Pubblicato in Inncturae il 23 luglio 2020
La schiavitù peggiore, che possa
incatenare e dominare l’essere umano, è l’ignoranza di ciò che lo tiene schiavo.
Non s’intende qui affrontare il problema d’una possibile soluzione dell’antitesi
tradizionale tra «indeterminismo» e «determinismo», per fondarvi il libero volere
umano, ma si vuole solo tentare di analizzare e di comprendere - nel suo misterioso e sofferto travaglio - la
dinamica della vita intima d’ogni individuo, che vada alla ricerca della
possibilità d’un proprio vivere libero, perché incondizionato e, quindi, «felice». Acquisire chiara consapevolezza e prendere piena coscienza
di ciò che frena la capacità creativa dello spirito umano e debilita l’energia
vitale della sua volontà attiva è impresa ardua e irta di ostacoli. Questo vale
per i percorsi mirati a liberarsi sia dalle dipendenze d’origine esteriore sia dai
vincoli e dai legami interiori. La vita umana, infatti, dalla nascita alla morte,
è destinata a svolgersi in una rete d’inevitabili relazioni necessarie e
complicate, spesso simile a una ragnatela, dalla quale ogni uomo, in certi
momenti particolarmente impegnativi, vorrebbe uscire e liberarsi, al fine di
ripossedersi integralmente, per riprogrammare aggiornati e vagheggiati itinerari
di vita, ma spesso finisce coll’avvilupparsi in vincoli più stretti e dolorosi, a causa proprio del suo divincolarsi talora inconsulto e spesso anche dannoso. Ma l’uomo
aspira comunque a uno stato di vita, in cui possa sentirsi e viversi in piena
libertà; e in ciò pone ogni suo sforzo. Raggiungere, però, la completa liberazione
da ogni forma di dipendenza introduce l’uomo, nello stesso tempo, in una
situazione esistenziale tanto paradossale e assurda quanto reale e
consequenziale, qual è l’insorgere del tremore metafisico proprio della «solitudine
assoluta», che getta l’uomo in un insopportabile stato d’angoscia generale. Ciò
converte – soprattutto negli animi incapaci di padroneggiare e di gestire le nuove
e ignote responsabilità, che derivano dal riemergere della riconquistata
autenticità della vita - la ricerca della libertà in ricerca d’un nuovo legame
qualunque, purché sia di d’accompagnamento amichevole e di saldo sostegno.
A ben comprendere il dinamismo
di questi mutamenti della vita dello spirito umano sono d’insostituibile guida tre
studi di Erik Fromm (1900.1980), i quali, benché datati, rimangono tuttora molto
attuali e puntuali: Fuga dalla libertà del 1941, Psicanalisi della società contemporanea del 1955
e L’Arte d’amare del 1956. Nel primo volume, scritto al culmine dello
svolgimento della seconda guerra mondiale,
lo studioso tedesco osserva con disincantata e quasi scettica curiosità il
comportamento socio-emotivo degli uomini del tempo e nota come essi, proprio mentre
lottano contro l’assoggettamento ai regimi nazifascisti, nello stesso tempo, proiettandosi
nell’immediato futuro e percependosi liberi da «regole» da seguire e da «padroni»
cui obbedire, sono invasi da un’inconscia agitazione parossistica, che placano solo
desiderando e sognando nuove situazioni di subalternità, capaci di far superare
l’incombente stato di solitudine e di insicurezza. Erik Fromm, quindi, considerando
l’uomo in simile stato, lo vede necessariamente da una parte preda
d’un’appartenenza che lo blocca e lo intrappola e, dall’altra parte, sparuto frammento
vivente, insignificante e sospeso su un’ampia voragine che lo terrorizza.
Secondo il filosofo tedesco questo senso d’inspiegabile violenta fobia e d’insostenibile
incertezza angosciante, che immobilizza mente e anima, non è sopportabile per
lungo tempo, per cui ne indica le due possibili vie d’uscita: o avanzare con
ferma vigoria verso una piena e solida maturazione, o ricercare opportunamente un
nuovo «padrone», per il quale valga le pena continuare a vivere. Quest’ultima
sembra la via scelta dalla maggior parte degl’individui sia perché socialmente più
condivisa, sia perché psicologicamente meno problematica, sia perché socialmente più gratificante, almeno in apparenza
e nell’immediato. Ci sono, infatti, dipendenze ormai ritenute quasi
organicamente strutturate, che orientano e addirittura guidano il comportamento di singoli e di gruppi di persone,
fino a orientarne totalmente la vita. Basti pensare alle forme quasi mistiche di
lavoro frenetico, in cui ci s’impegna in ritmi maniacali: più si più lavora,
più si ha popolarità e potere, più si è apprezzati; o anche alla dipendenza - coltivata
con camuffata umiltà e ostentata come discrezione - è la ricerca della fama a
ogni costo: basta essere considerato «qualcuno»,
a prescindere da ogni riscontro valoriale oggettivo.
Uno
dei passaggi particolarmente significativi dello studio di Erik Fromm riguarda l’indicazione
delle vie da seguire per usufruire con profitto della libertà eventualmente riconquistata.
L’Autore suggerisce sostanzialmente tre
itinerari necessari e complementari: auto-analisi impietosa del proprio comportamento,
accettazione virile dei momenti dolorosi, creatività senza mania del successo. Cioè,
conoscere la propria umanità, rispettarla senza infingimenti e amarla. Lo
studioso, tuttavia, dopo quindici anni si dedica ad un’attenta «Psicanalisi
della società contemporanea», che – con occhio incredulo e con mente sgomenta -
vede dominata da uno stato «di malattia e di sofferenza», nonostante la
tempestiva ricostruzione socio-politica postbellica delle nazioni e il
«miracolo della crescita economica» osannata in nome delle teorie del capitalismo, facessero
immaginare tutt’altro. Fromm ne ricerca le cause probabili. Gli uomini, anziché curare e accrescere la propria creatività,
si sono dedicati alla produzione ripetitiva e per il maggior profitto
soprattutto economico; essi, pertanto, si sono gradualmente alienati da sé
stessi e sono divenuti, inconsapevolmente ma realmente, idolatri degli oggetti
che essi stessi hanno prodotto. L’umo, quindi, da «finalità ultima» dell’agire
umano, s’è trasformato in mezzo di produzione di «cose», le quali sono
divenute, così, il vero fine ultimo della vita e dell’agire dell’uomo nel
mondo. Il mondo è il dominio dell’uomo «reificato».
Quale la causa di questo sovvertimento di realtà e
di questa confusione di valori? Fromm ne indica, tra le altre, una – ovviamente
formulandola come ipotesi da verificare - nello studio pubblicato l’anno
successivo, intitolato significativamente «L’arte di amare». Il messaggio generale,
che il libro dovrà tramettere, è affidato all’eloquente citazione d’un aforisma
dello scienziato rinascimentale Paracelso: «Colui che non sa niente, non ama niente. La
maggiore conoscenza è congiunta indissolubilmente all’amore» (Citiamo dalla trad. it. di Marilena Damiani, Il Saggiatore, 1963, p. 7).
Quello che oggi l’umanità non conosce
è proprio la vera natura dell’amore: e fraintenderla significa «ricercare disperatamente»
quell’equilibrio – ovviamente instabile, come s’addice alla natura umana -, che
deriva solo da una prospettiva complessiva della vita, che con linguaggio
puntuale e univoco l’italo-tedesco Romano Gardini (1885-1968) chiama
«Totalità». La totalità dell’essere in generale e dell’animo umano in
particolare non è comprensibile mediante sottili ragionamenti o elaborate
ipotesi, così come la totalità della bellezza d’un dipinto multicolore chiuso
in una stanza non è conoscibile mediante lo scambio di dotte conversazioni, ma
basta aprire una finestra; la luce si fonde coi colori e la bellezza del
dipinto si manifesta agli occhi dell’osservatore. Così è per la totalità della
vita dell’animo umano. Basta amare con autenticità e il caos esistenziale si modificherà
– gradualmente ma realmente – in un cosmo ordinato e appagante.
Ma cos’è l’amore autentico. Per rispondere a questa
domanda, Fromm si sofferma prima a indicare cosa l’amore non è: non è «una
piacevole sensazione», non è la ricerca dei modi e delle tecniche «per essere amati», non è
trovare una persona o un ideale cui dedicarsi, e non è una «facoltà» da
coltivare. E’ un’arte, che, come l’arte medica e tutte le altre arti, va
appresa e aggiornata con fatica e costanza. E perché un’arte venga sempre più perfezionata, sottolinea Fromm, «non deve
esserci al mondo nulla di più
importante. Questo vale per la musica, per la medicina, per l’amore». E «Forse
- conclude il filosofo - qui sta la
risposta alla domanda perché la nostra civiltà cerca così raramente d’imparare
quest’arte a onta dei suoi fallimenti; nonostante la ricerca disperata dell’amore,
tutto il resto viene considerato più importante: successo, prestigio, denaro,
potere; quasi ogni nostra energia è usata per raggiungere questi scopi, e quasi
nessuna per conoscere l’arte dell’amore» (Ivi, p. 18).
Il disordine e l’infelicità dell’uomo contemporaneo
sono causati dal caos che regna nella Totalità: prospettive allettanti ma ingannevoli,
miraggi illusori pregustati come visioni
concrete e ideali aggiungibili. Per ristabilire l’ordine è necessario che
l’uomo, lungi dal farsi dominare dal «tremore metafisico», si reimpossessi
della sua vita e – paradossalmente – nell’intimità della sua solitudine
interiore- riscopra la capacità d’amare il più e meglio possibile, rispettando
la totalità nel suo insieme.