Il Tempo, in sé fluire di momenti transeunti che vanno accolti, si apre a un "oltre" custode Eterno di valori trascendenti che vanno abitati. Vicende e realtà tendono alla suprema fusione nell'infinita Totalità, anima di ogni Speranza.

sabato 18 dicembre 2021

 

IL POSTPANDEMIA: 

CIVILTÀ DEI CONSUMI O CIVILTÀ DELL’UOMO

 

In questi ultimi tempi, aggrediti e dominati dalla virulenta pandemia del Covid-19, che col suo variare repentino e imprevedibile sembra non lasciare facile scampo all’umanità dell’intero pianeta Terra, s’assiste quotidianamente  un po’ ovunque, ma soprattutto nei Paesi del Vecchio Continente  e, quindi, anche in Italia - attraverso i numerosi e vari mezzi di comunicazione - alla girandola di notizie che ci travolgono riguardo allo stato dell’infezione sanitaria e alle conseguenti criticità sociali causate dalla particolare congiuntura economico-finanziaria dei vari Stati. Ogni comunicazione si conclude sempre con un’analisi dettagliata dell’andamento epidemiologico, con un accorto commento alle statistiche sanitarie e con qualche azzardata previsione in campo economico-finanziario. Ma è su quest’ultimo aspetto, tuttavia, che s’appunta maggiormente l’attenzione generale dei responsabili dei governi delle nazioni, i quali indugiano con responsabile prudenza a offrire ai popoli un quadro della situazione certamente realistico, ma anche aperto a cauto ottimismo, onde attenuare i diffusi sentimenti di sfiducia e di paura. Con quest’atteggiamento, assolutamente comprensibile e apprezzabile, si  vela, comunque, quella che è la principale vera preoccupazione che agita il pensiero dei potenti del mondo: la dimensione economica delle nazioni è vissuta, di fatto, come il primo problema umano e sociale generato dalla crisi sanitaria e che deve essere affrontato con decisione e risolto con tempestività. La crisi sanitaria, quindi, genera la crisi economico-finanziaria, da cui derivano le situazioni problematiche dei consumi e delle produzioni e, di conseguenza, delle opportunità lavorative e occupazionali.

In verità, sono tutti elementi costitutivi della vita umana e sociale e, quindi, momenti essenziali della consueta quotidianità tanto dei singoli quanto delle collettività. Si tratta, pertanto, di aspetti assolutamente sostanziali e ugualmente necessari della vita dei popoli e delle nazioni. Però, a ben considerarli in sé stessi e tentare poi di riscontrarne il rispetto da parte dell’azione  dell’odierna politica - caduta in balìa degli avversi nazionalismi e partitismi e corredata perlopiù solo di miopi e grette mire egoistiche e personalistiche del tutto  ignare del bene comune – si rivelano deficitari, in quanto parziali, insufficienti e gravemente inadeguati per una visione concettuale e fattuale, che ambisca a essere davvero integrale umanamente e dalle ampie dimensioni del mondo universale. L’odierna crisi pandemica, infatti, è globale e coinvolge tutte le realtà umane e sociali, a partire dall’alto dei mercati finanziari, per finire a condizionare pesantemente e determinare incisivamente l'economia reale, con la quale il popolo fa e deve fare i conti quotidianamente, con l’animo tremante, perché pendulo tra timori e speranze, tra diffusa confusione d’incertezze e fuggevoli sprazzi di lucidità angosciante, tra calma padronanza di sé e malcelata ira contenuta e sorda. E’ la vita concreta che ogni giorno sostiene la gente - rapportata alle laute negoziazioni dei mercati finanziari - che costringe a ripensare alcuni concetti fondamentali e ad aggiornare alcuni atteggiamenti comuni alla base della relazione tra economia, finanza, lavoro e sviluppo.

Negli ultimi tempi da più parti s’immagina e si progetta - anche e a giusta ragione – un probabile assetto delle nazioni e delle società nel prossimo futuro post-pandemico, e l’attenzione generale è volta soprattutto all’individuazione del come spendere le risorse da destinare ai diversi settori. Il suggerimento dominante è di cogliere l’opportunità e non sprecare energie per ottenere aggiornamenti e modernizzazioni; e dai diversi schieramenti politici e corpi sociali produttivi si snocciola un caldeggiato elenco magico di obiettivi: ripartenza, sostenibilità, transizione ecologica; ovviamente con l’occhio sempre puntato al Prodotto Interno Lordo. Tutti questi obiettivi sono da perseguire assolutamente, in quanto  necessari per la strutturazione della vita umana consociata; ma, così come sono proposti e perseguiti, rischiano di oscurare le finalità primarie e gli obiettivi fondamentali richiesti dal nuovo corso storico, che attende ogni cittadino spettatore e testimone di questa sciagurata calamità. Superare, infatti, l’emergenza sanitaria e risolvere al meglio la congiuntura economica significa solo aver mirato a modernizzare il futuro, senza favorirne nello stesso tempo il processo altrettanto vitale di civilizzazione e acculturazione, così come è sancito nella Costituzione Italiana, costantemente vigile e attenta a garantire e proteggere il benessere d’ogni cittadino in qualunque situazione sociale si trovi. Oggi viviamo in tempi di strabilianti innovazioni, ma anche di inquietanti forme di schiavitù salariale, sociale, tecnologica. Sono queste le dimensioni esistenziali, che rivendica e reclama il dovere civico e morale della giustizia sociale e della verità.

 Giova ricordare a questo riguardo quanto raccomandò già nel 1969 Aldo Moro: «Sia dunque ben chiaro che, quando si parla di un giusto controllo dell’economia e di rapporti umani, su base di autonomia, dignità e responsabilità nell’ambiente di lavoro, non si discute solo di efficienza produttiva, ma di condizione sociale della persona, di qualche cosa che va al di là della pur naturale rivendicazione di benessere e della giustizia, per toccare la posizione dell’uomo ed il suo modo di essere, il solo accettabile ed appagante, nella società. (…).  Si riscatta la persona dall’inquietudine e dallo scontento, che il solo benessere non riesce a placare. In una tale condizione c’è un lavoro da compiere ed una disciplina da accettare. Ma è importante e caratterizzante che in essi si esprima l’uomo non come servo della macchina, della tecnica, dei padroni, del potere, ma come libero e responsabile protagonista d vita sociale e politica».

 

 

 

venerdì 8 ottobre 2021

 

 LA RICERCA DEL SENSO DELLA VITA
tra assurdo e assurdità del non-senso

 

Che si esista è un dato fattuale chiaro ed evidente e, quindi, indubitabile e indiscutibile. L’inizio (con la nascita) e la fine (con la morte) d’ogni esistenza sono ugualmente realtà perlopiù ignote, ma concretamente sicure, certe e incontrovertibili: niente e nessuno sa come e quando si nasce, ma tutti e ciascuno ci si scorge improvvisamente gettati nel mondo degli esistenti e dei viventi e, pertanto, necessariamente destinato anche a uscirne fuori e scomparire - un qualche giorno talora desiderato e invocato, ma sempre paurosamente atteso e intimamene temuto - in qualche abissale voragine nascosta e  ignota, ma che tutto fagocita e divora.

Una vita, dunque, consiste sostanzialmente nell’arco di tempo compreso tra il momento della nascita e dell’apparire e il momento della morte e dello scomparire: itinerario evolutivo destinato per tutte le realtà singole e collettive. E’ in questo spazio temporale che si generano, avvengono, si affrontano e si giocano tutte le partite d’ogni esistenza. E ogni accadimento occupa e consuma una particella di tempo: lunga e d’ampio respiro o piccola e di breve durata, pur sempre una porzione costitutiva del patrimonio temporale - ben pre-determinato - da ogni realtà ricevuto in dotazione. Questo vale per il singolo individuo, per le varie forme associative di vita e di comunità di persone e di popoli, nel loro susseguirsi e nel loro mutare nel tempo. Per tutte le realtà l’esistenza è fondamentalmente il poter e voler conoscere veramente il senso del proprio essere sulla terra e realizzare totalmente se stessi durante l’inesorabile silenzioso scorrere e consumarsi del tempo a lui concesso, ma forse tendente verso l’infinito.

L’esistente umano, in particolare, per ricercare e trovare un qualche senso attinente o pertinente alla sua vita, ha almeno tre vie alternative, che può imboccare e percorrere. La prima: chiedersi e tentare d’indovinare quando, come e perché è pervenuto alla sua esistenza nel mondo; la seconda: indagare per quale causa agente e per quale nuova ignota destinazione - finalizzata o casuale - debba estinguersi e sparire dal pianeta terrestre. Cioè, può avviare e sostenere il suo itinerario d’indagine esistenziale, o partendo dal mistero talora angosciante della sua nascita o meditando sull’ineluttabile cogente necessità della sua morte. Rimane, altresì, una terza via: intuire con lucidità di mente e accettare con virile fermezza di volontà il senso rintracciato in un’indagine compiuta nella solitudine interiore del suo spirito; insinuarsi, poi, e penetrare con audacia nelle pieghe del proprio animo, per riconoscere e accogliere ogni risultanza della sua riflessione meditata riguardante il significato emerso del suo esistere nel presente, ora e in sé stesso, senza ricorrere all’ausilio di probabili termini di relazione certamente utili, ma pericolosamente fuorvianti. Soprattutto l’uomo, infatti - quale essere dotato di libera riflessività razionale, per nulla passiva e istintuale - deve avere il coraggioso ardire di non accontentarsi di comode elucubrazioni spesso inconcludenti, che servono solo ad allontanare pressanti scomode domande e addirittura a mistificare esigenze intime e profonde. E’ facile e appagante accogliere acriticamente le nobili voci dei vari credo religiosi, come è esaltante aderire agli ultimi dettami della cultura dominante e delle valide conquiste della scienza. All’uomo, però, che si limita a nutrirsi solo o soprattutto delle risultanze del mondo a lui esterno, sfugge il senso vero del vivere suo e del cosmo, in cui si trova collocato. Lo turba di continuo e agita la sua mente l’ombra sfuggente ma onnipresente del non-senso e, quindi, dell’assurdità di tutto, ch’egli respinge e allontana dal suo animo. Nello stesso tempo, però, sente che il non-senso non è meno assurdo della stessa assurdità: un senso deve esserci in ogni realtà e l’uomo ad esso anela e lo trova solo quando riesce a separarsi  momentaneamente dal mondo a lui esterno e si ripiega nella solitudine interiore del proprio essere: lì trova il senso vero che sinceramente desidera e onestamente ricerca.

Solo così l’uomo scoprirà che il senso e il valore d’ogni vita non provengono né gli sono dati dall’esterno, che non sono un dato oggettivo, che solo il mondo custodisce ed elargisce a suo insindacabile volere, assegnando all’umanità il compito di rispettare e onorare ciò che a essa è destinato, evitando il blasfemo atto dell’inutile disubbidienza, con cui si dissacra la presunta verità e si genera disordine e caos. Al contrario, è l’uomo che proietta sul mondo valori e significati, che la sua mente razionale germina e la sua libera volontà di uomo determina. Ne deriverà e si consoliderà una vita umana animata e pervasa da un perenne e vitale afflato di sacralità, con cui si genera, si sostanzia e si orienta l’autentica dimensione della solidarietà umana universale. Ogni senso autentico, infatti, si cova nell’intimità della libera coscienza personale; e non c’è tesoro più prezioso del senso esistenziale personale intuito audacemente e custodito gelosamente in se stessi. Essere parte del genere umano, essere attore delle proprie scelte e co-attore dell’intera vita del cosmo, padroneggiare il sentimento della solidarietà naturale, intuire e testimoniare il proprio insostituibile ruolo nella storia dei tempi sono il tesoro covato e scoperto nella sacralità della propria coscienza. Questa inviolabile sacralità non è, quindi, un momento della coscienza umana, ma un elemento costitutivo e, perciò, organico della struttura stessa della coscienza, totalmente connessa allo sforzo che l’uomo compie per costruire un mondo che abbia un senso. Il significato della realtà, quindi, non è un dato oggettivo che si trova e si accetta, ma un valore che l’uomo proietta e pone in realtà, che percepisce come vuote e insensate. Il senso del mondo, quindi, è quasi una proiezione della totalità della persona umana integralmente vissuta.

 

venerdì 11 giugno 2021


IN ITALIA NON CI SARA’ FUTURO INTEGRALE SENZA LE DONNE

In Finlandia Sanna Marin a 34 anni è Primo Ministro 

 

Pubblicato in Presenza Taurisanese, maggio-giugno 2021, n. 328, p. 13

 

In Italia la popolazione femminile costituisce più della metà dei cittadini. Ogni cittadino italiano – secondo l’esplicito dettato della Carta Costituzionale - contribuisce attivamente alla vita della Nazione mediante “L’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale” (art. 2). Questo dovere fondamentale e inderogabile non ammette eccezioni o deroghe per alcun motivo, in quanto la Repubblica  proclama la pari dignità dei suoi cittadini e riconosce loro indistintamente i medesimi diritti, ma esige da ciascuno l’assolvimento dei rispettivi doveri: “Tutti i cittadini – è sancito solennemente nell’articolo 3 – hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”. Il cittadino italiano, quindi, che legittimamente usufruisce – indipendentemente dalle diversità personali e sociali -  dei diritti garantitigli, non può non adempiere – secondo le sue possibilità e nel rispetto delle le diversità personali e sociali - ai doveri richiestigli, poiché sarebbe un fatto, oltre che contrario al dettato costituzionale, anche gravemente lesivo della integralità della persona umana, in quanto depriverebbe i propri concittadini del contributo dovuto e, pertanto, depaupererebbe tutta la Nazione economicamente e soprattutto moralmente e culturalmente. Analizzando la situazione reale  in Italia, sembra che le donne – che sono, appunto, oltre la metà della popolazione – non sono messe nella possibilità concreta di offrire totalmente e liberamente il proprio contributo adeguato alle loro capacità, determinando, così, uno spreco ingiustificato e dannoso di energie collaborative e costruttive.

 

A queste puntualizzazioni s’è spinti, quando si voglia considerare e valutare il ruolo riservato e assegnato alle donne italiane, oggi, nelle varie attività socio-economiche del Paese, nelle decisioni politiche e nel mondo della cultura e della ricerca. Ad accendere la curiosità e a suscitare l’interesse degli spiriti più attenti sono state le reazioni italiane registrate in occasione della nomina, circa un anno fa, alla carica di Primo Ministro della Finlandia di Sanna Marin. Improntate a stupore e ammirazione, si levavano voci piuttosto fioche, che avevano il sapore soprattutto della meraviglia e dell’attesa. Molti sapevano e sottolineavano solo il fatto che si trattava di una donna e che era una donna giovane, pochi andarono alla ricerca, per acquisire o approfondire conoscenze utili e illuminanti sulla vicenda umana e sull’esperienza politico-amministrativa, grazie alle quali la neoeletta Premier s’era proposta all’attenzione dei parlamentari finlandesi, che non hanno avuto perplessità a porre nelle sue mani la guida del Governo Nazionale. Sanna Marin, di 34 anni, dopo la regolare frequenza delle Scuole Superiori, frequenta l’Università di Tampere, conseguendo nel 2007 (a ventidue anni) la Laurea in Scienze dell’Amministrazione; nello stesso anno viene eletta nel Consiglio Comunale di Tampere, ricoprendo la carica di Presidente del Consiglio Comunale. Negi ultimi anni è stata vicepresidente dei socialdemocratici finlandesi e parlamentare. E’ madre d’una bambina avuta dal compagno storico. Emerge la figura di una donna umanamente costruitasi su solide fondamenta, di una professionista competente e responsabile e di una cittadina eticamente indiscutibile e politicamente formatasi per mezzo di esperienze compiute con la necessaria gradualità e con esiti positivi puntualmente verificati. Un esempio degno di emulazione.

 

Sarebbe quanto mai opportuno, ora, considerare quali opportunità reali hanno le donne in Italia d’intraprendere e concludere percorsi formativi teorico-pratici di cultura civica, che consentano loro – oltre all’accesso in carriere esecutive o impiegatizie - di cimentarsi personalmente in compiti di responsabilità, di assumere direttamente iniziative impegnative, di affrontare rischi e pericoli d’un’impresa. Ed anche: di acquisire un consistente patrimonio di dottrina e di pratica necessario per scegliere di sobbarcarsi a cariche pubbliche politico-amministrative. In Italia, di fatto, le donne presenti nell’agone politico-amministrativo sono un numero molto esiguo e perlopiù relegate a ruoli secondari e comunque sostanzialmente gestiti da figure maschili, per cui risalta chiaramente la disparità numerica e qualitativa tra i generi e la scarsa possibilità di rappresentare i problemi relativi ai diritti-doveri delle donne.

 

Nonostante ciò, oggi, in considerazione degl’inconfutabili miglioramenti nella valutazione delle donne, s’è portati a ritenere risolto il problema dell’uguaglianza tra i generi; in realtà, però, se si considera – oltre alla crescente partecipazione femminile nel campo del lavoro, dell’insegnamento e della cultura - la presenza delle donne nelle sedi, in cui si prendono decisioni nei settori della finanza, dell’economica e della politica, ci si rende conto che di fatto – contro ogni dettato e auspicio dei Padri Costituenti - l’uguaglianza tra uomini e donne è ben lontana dall’essere acquisita. In tutti i settori della vita lavorativa nazionale, infatti,  gli uomini tendono ad occupare le posizioni di maggior potere; nelle organizzazioni i vertici aziendali e i dirigenti sono perlopiù uomini; nelle istituzioni politiche il numero di donne è sempre molto inferiore a quello degli uomini. Eppure i Padri Costituenti hanno definito e sancito alcuni Principi Fondamentali rimasti sinora nell’ombra o addirittura del tutto ignorati. Ciò costituisce – oltre a una notevole ingiustizia sociale moralmente biasimevole - un grave vulus giuridico, che dev’essere sanato, perché il Paese possa essere davvero annoverato tra quelli realmente progrediti. Tra i Principi Fondamentali della Costituzione, infatti, nell’articolo 3, dopo la dichiarazione della pari dignità e uguaglianza tra i generi, è sancito il compito della Repubblica a “rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale”, che creano disparità e impediscono lo sviluppo personale e “l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”.

          Questo fondamentale dettato costituzionale sarebbe stato destinato a rimanere nel mondo delle nobili aspirazioni, se i Costituenti non avessero indicato anche le vie concrete per la sua realizzazione. Trattando, infatti, dell’ambito dei “Rapporti Politici” – che è il luogo, in cui in sostanza viene presa la maggior parte delle decisioni, che condizionano e orientano le scelte importanti e gl’indirizzi qualificanti della varia e complessa vita d’un popolo – la Carta nell’articolo 51 stabilisce: “Tutti i cittadini dell’uno o dell’altro sesso possono accedere agli uffici pubblici e alle cariche elettive in condizioni di eguaglianza”.  E quasi interpretando possibili dubbi e dannose incertezze, per non lasciare spazio a tentazioni fuorvianti e, comunque, per  bloccare ogni cavillo o pericolo di fraintendimento, si chiama in causa direttamente la Repubblica, assegnandole il dovere non solo di riconoscere e garantire i diritti sociali e politici anche delle cittadine, ma anche di   “promuovere con appositi provvedimenti le pari opportunità tra donne e uomini” (art. 51). E, in verità, provvedimenti legislativi in tal senso sono stati indubbiamente prodotti, ma finora non sono stati in grado di incidere significativamente sulla condizione e sulla partecipazione delle donne alle attività della Nazione. Basti osservare le presenze femminili nel Parlamento (solo un centinaio di donne su 945 membri) e negli Enti Locali (solo un quinto delle presenze maschili). Eppure in Italia non potrà esserci davvero un futuro globalmente inclusivo e integralmente umano senza la giusta valorizzazione delle energie e delle risorse del genere femminile.

 

          Nella Costituzione, infine, vengono chiaramente indicati il mezzo adatto e il modo concreto, perché ogni cittadino – uomo e donna - possa partecipare concretamente e agire efficacemente nella vita socio-economica e e politica della Nazione. A tal fine, infatti. fu stabilito: “Tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti, per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale” (art.50). Ovviamente i Padri Costituenti pensavano al partito quale luogo, in cui i cittadini d'ogni ceto sociale – in costante cooperazione con i movimenti femminili e giovanili – discutevano con responsabilità e libertà problematiche del momento, di parte e d’interesse generale, e proponevano democraticamente ipotesi risolutive, ciascuno in coerenza con i propri valori umani e e le proprie convinzioni politiche e civili. La progressiva trasformazione negli ultimi decenni della natura specifica e delle finalità affidate al partito originario, pone problemi nuovi, che richiedono riflessione e autocritica.