Il Tempo, in sé fluire di momenti transeunti che vanno accolti, si apre a un "oltre" custode Eterno di valori trascendenti che vanno abitati. Vicende e realtà tendono alla suprema fusione nell'infinita Totalità, anima di ogni Speranza.

venerdì 2 ottobre 2015

DOVE VA LA SCUOLA ITALIANA?

Pubblicato da Affaritaliani il 5 settembre 2015
 
E’ universalmente condiviso che il grado di civiltà di una nazione si misura soprattutto dalla cultura del suo popolo. Ovviamente la cultura non è solo quella che viene trasmessa nelle aule scolastiche; nondimeno la scuola è sempre stata e continua a essere una delle principali agenzie educative e formative, in quanto, oltre a disporre di strumenti didattici sempre nuovi e oltre a fruire di metodologie tempestivamente aggiornate, conta sulla presenza fisica dell’insegnante, che comunica anche impressioni ed emozioni squisitamente umane. Non si possono dissimulare, quindi, l'importanza e la gravità del compito affidato all’insegnante sia nella trasmissione dei contenuti e sia soprattutto nella formazione intellettuale e morale delle generazioni future, che le famiglie e la società gli affidano. Chi conosce la scuola italiana, però, ne accusa un forte regresso negli ultimi 30 anni, dovuto anche ai vari interventi di riforma apportati spesso con improvvisazione. In verità, per tanti decenni nell’Italia repubblicana s’è tentata una riforma della scuola, che ne segnasse davvero una svolta storica; ma s’è concluso sempre col produrre qualche ritocco marginale e talora persino negativo. 

Una riforma della scuola è giustificata da principi di ordine costituzionale (garantirne a tutti i cittadini la possibilità di frequentarla), di ordine pedagogico (offrire nuovi ordinamenti significativi e validi), e di ordine sociale (dotare la scuola di collegamenti e collaborazioni con le dinamiche della vita sociale). Ecco, allora, una preoccupazione di ampio respiro in occasione anche di quest’ultima riforma definita “buona”. Infatti, la natura e il ruolo della scuola ne fanno una realtà atipica, composita e del tutto speciale, per cui è necessario un approccio prudente e adeguato da parte di tutti: famiglia, società, politica, sindacati. E tutti debbono dare priorità ai diritti delle nuove generazioni, che pretendono di godere delle possibilità concrete di crescere in ogni direzione e al meglio. Una riforma vera ed efficace della scuola dev’essere definita su misura delle esigenze delle nuove generazioni, e non solo sui bisogni di qualche parte. Nemmeno dell’insegnante.  

La scuola non può essere ridotta ad ammortizzatore sociale, a sbocco occupazionale, a serbatoio di clientele, a campi in cui mietere voti e preferenze. Al di là della retorica, chi nei decenni passati si impegnava per “lavorare” nella scuola era animato e determinato dalla passione di “costruire” esseri umani, rinunciando a professioni notoriamente più redditizie e più ammirate dagli assetti sociali. L’aula scolastica era vissuta con religioso rispetto e attenta deferenza, non imposti da regolamenti, ma suscitati dalla autorevolezza dell’educatore. 

E gli educatori facevano anche allora anni e anni di “precariato”, spessissimo recandosi dal Sud al Nord: andavano precari e ritornavano presidi, come allora si chiamava il dirigente scolastico. E il servizio da precario non dava alcun diritto, oltre a quello dello stipendio, che costituiva un obiettivo dell’insegnante, ma non certo il principale. Per salire in cattedra si sostenevano dure e lunghe prove concorsuali scritte e orali: e all’orale si doveva andare tutti a Roma, con le valigie stracolme dei classici italiani, latini, greci, filosofici, ecc. E dopo un anno d’insegnamento si era valutati e confermati. 

Per chi ha vissuto quei tempi, è naturale che in questi giorni rimanga incredulo di fronte a tanto parlare e rivendicare riguardo l’immissione in ruolo di migliaia di precari. “Stiamo parlando – ha sostenuto il ministro dell’istruzione - di muoversi per lavorare e non per una prospettiva temporanea, ma per dare stabilità alla propria esistenza. E non per un capriccio del ministero, ma per esigenze di domanda e offerta”.  Ora, domanda e offerta coinvolgono in primo luogo gli studenti, che hanno il diritto di avere docenti preparati culturalmente e ben disposti umanamente. Ma un “precario” frustrato, che si sente esiliato, ricattato, umiliato può far ben sperare in un’azione educativa e formativa valida?  

La “buona scuola” si sostanzia e si regge in primo luogo sui “buoni educatori”. Sistemare contratti occupazionali, ammodernare strutture e aule, aggiornare laboratori e palestre, revisionare profili e competenze sono senz’altro azioni necessarie e utili. Ma da sole non garantiscono una scuola buona. Un edificio  scolastico modernissimo senza l’insegnante interessato ed entusiasta resta soltanto un monumento da ammirare. Ci vuole una riforma che pensi ai risvolti economici e alle esigenze organizzative, ma soprattutto che rivaluti la funzione sociale dell’istituzione scolastica, che ricrei la riconsiderazione e la riqualificazione del ruolo dell’insegnante, che rivendichi la autonomia sostanziale della programmazione. E questo non pare sia perseguito né con i vari attuali provvedimenti legislativi né con le assunzioni a tempo indeterminato di migliaia di “precari”.

 

 

1 commento:

Anonima ha detto...

Forse questa dimensione è il risultato di una gigantesca rivoluzione silenziosa introdotta dalla scienza e ancor di più dalla tecnica, in base alla quale si "ragiona" molto con la testa sulle spalle e si dialoga poco. Non ammettiamo che esistano contraddizioni e realtà molto più complesse di quanto non sia il dualismo "acceso-spento/si-no" di una macchina o un computer, tant'è che probabilmente la scuola è divenuta una delle vittime più evidenti della ricerca affannosa di una risoluzione immediata e univoca, nella stessa modalità in cui si muoverebbe un calcolatore.
In classe, ricordo, che si parlava spesso di "struttura" come parola di un certo valore. Ecco, a mio modo di vedere, manca la struttura, proprio intesa come un insieme di singoli elementi tale che, al venir meno di anche solo uno di essi, la struttura non avrebbe senso nella sua interezza. Se rigidamente si intraprende la strada della difesa del precariato, si "salvano" i precari, certamente la soluzione univoca e ragionevole al problema "come sistemare i precari", ma dacché la questione scolastica è molto più complessa e con tante variabili, come direbbero i matematici, la soluzione non può essere univoca. E il dialogo dov'è? E la valutazione dell'adeguatezza a poter intraprendere il dialogo col discepolo? Si tratta di elementi che possono facilmente essere smarriti per strada: la struttura non regge.
Tanti cari saluti, Giada