dovere primordiale verso la Verità. E’ la libertà che ogni persona ha, di fronte allo Stato o a qualsiasi potere temporale, di vigilare sul proprio destino eterno cercando la verità con tutta l’anima e conformandosi ad essa quale la conosce, di ubbidire secondo la propria coscienza a ciò che ritiene vero riguardo alle cose religiose (la mia coscienza non è infallibile, ma io non ho mai il diritto di agire contro di essa)”
(Il contadino della Garonna, trad. it., Morcelliana, Brescia 1969, p. 11).

Sono passati circa quaranta anni: e forse le dottrine sia marxista che cattolica potrebbero avere bisogno di una rivisitazione di questi testi, magari con il supporto della breve ed incisiva opera di Tommaso d’Aquino Breve trattato dell’esistenza e dell’esistente, commentato dal Maritain e pubblicato dalla Editrice Morcelliana.

L’uomo contemporaneo potrebbe riscoprire i doveri che gli provengono dalla sua irrinunciabile ed inalienabile responsabilità storica.

domenica 7 agosto 2005

SOMNIUM ovvero ASTRONOMIA DELLA LUNA - L'OPERA POSTUMA DI GIOVANNI KEPLERO

CAUSA DELLE MOLTE PERSECUZIONI CHE LO ACCOMPAGNARONO PER TUTTO L'ARCO DELLA VITA

L'opera postuma di Keplero - iniziata a Tubinga nel 1593 e terminata a Sagan nel 1630 - copre un arco di tempo lungo quanto l'intera sua attività di studioso e di ricercatore. In essa, quindi, troviamo registrati e documentati sia i momenti più significativi delle sue scoperte nel campo della fisica astronomica e sia le tappe fondamentali delle sue riflessioni filosofiche e religiose, che hanno sempre camminato di pari passo. L'opera definitivamente conclusa, pertanto, comprende: a) le prime audaci ipotesi "rivoluzionarie" e "copernicane" del giovanissimo studente di Tubinga (nell'ultimo decennio del 1500), b) le mature convinzioni dell'astronomo che, pur nella lucida consapevolezza dei rischi cui va incontro, professa (nel "pericoloso" primo decennio del 1600) la sua dottrina scientifica, quale unica realtà vera, anche se, così pensando ed operando, si poneva in contrasto con tutti gli insegnamenti ufficiali impartiti nelle università, c) le provate e sofferte conclusioni dello studioso tormentato e dell'uomo travagliato, che (per tutto il secondo e il terzo decennio del 1600) anela, in solitudine morale e in emarginazione intellettuale, soltanto a rimanere coerente con le risultanze della "sua" scienza e con i dettami della propria coscienza.

In questa prospettiva cessa di apparire presunzione o atto di ingenua vanagloria la risposta che scrive al Bernegger nel 1929, l'anno prima che lo cogliesse la prematura morte. All'amico, che gli chiede consiglio per qualche testo di matematica, suggerisce: " Che cosa sarebbe - scrive nel mese di marzo - se ti sottoponessi, giusto per celiare, la mia Astronomia della Luna ossia gli aspetti visibili degli astri? Certamente per noi, che veniamo cacciati dalle terre, questo sarà viatico che ci accompagna nelle peregrinazioni e nelle migrazioni verso la Luna. A quel mio libro aggiungo La faccia visibile della Luna di Plutarco tradotto interamente e nuovamente da me e integrato in parecchie lacune con apporti derivati dall'esperienza: cosa che è stata impossibile a Silandro, non essendo egli fisico di professione".

A porre mano di persona, per dare definitiva ed esaustiva sistemazione alle sue ricerche, è spinto da motivi personali veramente stringenti. " Due anni fa - aveva scritto, infatti, nel 1623 sempre al Bernegger - appena tornai a Linz, cominciai a ricomporre o, piuttosto, ad abbellire e rendere più chiara l'Astronomia della Luna. In verità, sono rimasto fermo per attendere, inutilmente, il libro La faccia visibile della Luna del greco Plutarco, che non mi è stato inviato da chi m'aveva promesso di mandarmelo da Vienna (…). Che cosa sarebbe se venissero pubblicate in un unico libro l'Astronomia lunare mia e quella di Plutarco? E non sarebbe pure raccomandazione valida quella che vengano aggiunte anche le Storie vere di Luciano? (…). Nel mio studio ci sono tanti problemi quanti righi tracciati: e, per di più, da risolvere in parte dal punto di vista astronomico, in parte dal punto di vista fisico, in parte dal punto di vista storico. Ma cosa vorresti fare? Quanti sono quelli che reputeranno degno d'affrontarli e di risolverli? Gli uomini, com'essi dicono, vogliono che le inezie di questo genere vengano fatte fuori con una leggera fiancata, e non sono facilmente disponibili a corrugare la fronte per simili passatempi. E allora ho deciso di risolvere ogni cosa io, aggiungendo alla fine del testo delle note in ordine successivo. Un esperimento fatto con il telescopio, che ho acquistato recentemente, mi ha offerto una visione meravigliosa e assolutamente notevole: città e muri, circolari stando alla forma dell'ombra da loro proiettata".
E, dando spazio alla sua ironia, certo non distruttiva, ma pregna di quell'amarezza che nasce negli animi onesti di fronte alla prepotenza spesso unita all'ignoranza di "uomini di potere", continua: "Che dire di più? Campanella ha scritto la Città del Sole; che cosa sarebbe se noi scrivessimo la Città della Luna? Forse sarebbe impresa mirabile mettersi a descrivere con i colori vivaci i costumi ciclopici del nostro tempo. Vorremmo oltrepassare il limite delle terre, per andare a rifugiarci negli immaginari imperi lunari? Ma perché usare scappatoie, dal momento che non furono al riparo né Moro nell'Utopia né Erasmo nell'Elogio della pazzia; anzi entrambi dovettero difendersi? Abbandoniamo, dunque, interamente questa pece politica e dimoriamo nei verdi boschi della filosofia naturale".

E' l'amarezza dell'uomo perseguitato ingiustamente, che voleva solo portare a termine i suoi studi, sempre turbati ma mai scalfiti dall'insano e miope comportamento di uomini tanto potenti quanto ignoranti. Keplero aveva steso - sul canovaccio della Dissertazione del 1593 - l'Astronomia della Luna nel 1609 a Praga, e l'aveva fatta circolare manoscritta in un numero limitato di copie. Fu proprio la diffusione di quest'opera a cacciarlo in guai seri, come egli stesso ci riferisce nella nota 8 del Somnium: "Non so se l'autore dell'audace satira intitolata Conclave di sant'Ignazio si sia imbattuto in un esemplare di questo mio libretto; ad ogni modo mi tocca espressamente sin dal principio. Andando avanti, appunto, conduce il povero Copernico davanti al tribunale di Plutone, dove, se non mi sbaglio, si accedeva attraverso le voragini del monte Hekla. Voi, amici, che siete a conoscenza dei miei fatti e sapete bene quale sia stato il vero motivo del mio recentissimo viaggio in Svezia, e soprattutto se qualcuno di voi per caso ha avuto tra mano prima d'ora il manoscritto, capirete benissimo che codesto libretto è stato per me e per i miei familiari di male augurio. Ed io sono d'accordo con voi. Il presagio di morte è sicuramente grande se riposto in una ferita mortale che viene inferta, o nel veleno che viene bevuto; ma non minore appare il presagio di sterminio familiare riposto nella diffusione di questo scritto, tanto che lo vedresti come una scintilla andata a cadere su un'esca ben asciutta; crederesti subito, cioè, che quelle parole scritte da me siano state raccolte da animi intimamente malvagi e capaci di congetturare solo ciò che è nero. Eppure il primo esemplare fu portato, nel 1611, da Praga a Lipsia e da lì a Tubinga, dal barone di Volckerstorff e dai suoi precettori per gli studi e per il comportamento. Cosa debbo dirvi ancora, perché crediate che si è chiacchierato (soprattutto se ad alcuni il nome della mia Fiolsilde sembrava di malaugurio a motivo della sua arte) di questa mia favola nei negozi da barbiere? Di certo, proprio da quella città e da quella casa sono nate le chiacchiere e le calunnie su di me negli anni immediatamente successivi; questi discorsi, raccolti da animi ostili, divennero immediatamente un grande incendio nella pubblica fama, alimentato e gonfiato dall'ignoranza e dalla superstizione. Se non m'inganno, in questo modo comprenderete che sarebbe stato facilmente possibile che la mia famiglia non soffrisse vessazioni durate sei anni e che io stesso non sarei stato costretto al viaggio costretto a fare l'anno passato: sarebbe stato sufficiente che io avessi violato gli ordini datimi in sogno da questa Fiolsilde. Adesso, quindi, mi è molto piaciuto vendicare questo mio sogno dalle molestie che vi ho riferito. Per gli avversari costituirà un'altra pesante punizione".

sabato 6 agosto 2005

LA SCIENZA CERCA LA REGOLARITÀ - MA ALL'ORIGINE DI CIÒ CHE ESISTE VI È UNA SUA VIOLAZIONE

"Che cos'è il mondo? Che cos'è che ha portato dio a crearlo e secondo quale piano? Da dove dio ha tratto i numeri? Quale regola governa una massa così enorme? Perché dio ha creato sei orbite? Perché ci sono questi intervalli tra ciascuna orbita? Perché Giove e Marte, che non si trovano nelle prime orbite, sono separati da uno spazio così vasto?". Con queste parole ha inizio il Mysterium Cosmographicum, la prima opera a stampa di Keplero, pubblicata a Tubinga nel 1596. A guidarlo nella sua lunga e solitaria avventura intellettuale è la convinzione di poter svelare "a priori" l'ordine razionale (copernicano), che presiede alla costituzione del mondo. Se un Dio matematico è l'artefice dell'universo, coglierne il "mistero" non equivale forse a scoprire il disegno e i lineamenti geometrici del cosmo? La concordanza tra i dati delle distanze planetarie forniti da Copernico e le dimensioni delle sfere inscritte e circoscritte ai cinque poliedri regolari diventa per Keplero la massima espressione di ordine e perfezione della geometria euclidea. Numero dei pianeti, distanze delle orbite, moti dei pianeti, rapporto tra le distanze e i tempi di rivoluzione, tutto si tiene insieme, inserendosi in un tipo di spiegazione a priori mai tentata prima di allora.
Il Mysterium non ebbe il successo sperato. Tycho Brahe, a cui Keplero aveva inviato una copia del libro, non poteva accettare nessuna delle ipotesi filosofiche e teologiche, che tanto avevano entusiasmato l'astronomo tedesco. Le assurdità insite nella teoria copernicana erano, per lui, così evidenti, da non meritare neppure di insistervi troppo. L'armonia e la proporzione del cosmo, inoltre, devono essere cercate "a posteriori", dopo lunghe e complesse osservazioni, e mai "a priori".

Keplero, comunque, tiene di conto della "lezione" del grande astronomo danese. Partendo dai dati osservativi lasciatigli in eredità (Tycho Brahe muore il 24 ottobre 1601), Keplero, che nel frattempo era stato nominato astronomo imperiale di Rodolfo II, pubblica nel 1609 una delle sue opere più importanti: l'Astronomia nova. In essa sono contenute le cosiddette prime due "leggi di Keplero": a) le orbite dei pianeti sono delle ellissi; b) il Sole occupa uno dei due fuochi e la retta che congiunge il pianeta al Sole descrive aree uguali in tempi uguali. La terza legge - il rapporto tra il cubo della distanza di un pianeta dal Sole e il quadrato del suo periodo di rivoluzione è costante - sarà pubblicata nel 1619, nell'Harmonices mundi.

Quali sono le principali conseguenze che possono essere tratte da queste leggi? a) Keplero afferma, in pieno accordo con i dati osservati, che le orbite dei pianeti sono ellittiche, negando così l'antichissimo principio secondo cui i pianeti si muovono su orbite circolari. b) Il moto dei pianeti non è uniforme, ma varia con la distanza dal Sole (il pianeta si muoverà più velocemente quanto più è vicino al Sole, e viceversa). Il Sole, dunque, svolge la funzione di forza motrice dei pianeti: una forza motrice quasi magnetica, dirà Keplero (non bisogna dimenticare che nel 1600 William Gilbert aveva pubblicato l'opera dal titolo De magnete, che ebbe una vasta influenza non soltanto su Keplero, ma anche su Galileo).

L'intero sistema dei moti celesti è, quindi, governato da una facoltà fisica. Fa eccezione la rotazione del Sole attorno al proprio asse, per spiegare la quale Keplero attribuirà al Sole un'anima motrice. Le novità introdotte dal copernicano Keplero non furono accettate dagli astronomi del suo tempo. Galileo le ignorò, così come fecero la maggior parte degli astronomi e matematici europei. Solo con la teoria della gravitazione universale di Isaac Newton esse trovarono una soddisfacente spiegazione teorica.

La scienza cerca la regolarità, ma all'origine di ciò che esiste vi è una sua violazione L'idea è affidata a un'immagine di Vitruvio, resa celebre da un disegno di Leonardo. Un uomo con le gambe e le braccia divaricate, il cui corpo risulta iscritto al tempo stesso in un cerchio e in un quadrato entrambi con centro nell'ombelico, "il centro naturale del corpo umano", dice Vitruvio. L'idea è quella classica di simmetria come armonia delle proporzioni. La simmetria, spiega Vitruvio nel De Architectura, "è l'accordo armonico tra le parti di una medesima opera e la rispondenza di proporzioni tra le singole partì e l'intera figura". E il corpo umano ne fornisce un esempio naturale, che serve da modello delle opere architettoniche. "Senza rispettare simmetria e proporzione, nessun tempio può avere un equilibrio compositivo, come è per la perfetta armonia delle membra di un uomo ben formato". L'uomo ha trasmesso alle sue creazioni la simmetria del proprio corpo, dai templi di cui parla Vitruvio progettati sui modelli greci ai moderni grattacieli di Kuala Lumpur. Del resto, la simmetria destra-sinistra che caratterizza il nostro corpo sta all'origine delle nostre osservazioni della simmetria. Basta guardarsi intorno per scoprire ovunque simmetrie, negli oggetti della natura e negli artefatti umani, dalle piante alle conchiglie, alle stelle marine, ai fiori, ai rosoni delle chiese romaniche, dagli archi dei portici alle arcate dei ponti.

La simmetria degli antichi, di cui parla Vitruvio, si fonda sul concetto di numero intero; è una relazione di commisurazione numerica, che permette di stabilite un accordo armonico tra diversi elementi. Il termine greco stava, appunto, a significare commensurabilità. Simmetrici erano, dunque, quegli elementi multipli di una misura comune. Quando i Pitagorici affermavano che il numero sta all'origine di ogni cosa, esprimevano la loro fiducia nell'armonia dell'universo assicurata dalla commisurabilità numerica di ogni rapporto.

La scoperta di grandezze incommensurabili, come la diagonale e il lato di un quadrato, mise drammaticamente in crisi la loro visione del mondo. "a-logòs", irrazionale. Nel mondo greco quel rapporto è, appunto, qualcosa di indicibile. Quei segmenti non hanno "proporzione", sono linee "non simmetriche", scrive Platone nel Teeteto. Per Platone le proporzioni numeriche hanno la funzione di "accordare" in un'unità due o più termini diversi, e "il più bello dei nessi è quello che fa, di sé e delle cose che connette, la maggior unità possibile; e questo è la proporzione che lo realizza nel modo più bello". La sezione aurea di un segmento, la proporzione "divina" tra le sue parti, ne costituisce l'esempio paradigmatico. Proporzioni, simmetrie e armonie di ispirazione pitagorica entrano in gioco anche nel Timeo a caratterizzare l'idea platonica della formazione degli elementi naturali. La chiave è fornita dai cinque solidi regolari, i perfetti esempi di simmetria, che ispirano a Leonardo le illustrazioni della Divina proporzione e a Keplero il sistema planetario che presenta nel suo Mysterium Cosmographicum.

venerdì 24 giugno 2005

GIOVANNI ANDREAE e FRANCESCO BACONE - PER LA SCIENZA CHE GENERA LA SOLIDARIETA’ FRATERNA

UN MESSAGGIO FORTE DAL SEICENTO, QUALE SECOLO DELLA SCIENZA

L'opuscolo anonimo, Fama Fraternitatis o Rivelazione della Confraternita del nobilissimo Ordine della Rosa-Croce, stampato a Kassel da Wilhelm Wessel nel 1614, si apriva con queste parole: “Poiché l’unico dio saggio e misericordioso in questi ultimi tempi ha riversato sull'umanità la sua misericordia e bontà con tanta dovizia, da permetterci di conseguire una conoscenza sempre maggiore e perfetta di suo figlio Gesú Cristo e della Natura, possiamo vantarci a buon diritto di vivere in un tempo felice, in cui Egli non solo ha rivelato quella metà del mondo fino ad ora a noi sconosciuta e celata e ci ha fatto conoscere molte meravigliose opere e creature della Natura mai viste prima, ma ha anche fatto sorgere uomini di grande sapienza, che potrebbero in parte rinnovare e condurre a perfezione tutte le arti, ora contaminate e imperfette, cosicché l’uomo possa finalmente comprendere la sua nobiltà e il suo valore e perché sia chiamato microcosmo e quanto la sua conoscenza si estenda nella natura”. (Fama Fraternitatis o Rivelazione della Confraternita del nobilissimo Ordine della Rosa-Croce in Frances Amalia Yates, L'illuminismo dei Rosa-Croce, Appendice, Einaudi Editore, Torino, 1976. p.283).
Nel The Advancement of Learning, pubblicato nel 1605 e dedicato a Giacomo I, Francesco Bacone aveva lamentato le carenze del sapere, sia in ambito letterario che in ambito naturalistico, prospettando e presagendo la possibilità di un mondo in cui finalmente la fratellanza dello studio e dell’esercizio delle arti meccaniche avrebbe rinnovato tutte le attività umane: “il progresso scientifico consiste in una certa misura anche nel prudente governo e nelle sagge istituzioni delle singole università, così si avrebbe un accumulo di sapere, se tutte le università sparse per tutta l'Europa fossero fra loro in più stretti rapporti e collegamenti. Eppure esistono tanti ordini e sodalizi i quali, benché sparsi e dispersi in Stati diversi, sentono sempre una comunione che li affratella (…). E come la natura crea la fratellanza in una famiglia, le arti meccaniche trovano la loro comunione nei sodalizi, la unzione divina costituisce la fratellanza tra i re e i vescovi, i voti e le regole introducono la fratellanza negli ordini sacri; così non può mancare la fratellanza nobile e generosa tra uomini della scienza e della luce, giacché Iddio stesso è detto Padre dei lumi” (F. Bacon, The Advancement of Learning, II, dedica a Giacomo 1, p. 13; cfr. De augmentis scientiarum, la versione latina posteriore, in Opere filosofiche, a cura di Enrico de Mas, Laterza, Bari, 1965, vol. II, p. 84).

Johann Valentin Andreae (1586-1654), specialmente ne Le nozze chimiche di Christian Rosencreutz, (1459), usa spesso la dicitura “il padre della Luce” in luogo di Dio o Creatore (Johann Andreae, Valentin, Chymische Hochzeit Chrístiani Rosencreutz: Anno 1459, Strassburg, Zetzner, 1616; trad. it., Le nozze cbimicbe di Christian Rosencreutz, Anno 1459, Atanòr, Roma, 1975 o Milano, Studio Editoriale, 1987).

Nel 1620 verrà pubblicato a Londra, da Francesco Bacone, Lord Cancelliere d'Inghilterra, l'Instauratio magna nel cui frontespizio si vede una nave che a vele spiegate, su un mare tempestoso, sta attraversando le colonne d'Ercole e più sotto la citazione dal Libro di Davide Multi pertransibunt et augebitur scientia, e nel 1623 nella Nuova Atlantide (pubblicata postuma nel 1627) si narra che: “il re (…) emanò il seguente decreto: ogni dodici anni due navi equipaggiate dovevano salpare da questo regno per due diversi viaggi e in ciascuna ci doveva essere una missione di tre Soci, o Fratelli, della casa di Salomone, il cui unico scopo era quello di informarci sugli affari e sulla condizione dei paesi ai quali erano designati e soprattutto sulle scienze, sulle arti, sulle opere e sulle invenzioni di tutto il mondo e inoltre di riportarci libri, strumenti e campioni di ogni tipo. Le navi dovevano ritornare quando avevano sbarcato i fratelli che restavano all'estero fino ad una nuova missione (…) in questo modo, noi istituiamo un commercio non per procacciarci oro, argento o gioielli, né le sete o le spezie o qualsiasi altro vantaggio materiale, ma soltanto la prima creatura di Dio: la Luce; per essere illuminati - voglio dire - sullo sviluppo dì tutti i paesi del mondo” (Francesco Bacone, La Nuova Atlantide, Armando Editore, Roma,1998 p. 75).

La solidarietà fraterna rende possibile questo viaggio, il quale ha come solo obiettivo l'accrescimento del sapere che è l'unico modo per ottenere il potere sull'universo accessibile e raggiungibile dall'uomo; ovvero il progresso scientifico avvicina sempre più alla realizzazione di quel “regno dell’uomo” dove abita e governa la Luce. Bacone fa proprio questo concetto biblico sul quale costruirà tutta la sua filosofia della natura, perché Dio, come dice San Giacomo nella Lettera I, 17, viene detto Padre dei lumi e la fratellanza del sapere diverrebbe una fraternità di scienza e di luce. Con queste parole, difatti, egli termina il Novum Organon: “Egli, infatti, per il peccato, cadde dal suo stato di innocenza e dal dominio sulle creature. Entrambe le cose si possono recuperare, almeno in parte, anche in questa vita: la prima, con la religione e la fede; la seconda, con le arti e le scienze” (Francesco Bacone, Novum Organon, Bompiani, Milano, 2002, p.531).

mercoledì 23 marzo 2005

ENRICO DE MAS - LO STUDIOSO, IL MAESTRO, L’AMICO - (Pisa, 1926-1990)

UNA VITA CON UN SOGNO: ESSERE COSTRUTTORE DI PACE

Il 27 marzo 1990, vinto in poco tempo da malattia inguaribile, moriva a Pisa, dov’era nato il 15 luglio 1926, Enrico De Mas. Il prof. Giuliano Marini, comune amico fraterno, in quell’occasione pronunciò un indirizzo di commiato: parole brevi e fluide, dettate spontaneamente dalla condivisione di tante esperienze umane e culturali e dalla comunanza di ideali di civiltà e di sentimenti religiosi: cioè dall’antica partecipata meditazione - in profonda sintonia di pensiero e intima coesione di spirito - di progetti e di sogni di possibile rinnovamento dell’umanità. Nessun tratto di ostentazione; nessuna ricerca di visibilità; nessuna rivendicazione di primato e di primogenitura. Le parole pronunciate allora erano contenute in tre pagine, che l’amico Marini mi diede privatamente, conoscendo l’affetto e devozione che io nutrivo verso De Mas. Ho letto più volte quelle pagine, ripensando alle lunghe conversazioni col mio “maestro e amico”; soprattutto a quelle dei suoi ultimi giorni di vita. Sono passati quindici anni, e ritengo “bello” rileggere e commentare alcuni pensieri di quello scritto.

“Si rimane impressionati – disse il Marini, ricordando lo studioso – dall’ampiezza delle ricerche condotte da De Mas, e dalla vastità della sua erudizione storica e filosofica. Soltanto una vita operosissima, condotta al riparo dalle mode, poteva consentirgli, nei nostri tempi dispersivi, una tale messe di risultati”. Infatti, l’amico Enrico De Mas, nella sua non lunga vita, “seppe convogliare nella sua operosità scientifica lo spirito filosofico e l’attenzione alla concretezza storica, unite sempre da un preminente senso morale”.

Enrico De Mas si era laureato in Filosofia con Armando Carlini e, successivamente, in Scienze Politiche con Giacomo Perticone. Studia sin dall’inizio Vico e Bacone, anche se il suo Autore preferito e veramente amato rimane sempre Francesco Bacone. Nel 1959 scrive il piccolo lavoro Bacone e Vico; nel 1964 pubblica alcune sue profonde meditazioni su Francesco Bacone da Verulamio: la filosofia dell’uomo: è l’inizio della grande fatica durata alcuni anni, durante i quali dà alla luce la “sua” traduzione italiana delle opere del filosofo inglese: Opere Filosofiche (1965), Novum Organum (1968), Scritti politici, giuridici e storici (1971), l’opuscolo Francis Bacon (1978). Il Bacone di De Mas è il banditore della filosofia, della scienza e della tecnica che, ispirate da spirito cristiano, avrebbero consentito il perseguimento di un realistico regno dell’uomo sulla terra. “Il suo secolo – disse Giuliano Marini - si confermava, negli studi degli anni successivi, quel Seicento che era stato intravisto o sperato come epoca di una cristianità ricomposta e pacificata, nel segno di interpretazioni bibliche e di approfondimenti teologici che restituissero il deposito antico della fede cristiana, liberandolo da incrostazioni positive e da artificiose divisioni ecclesiastiche. La più ampia di quelle indagini si ebbe nel 1982 con L’attesa del secolo aureo (1603-1625), splendido affresco di un’età pervasa da fremiti religiosi e politici”. Seguirono lo studio sulla Descrizione della Repubblica di Cristianopoli nel 1983 e, nel 1987, le Lettere di Fulgenzio Micanzio a William Cavendish.
Gli interessi speculativi di De Mas investono, contemporaneamente ma soprattutto negli ultimi anni, un altro campo di interessi: i pensatori e le correnti del Novecento filosofico italiano, con particolare riferimento alla storia della filosofia detta “minoritaria”, in quanto non in mostra né in posizione di confronto, ma non per questo meno carica d’incisività teoretica e di capacità innovativa grazie alle concrete proposte di rinnovamenti, sempre dettati da esigenze morali e sorretti da motivazioni anche religiose, ritenute sicuro lievito di dignità umana nella libertà politica. Tale posizione è esemplarmente rappresentata dai volumi Giuseppe Rensi tra democrazia e antidemocrazia del 1978 e Dibattito di filosofia politica italiana (1919-1929) del 1985, nei quali esamina (con puntualità storica) e valuta (con rigore logico e morale) teorie e prassi politiche contemporanee, dimostrando come numerosi pensatori debbano entrare a buon diritto a far parte della storia delle dottrine politiche, in quanto, essendo stati autori di analisi storiche spesso ampie, o anche solo di opuscoli impegnati, di scritti di storia e di diritto, non possono rimanere ancora al margine nemmeno nella sola discussione del problema più generale, e cioè del posto da assegnare all’attività politica nell’ordine delle scienze teoretiche e pratiche. L’intera indagine che De Mas dedica a questi autori contemporanei mira anch’essa ad evidenziare la possibilità concreta di democrazie sorrette da motivi civili e morali, sorretti sempre da spirito religioso autentico: di democrazie, cioè, che pensino società e sostengano governi fatti a vera e totale misura d’uomo, in cui siano reali, quindi, nuove prospettive culturali, alimentate da convinzioni fondamentali comuni alle varie concezioni culturali, ai diversi progetti politici, e anche alle sempre più numerose confessioni religiose.

E’, questo, uno dei motivi dominanti di tutti gli studi e della vita intera di Enrico De Mas. E negli ultimissimi mesi aveva avviato la realizzazione di un suo grande sogno, al quale teneva immensamente e nel quale riponeva speranze profonde: aveva dato vita alla pubblicazione della Collana “Eirenikon”, consegnando alle stampe i primi tre volumi da lui stesso curati: erano testi di Francesco Bacone, di Fulgenzio Micanzio e di Marc’Antonio De Dominis; nel frattempo aveva provveduto ad ‘assegnare’ ad altri studiosi (che lui desiderava – come ripeteva ogni qualvolta si presentava l’occasione - “capaci, ma anche lucidi e generosi, onesti e profondi”) la ricerca sulle opere di altri Autori, di cui aveva approntato una lunga lista che comprendeva, tra gli altri, Amos Comenio, Giovanni Keplero, Gaspare Scoppio, Goffredo Guglielmo Leibniz, Ugo Grozio, Francesco Pucci, Francesco Du Jon, John Goodwin, Michel de L’Hospital: “una ideale comunità – come commentò il Marini - di spiriti liberi In quei giorni appariva animato da un insolito entusiasmo; una gioia rara ne dipingeva lo sguardo, in genere schivo ma incisivo. I volumi freschi di stampa gli furono portati, mentre era già nel letto dove sarebbe morto dopo qualche giorno: li teneva tra le mani, guardandoli di tanto in tanto, come volesse custodirli e difenderli da ogni pericolo. “Questa collana di testi irenici ed ecumenici dei secoli XVI-XVII-XVII – aveva scritto nel Prodromo del primo volume – comincia con una esauriente raccolta degli scritti di Francis Bacon, dedicati ex professo ai problemi teologici, ecclesiologici e politico -ecclesiastici, che per certi aspetti è destinato a dare il tono generale e l’impostazione di fondo a tutta la serie. Essa tende a raccogliere e a riproporre all’attenzione degli studiosi - seguendo sempre i criteri scientifici della sistemazione storiografica e le regole della filologia del testo - le proposte concrete, meglio se inedite e conservate in antiche carte o in stampe rare, di carattere teologico, morale, diplomatico, pedagogico e filosofico, che furono dettate in quei secoli da scrittori eminenti e influenti, per la notorietà che ebbero nella repubblica delle lettere e per la particolare competenza e padronanza dei mezzi idonei ad affrontare il problema più rilevante ed aspro del momento: lo scandalo delle guerre di religione fra i cristiani di opposta confessione o appartenenti a chiese e sette rivali”.
“Quest’ammirevole progetto, insieme scientifico ed etico-religioso, – annotò con razionale amarezza il Marini – è stato bruscamente interrotto, e siamo bruscamente richiamati alla coscienza della provvisorietà nostra e delle nostre opere. Nella sua mitezza, insospettato sognatore, il nostro amico coltivò arditi sogni della ragione. ‘Uomo dei dolori che ben conosce il patire’ – se è lecito usare le parole di Isaia – egli seppe trasformare le asprezze quotidiane in strumento per un silenzioso esercizio di rigore su se medesimo e per la conquista di nuovi orizzonti per la comunità scientifica (…). Tutti coloro che lo hanno conosciuto ricordano commossi lo studioso, il maestro, l’amico”.

Durante le festività natalizie del 1989, prima di salutarci nella stazione di Pisa, mi fece leggere alcune pagine dattiloscritte: era il regalo natalizio che mi aveva preparato nella solitudine del suo studio; non glielo avevo chiesto, ma sapeva che ne sarei stato contento: Erano pagine di Presentazione al mio volume di ristampa della monografia scritta nel 1943 da Alfredo Poggi su Piero Martinetti. Ricordo la sua espressione sorridente di soddisfazione, unita a profonda consapevolezza che la vita va accettata sempre e comunque, con umana razionalità e religiosa disponibilità. Ne avevamo parlato tante volte tra di noi, ma in quei giorni egli vi aveva insistito: mi aveva confidato di non sentirsi bene, ma nulla di più. Avrei anticipato il mio ritorno a Pisa solo qualche settimana dopo, ma non per “chiacchierare” (come amava chiamare le nostre lunghe conversazioni) ma per raccoglierne le ultime confidenze. La sua era ormai lucida e malinconica accettazione.
Enrico De Mas non vide il mio volume pubblicato; era ancora in stampa, ed io potei solo aggiungervi un Post-Scriptum, dove scrissi, tra l’altro che “una malattia mortale l’ha sottratto alla terrena repubblica delle lettere, di cui egli è stato degno e prestigioso cittadino. Riteniamo siano state le ultime pagine da lui scritte. E se per tutti esse trasmettono il messaggio che documenta la sua nobiltà d’ingegno e la sua elevatezza di sentimenti, per noi custodiscono il testamento spirituale dell’amico disinteressato e del maestro profondo ed umile. Eredità feconda rimane il suo realismo ricco di entusiasmo e di fiducia in un mondo concretamente perfettibile grazie alla pacifica laboriosità di uomini moralmente responsabili. Ed in tutta la sua opera egli ha trasmesso con autorevolezza e suadente vigoria i segreti della fede nelle veraci conquiste dello spirito umano, incessantemente proteso verso il trascendente, creduto con incrollabile fermezza”.

venerdì 14 gennaio 2005

ALBERT EINSTEIN, CINQUANT'ANNI DALLA MORTE - (Ulm 1879 - Princeton 1955)

UNA SCIENZA AL SERVIZIO DELLA PACE, ovvero FILOSOFIA PRATICA E SOLITUDINE MORALE

Il 18 aprile 2005 ricorre il cinquantesimo anniversario della morte di Albert Einstein. Il 2005 è pure il centenario della pubblicazione su "Annalen der Phisik" del suo saggio Sull'elettrodinamica dei corpi in movimento, nel quale il fisico tedesco esponeva i fondamenti della sua teoria della relatività speciale; sempre nel medesimo anno (appunto nel 1905) elaborava il primo modello matematico in grado di essere utilizzato nello studio dei moti browniani e presentava, infine, una memoria contenente la spiegazione dell'effetto fotoelettrico, per la quale gli sarà assegnato il premio Nobel. "Voglio capire - scrive Einstein nel 1929 nel suo Il mondo come io lo vedo - come Dio ha creato il mondo. Non mi interessa questo o quel fenomeno in particolare: voglio penetrare a fondo il Suo pensiero. Il resto sono solo minuzie (...). L'esperienza più bella che possiamo avere è il senso del mistero. E' l'emozione fondamentale che accompagna la nascita dell'arte autentica e della vera scienza. Colui che non la conosce, colui non può più provare stupore e meraviglia, è già come morto, e i suoi occhi sono incapaci di vedere". Einstein non vuole, quindi, intuire la presenza di un ipotetico Creatore, ma scoprire il significato intrinseco delle cose del mondo. A lui interessa, perciò, comprendere "come" Dio ha creato il mondo; e lo fa immergendosi, con audacia e totalità, nell'indefinito oceano del mistero, che lo scienziato desidera penetrare e, senza violentarne la sacralità, illuminarne quelle parti, che la sua intima meditazione e la sua tenace riflessione sapranno conquistare. E' la solitudine esplosiva della ricerca scientifica che consente allo scienziato di "vedere il mondo" a modo suo: solo così può sperare di conquistare il senso delle cose, impossessarsene e parteciparlo poi, gratuitamente e incondizionatamente, all'umanità. Significativo, allora è quanto scriverà nel 1945, quando si ritirerà ufficialmente dall'insegnamento: "Oggi l'energia atomica non è un bene per l'umanità, ma una minaccia". Sperava che una simile minaccia incitasse gli uomini ad cercare maggiore saggezza e, comunque, tale da spronarli a inventare forme di vita associata a livello anche internazionale che garantisse la sopravvivenza dell'umanità, preservandola dalle conseguenze di quelli che egli definiva "gli orrendi ordigni inventati in questi anni".

Einstein unì costantemente l'attività di scienziato all'impegno etico e sociale, ispirandosi all'ideale morale e politico di Gandhi. Il pacifismo militante contraddistinse l'intera vita dello scienziato; la pace tra le nazioni costituì un anelito intimo e appassionato, che lo accompagnò ogni giorno della sua esistenza; anche poche ore prima della morte, scrivendo all'allora premier indiano Nehru, diceva: "le armi per la distruzione di massa hanno raggiunto una potenza tale che il mondo può essere distrutto, se l'uomo non trova i mezzi per vivere in pace con i suoi simili". Queste preoccupazioni per il destino dell'umanità, che peraltro resta determinato notevolmente dalle capacità intellettive dell'uomo e, quindi, fortemente legato alle risorse culturali e morali dell'uomo, fanno di Einstein un filosofo impegnato, anche se non teoretico. Il padre della relatività, infatti, non formula domande speculative sulla natura del mondo, né si pone interrogativi astratti sull'esistenza dell'uomo. Per lui la filosofia vera, o comunque quella che lo interessa e lo coinvolge, non può soffermarsi a discutere sull'essere, sul non-essere o sul divenire; la filosofia per lui assume validità solo in quanto diventa operativa, nel senso che, senza indugiare a meditare su problematiche astratte (considerate come proprio oggetto di studio), s'impegna a chiarificare i grandi problemi, che forse inizialmente hanno costituito il territorio specifico della filosofia tradizionale, ma che ora sono divenuti ormai oggetto di altre scienze, quali la matematica, la fisica, la psicologia, la biologia, la sociologia, la politica. Ed i concetti di spazio e di tempo, di geometria e di aritmetica diventano, così, grazie all'impegno di Einstein, patrimonio della fisica, la quale non può e non deve occupare energie a discutere sull'ipotesi dell'esistenza di un etere e sulla concezione di un sistema di coordinate inerziale; Einstein fonda ormai la fisica su dati evidenti e chiari, che la rendono razionale per cui i confini tra fisica e filosofia, se non coincidono, non hanno più una linea di demarcazione. "Io credo che ci sia una realtà al di fuori di noi": così rispondeva a chi gli chiedeva se esistesse un mondo oggettivo reale. Io credo: la scienza, cioè, è creazione della mente umana; è una libera invenzione dell'umana creatività, mediante la quale si vuole comprendere in schemi spiegativi sempre più vasti e meno incerti il sempre più esteso e ricco mondo dell'esperienza umana. Einstein scienziato contempla in sé stesso le proprie idee, che rinnova in una lotta drammatica condotta per sempre meglio capirsi e capire; è una lotta che dura all'infinito; è la lotta che racconta la storia della scienza. La scienza risolve molte difficoltà, e spesso con vere rivoluzioni culturali, ma continua a crearne anche delle nuove, che pongono a loro volta problemi nuovi e nuove contraddizioni, il cui superamento determinerà gli ulteriori sviluppi e l'avanzamento del sapere scientifico.

La scienza è, quindi, costruzione audace ma fondata dall'intelligenza umana; e tuttavia Einstein si chiede cosa esprima la scienza: esplicita essa la struttura reale di un mondo oggettivo? Ma, un mondo oggettivo c'è realmente? E, ponendosi al di là delle risposte dei filosofi sia realisti sia idealisti, e respingendo l'atteggiamento presuntuoso e negativo dei logici neopositivisti (i quali deriderebbero la domanda stessa), Einstein accoglie il senso umano del quesito scientifico e, inoltrandosi nel regno della sacralità religiosa, risponde nel suo saggio del 1929 Il mondo come io lo vedo: "L'esperienza più bella che possiamo avere è il senso del mistero. E' l'emozione fondamentale che accompagna la nascita dell'arte autentica e della vera scienza (…). Lo scrutare nei misteri della vita, anche se misto alla paura, ha dato origine alla religione. Sapere che ciò che per noi è impenetrabile esiste realmente, manifestandosi come la più alta saggezza e la più radiosa bellezza che le nostre povere facoltà possono comprendere solo nelle loro forme più primitive - questa conoscenza, questo sentimento, sono al centro della vera religiosità. In questo senso, io appartengo alla schiera degli uomini profondamente religiosi". Ecco la religione in Einstein: la chiave essenziale che apre le serrande della vita stessa, sia dal punto di vista della conoscenza, là dove il senso comune fallisce e occorre trovare più alte vie d'illuminazione interiore; sia dal punto di vista dell'azione, là dove la mistica dell'ubbidienza passiva e la forza sfrenata del volere vengono rivendicate come unico rimedio per evitare le ambigue vie dell'utile e i tortuosi sentieri della morale dell'obbedienza incondizionata. Scienza, filosofia e religione, nel sentire del fisico tedesco, sono un trinomio indissolubile e necessario al senso della vita dell'umanità, soprattutto nei brutti tempi della storia, quali quelli che si stavano profilando in quel periodo: sotto le apparenze delle democrazie si scorgeva già (ieri come oggi) un diffuso agnosticismo individuale e un dilagante utilitarismo nazionale, e dietro la facciata delle pubbliche libertà stava in agguato (ieri come oggi) il più turpe conformismo ideologico, terreno fertile per le tirannidi. E Einstein ammoniva: la libertà di pensiero è una conquista che si ottiene per gradi e con un continuo approfondimento della libertà di coscienza. Questo fa di Einstein non uno spettatore passivo delle vicende europee e mondiali, ma un osservatore attento e partecipe, anche se senza quei coinvolgimenti emotivi che ne avrebbero alterato la visione dei fatti; è lui stesso a dircelo nel medesimo saggio del 1929: "Il mio appassionato interesse per la giustizia e la responsabilità sociale è sempre stato in curioso contrasto con una spiccata assenza del desiderio di una associazione diretta con uomini o donne. Io sono un cavallo fatto per il tiro a uno, e non sono tagliato per lavorare in pariglie o in tiri a quattro. Non ho mai appartenuto con tutto il cuore a un paese o a uno stato, alla mia cerchia di amici o anche alla mia stessa famiglia. Questi legami sono stati sempre accompagnati da un vago senso d'indifferenza, e il desiderio di ritirarmi in me stesso aumenta col passare degli anni. Questo isolamento è talvolta amaro, ma io non rimpiango di essere escluso dalla comprensione e dalla simpatia degli altri uomini. Con ciò, non lo nego, io perdo qualcosa, ma di questa perdita io sono ricompensato col rendermi indipendente dalle abitudini, dalle opinioni e dai pregiudizi degli altri, e non sono tentato di riporre la pace del mio spirito su fondamenta così instabili".

Disprezzò sempre, anzi odiò la violenza, la prepotenza, l'ingiustizia. Egli, che dimostrò sempre disponibilità al dialogo e al confronto, non esitando mai ad andare in aiuto di chiunque glielo chiedesse, restò risoluto e inflessibile dinanzi ad ogni tentativo di piegarlo verso politiche che simpatizzassero per sistemi illiberali o, tanto peggio, liberticidi. Nel 1930, in un discorso tenuto a una manifestazione studentesca per il disarmo, affermava: "Trasmettendoci una scienza e una tecnica altamente sviluppate, le passate generazioni ci hanno fatto dono di uno strumento prezioso, capace di migliorare e arricchire la nostra esistenza in una misura fin qui sconosciuta. Tuttavia, esso reca con sé anche dei pericoli che rappresentano una inaccia per il genere umano". L'anno successivo, durante la conferenza del disarmo, sosteneva: "I benefici apportati dal genio inventivo dell'uomo nel corso degli ultimi cento anni, potrebbero rendere la vita felice e libera da preoccupazioni, se al progresso tecnico avesse corrisposto un pari sviluppo nel campo dell'organizzazione sociale. Allo stato attuale delle cose, nelle mani della nostra generazione le conquiste raggiunte con tanti sacrifici hanno lo stesso senso di un rasoio adoperato da un bambino di tre anni. I meravigliosi strumenti di produzione di cui disponiamo hanno portato, anziché libertà, dolore e fame". Il 30 luglio 1932, aderendo alla richiesta delle Nazioni Unite, scrive una lettera a Freud, chiedendo al padre della psicanalisi lumi sulla domanda: "C'è un modo per liberare gli uomini dalla fatalità della guerra? E' ormai risaputo che, col progredire della scienza moderna, rispondere a questa domanda è divenuto una questione di vita o di morte per la civiltà da noi conosciuta, eppure, nonostante tutta la buona volontà, nessun tentativo di soluzione è purtroppo approdato a qualcosa". I suoi convincimenti li troviamo espressi con chiarezza in due documenti del 1939. Il primo è la lettera scritta il 2 agosto al presidente degli Stati Uniti d'America, con la quale lo scienziato riesce a rompere la compattezza marmorea della mentalità militare; suggerisce, infatti, al presidente "l'opportunità di stabilire un collegamento permanente tra il governo e il gruppo di fisici che, in America, lavorano alla reazione a catena, collegamento che potrebbe essere facilitato dalla nomina di un responsabile di Sua fiducia, autorizzato ad agire anche in veste non ufficiale". Il secondo documento è lo scritto Solo allora saremo liberi, nel quale scrive: "La scienza ha fatto sorgere questo pericolo, ma il vero problema è nella mente e nel cuore degli uomini. Noi non cambieremo i cuori di altri mediante meccanismi, ma solo cambiando i nostri cuori e parlando onestamente. Dobbiamo essere generosi nel dare al mondo la conoscenza che noi abbiamo delle forze della natura, dopo aver preso le opportune precauzioni contro ogni abuso. Noi dobbiamo essere non solamente disposti, ma attivamente premurosi di sottometterci a un'autorità superiore necessaria per la sicurezza del mondo. Dobbiamo renderci conto che noi possiamo fare contemporaneamente progetti di pace e di guerra. Quando saremo limpidi di cuore e di mente, solo allora troveremo il coraggio di superare la paura che incombe sul mondo".

Noi oggi, cittadini di un mondo che ama dirsi e si vanta d'essere "globalizzato", continuiamo a essere grati ad Albert Einstein: esempio di saggezza e di bontà, pari alla sua lungimiranza coraggiosa e disincantata, proprio perché dettata dalla conoscenza profonda delle cose del mondo e dell'animo umano.

ALFREDO POGGI - UN SOCIALISTA KANTIANO, ovvero PRASSI POLITICA E COERENZA MORALE

ALFREDO POGGI
(Sarzana-La Spezia 1881 - Genova 1974)

Trent’anni fa moriva Alfredo Poggi. Un pensatore “minore”, in quanto esponente di culture ritenute “minoritarie”, perchè non in mostra o in competizione, e anche perché bersaglio dell’ostracismo della cultura ufficiale, arroccata in quel tempo in grembo a quell’idealismo immanente che, al di là delle divergenze personali, accomunava ancora Croce e Gentile e, dopo di loro, i discepoli dell’uno e dell’altro. Questa condizione d’emarginazione e d’isolamento non sminuiva, però, la forza con cui il Poggi incideva nelle coscienze e operava nel tessuto sociale. Anzi, ne esaltava il coraggio e l’audacia. Significativo è il comportamento ch’egli tenne quando, alla fine del marzo 1943, morì un altro campione della libertà intellettuale e religiosa, Piero Martinetti, anch’egli – come lo stesso Poggi e pochissimi altri (tra cui Achille Pellizzari, Jacopo Ruffini, Giulio Einaudi, Della Vida, Giuseppe Rensi) - perseguitato e privato del diritto d’insegnare sulla cattedra universitaria, per il fatto che non si piegò a prestare il giuramento richiesto dal regime fascista quale condizione per mantenere l’insegnamento universitario. Poggi allora stese, senza indugi, nonostante e incurante delle difficoltà proprie di uno “sfollato”, un’agile e schietta monografia sull’amico scomparso, che uscì stampata “coi tipi dell’Officina Tipografica Vicentina di Vicenza il 7 agosto 1943”, nella collana “Quaderni di cultura moderna” nelle collezioni del Palladio della medesima Officina Tipografica. Questo volumetto di Poggi, che rimane quasi sicuramente il primo libro di filosofia scritto dopo il 23 luglio 1943, costituì uno dei primissimi documenti della ripresa filosofica dopo la caduta del fascismo. Scelta, perciò, veramente coraggiosa e audace, se si pensa a quanto un ventennio dopo confiderà Maria Federico Sciacca: anch’egli aveva redatto in quel periodo una monografia sul pensiero martinettiano e, non essendo riuscito a convincere l’editore a rinviarne la pubblicazione, vistesi recapitare nel novembre 1943 alcune copie, ne fermò la diffusione: “un volume su Martinetti nell’ottobre del ’43 – ci confida – non era una cosa pacifica; né io purtroppo (…) ho la vocazione dell’eroe” (M.F.SCIACCA, La religione nella filosofia di Martinetti, in “Giornata martinettiana” in “Filosofia”, Torino, 1964, fasc. 3°, pp. 374-375.).

Rimasto giovanissimo orfano di padre, Alfredo Poggi andò presso parenti a Palermo, dove frequentò gli studi, assimilando idee e programmi di Filippo Turati e Andrea Costa; nel 1904 si laureò in filosofia; seguì un corso biennale di specializzazione a Lipsia nella scuola di W. Wundt, dove ebbe l’opportunità di conoscere Bebel Kautski e Rosa Luxemburg; nel 1917 si laureò a Genova in giurisprudenza; insegnò filosofia nei licei, finchè, conseguita la libera docenza nel 1926 e vinto il premio di filosofia dell’Accademia dei Lincei nel 1930, cominciò a insegnare presso l’Università di Genova. Ma per pochissimo tempo. Infatti, rifiutatosi di prestare il giuramento richiesto, fu relegato a lavorare nei locali della biblioteca con un incarico secondario e superfluo: responsabile degli aggiornamenti della bibliografia ligure. Stava nel medesimo corridoio, in cui era stato “isolato” un altro grande campione della libertà, anch’egli destinato a quell’insignificante incombenza; era Giuseppe Rensi, definito dall’amico “ateo sitibondo di Dio”. Nel tempo libero (e doveva rimanerne non poco!) discutevano di problemi filosofici e politici. Nel 1941 (anno in cui Rensi morì in seguito a un intervento chirurgico) a chiusa dell’Introduzione alla traduzione della kantiana La religione entro i limiti della sola ragione, Poggi scrisse: “Mentre congedo le bozze ultime di questa prefazione penso con dolore che essa non sarà mai letta dall’amico Rensi, il quale attendeva con impazienza la comparsa della traduzione kantiana, ch’egli non potè assumersi, essendo preso da altri lavori. Egli era innamorato di questo libro, di cui lungamente discutemmo, e per lo stile involuto e per l’alto pensiero, nelle nostre quotidiane conversazioni mattinali, vicini d’ufficio come eravamo, nello stesso corridoio” (E. KANT, La religione entro i limiti della sola ragione, trad. it., Parma, Guanda Editore, 1941, p. 90). Visse persino l’umiliazione di doversi presentare come imputato presso il Tribunale speciale , al quale era stato deferito; conobbe l’isolamento di “Regina Coeli” e l’avvilimento di non vedersi riconosciuto il diritto alla difesa e qualunque altro diritto inerente alla dignità di uomo. In simili frangenti gli giunse la profferta di Benito Mussolini, da lui conosciuto personalmente ad Ancona: qualora avesse aderito al regime, avrebbe avuto assicurata una facile, rapida e “brillante carriera accademica”. Poggi dignitosamente rifiutò. Fu liberato per mancanza di motivazioni. La sua libertà morale gli consentì di nutrire sentimenti d’assoluta imparzialità tanto nei giudizi che nelle relazioni di amicizia, osservando sempre rispetto verso l’altro, ma rivendicandone sempre uguale concreta coerenza d’atteggiamento. “Chi ha sofferto per il trionfo della giustizia – scriverà – chi non ha mai offeso la libertà dei suoi simili, chi ha cooperato al miglioramento spirituale oltre che materiale della società (…) non avrà ragione né di temere nè di desiderare la morte, perché sente di avere in questa vita un compito da svolgere che egli non può disertare” (La preghiera dell’uomo. Discussioni di religione e filosofia, Milano, 1944).

Nel 1945 Poggi aveva vissuto già i suoi primi 64 anni: ma – come scriverà - terminava solo l’antifascismo “romantico” e iniziava quello “tragico” (Antifascismo tragico, in “Genova”, a. XXXII, n. 4, 1955, pp. 30-46): era quanto mai necessario lavorare e lottare per il risanamento morale del tessuto sociale italiano e per la costituzione di adeguati strumenti governativi e statuali. Della sua passata esperienza porrà a frutto ogni insegnamento, ma non verrà mai meno a due idee dominanti: la sacralità della dignità dell’uomo e la dimensione universale propria dell’esistenza di ciascun individuo: “Ecco il dovere del cittadino: non isolarsi, non essere indifferente al proprio o al male altrui, ma lavorare affinché la società sia per tutti veramente umana, retta da libertà e non da necessità, vita di esseri liberi e non di servi animali (…); compito che esige tutta la forza della nostra coscienza, la quale deve restare invulnerabile nella sua fede per la giustizia anche se l’odio del mondo le dovesse imporre i più duri sacrifici” (La preghiera dell’uomo. Discussioni di religione e filosofia, op. cit., p. 135). Riprese, pertanto, con vigore rinnovato i suoi impegni d’insegnamento e di studio: la sua vita durerà quasi un altro trentennio; ed egli continuerà a partecipare alla vita sociale e culturale dell’Italia fino agli ultimi anni, curando e pubblicando numerosi studi. Negli ultimi anni , in verità, preferì il riparo che gli davano gli affetti familiari e la corrispondenza con pochissimi amici; con loro ricordava quel passato glorioso e pieno di ideali sublimi, che nel presente vedeva traditi e condannati alla decadenza.

Poggi conseguì nel 1904 la laurea in filosofia discutendo la tesi su Kant e il socialismo. Nel titolo sono già prefigurati il suo itinerario intellettuale e il suo orientamento politico. Le sue convinzioni etiche si fondano sul pensiero kantiano; i suoi suggerimenti sociali e politici si nutrono delle dottrine socialiste e marxiane, secondo l’interpretazione che ne dava il contemporaneo Rodolfo Mondolfo, il quale s’accostò a Marx e al socialismo scientifico in generale con il proposito di evidenziarne la novità di pensiero nella continuità storica ch’egli riportava, passando attraverso l’idealismo tedesco, al liberalismo di Locke e al naturalismo di Roussaeu. In particolare è in Locke, secondo Mondolfo, che si trova il seme del socialismo. L’autore inglese, infatti, riconosce la proprietà collettiva, grazie alla sua distinzione tra la proprietà dei mezzi di produzione e proprietà dei prodotti. Per questo il Mondolfo rimane convinto fino alla fine che, seguendo la chiave interpretativa liberale, “Marx, con la sua filosofia della prassi, è (…) l’erede della filosofia classica della libertà, portata da lui alle più decisive conclusioni” (R. MONDOLFO, Presentazione a Da Ardirgò a Gramsci, Milano, Nuova Accademia 1962, p. XIV).

Alfredo Poggi abbraccia la concezione marxista del Mondolfo, che vede sostanzialmente umanistica, in quanto l’impulso e la forza del divenire della storia dell’umanità sono generati dalla libera e responsabile attività dell’uomo, che, immerso in contesti sociali e politici storicamente ben definiti, ne sente e ne subisce tutti i condizionamenti. E’ proprio dalla situazione reale che viene suggerita all’uomo l’azione veramente rinnovatrice e instauratrice di nuovi ordini sociali. A questo socialismo umanistico e attivistico Poggi unisce l’esigenza morale dettata dal kantismo, trasformando la marxiana “prassi rovesciata” in “pragmatismo storico”, secondo il quale il “concreto motore della storia” è il singolo uomo, grazie al suo “valore universale, agente per volontà, cosciente del fine”. Ciò non significa, per il Poggi, ridurre il problema sociale a problema morale, ma solo alimentare le dimensioni politiche con l’interiore moralità dell’uomo, senza della quale ogni movimento storico autentico è impossibile.

In netta opposizione all’interpretazione crociana del marxismo quale scienza economica, nello spirito dei neokantiani tedeschi, sulle orme dello spiritualismo ateistico di Alessandro Chiappelli e del volontarismo pragmatico di Luigi Credano e soprattutto con esplicito riferimento alle idee di tolleranza e libertà democratiche di Rodolfo Mondolfo, Alfredo Poggi sottolinea la necessità di non confondere Stato e Governo, come accade per i socialismi utopici, e di non sovrapporre le legittime competenze del partito e del sindacato, come si tentava di fare da parte di non sparuti gruppi di area anche socialista. Lo Stato, espressione della volontà morale della società, va assolutamente garantito: uno Stato senza consenso sociale è tirannico; una società senza Stato è anarchica: il diritto – kantianamente inteso – garantisce la vita consociata in forme democratiche e retta da organismi costituiti secondo legalità. Rifiutata la rivoluzione, il socialismo di Poggi è depurato da qualsiasi tentazione di reazione violenta, attesa o generata come nemesi storica degli avvenimenti e delle classi privilegiate; la meta è ampia quanto l’umanità: ogni nazione, conservando la sua identità, diverrà partecipe dell’universale vita di tutti gli Stati, uniti in un ideale cosmopolitismo omogeneo. Il proletariato non dovrà avvicendarsi – gramscianamente – nella gestione del potere, ma sarà strumento di giustizia e di libertà per tutti gli uomini e in tutte le dimensioni.