Una riforma della
scuola è giustificata da principi di ordine costituzionale (garantirne a tutti i
cittadini la possibilità di frequentarla), di ordine pedagogico (offrire nuovi
ordinamenti significativi e validi), e di ordine sociale (dotare la scuola di
collegamenti e collaborazioni con le dinamiche della vita sociale). Ecco,
allora, una preoccupazione di ampio respiro in occasione anche di
quest’ultima riforma definita “buona”. Infatti, la natura e il ruolo della
scuola ne fanno una realtà atipica, composita e del tutto speciale, per cui è
necessario un approccio prudente e adeguato da parte di tutti: famiglia,
società, politica, sindacati. E tutti debbono dare priorità ai diritti delle
nuove generazioni, che pretendono di godere delle possibilità concrete di
crescere in ogni direzione e al meglio. Una riforma vera ed efficace della
scuola dev’essere definita su misura delle esigenze delle nuove generazioni, e
non solo sui bisogni di qualche parte. Nemmeno dell’insegnante.
La scuola non
può essere ridotta ad ammortizzatore sociale, a sbocco occupazionale, a
serbatoio di clientele, a campi in cui mietere voti e preferenze. Al di là
della retorica, chi nei decenni passati si impegnava per “lavorare” nella
scuola era animato e determinato dalla passione di “costruire” esseri umani, rinunciando
a professioni notoriamente più redditizie e più ammirate dagli assetti sociali.
L’aula scolastica era vissuta con religioso rispetto e attenta deferenza, non
imposti da regolamenti, ma suscitati dalla autorevolezza dell’educatore.
E gli educatori
facevano anche allora anni e anni di “precariato”, spessissimo recandosi dal
Sud al Nord: andavano precari e ritornavano presidi, come allora si chiamava il
dirigente scolastico. E il servizio da precario non dava alcun diritto, oltre a
quello dello stipendio, che costituiva un obiettivo dell’insegnante, ma non
certo il principale. Per salire in cattedra si sostenevano dure e lunghe prove concorsuali
scritte e orali: e all’orale si doveva andare tutti a Roma, con le valigie
stracolme dei classici italiani, latini, greci, filosofici, ecc. E dopo un anno
d’insegnamento si era valutati e confermati.
Per chi ha
vissuto quei tempi, è naturale che in questi giorni rimanga incredulo di fronte
a tanto parlare e rivendicare riguardo l’immissione in ruolo di migliaia di
precari. “Stiamo parlando – ha sostenuto il ministro dell’istruzione - di
muoversi per lavorare e non per una prospettiva temporanea, ma per dare stabilità
alla propria esistenza. E non per un capriccio del ministero, ma per esigenze
di domanda e offerta”. Ora, domanda e
offerta coinvolgono in primo luogo gli studenti, che hanno il diritto di avere
docenti preparati culturalmente e ben disposti umanamente. Ma un “precario”
frustrato, che si sente esiliato, ricattato, umiliato può far ben sperare in un’azione
educativa e formativa valida?
La “buona scuola”
si sostanzia e si regge in primo luogo sui “buoni educatori”. Sistemare
contratti occupazionali, ammodernare strutture e aule, aggiornare laboratori e
palestre, revisionare profili e competenze sono senz’altro azioni necessarie e
utili. Ma da sole non garantiscono una scuola buona. Un edificio scolastico modernissimo senza l’insegnante
interessato ed entusiasta resta soltanto un monumento da ammirare. Ci vuole una
riforma che pensi ai risvolti economici e alle esigenze organizzative, ma soprattutto
che rivaluti la funzione sociale dell’istituzione scolastica, che ricrei la riconsiderazione
e la riqualificazione del ruolo dell’insegnante, che rivendichi la autonomia
sostanziale della programmazione. E questo non pare sia perseguito né con i
vari attuali provvedimenti legislativi né con le assunzioni a tempo indeterminato
di migliaia di “precari”.