Il Tempo, in sé fluire di momenti transeunti che vanno accolti, si apre a un "oltre" custode Eterno di valori trascendenti che vanno abitati. Vicende e realtà tendono alla suprema fusione nell'infinita Totalità, anima di ogni Speranza.

lunedì 4 gennaio 2016

IL «GRAZIE» DI MONTALE AL PREMIO NOBEL 40 ANNI DOPO

Dal Corriere della Sera del 24 ottobre 1975, dopo l’annuncio.
(dal testo di Giulio Nascimbeni)


Ore 13 di ieri, al terzo piano di via Bigli 15, nella casa di Eugenio Montale, suona il telefono. Risponde la Gina (Gina Tiossi, un discreto personaggio di governante che da quasi 40 anni vive accanto a Montale). Il poeta sta fumando in compagnia di due amici del Corriere, Gaspare Barbiellini Amidei e chi scrive. La Gina entra nel salotto: «Chiamano dall’ambasciata di Svezia», dice. Montale si alza dalla poltrona con un po’ di fatica, spegne la sigaretta, si appoggia al braccio della Gina, va al telefono.

«Oui, monsieur… Je suis très heureux de faire votre connaisance». Dall’altra parte del filo c’è l’ambasciatore. La serie degli oui si sgrana fitta e continua. Poi comincia quella dei merci. La scena ha una castità e una semplicità straordinarie. Le pareti della casa sono vuote: i quadri non sono ancora stati riappesi dopo l’estate. L’annuncio del premio Nobel avviene nella piccola anticamera che precede la cucina, tra un vecchio frigorifero la porta del bagno di servizio. Montale con una mano si appoggia a una maniglia. Dice ancora una volta merci. Riattacca. La Gina lo bacia sui capelli, poi gli domanda: «Andiamo a tavola?». In cucina sono pronti il riso all’olio e due polpette con l’insalata.

La prima poesia. Montale chiede un piccolo rinvio: «Fumo un’altra sigaretta con questi miei amici. L’ambasciatore mi ha raccontato che scrive poesie anche lui». Torna a sedersi. «Dovrei dire cose solenni, immagino. Mi viene un dubbio: nella vita trionfano gli imbecilli. Lo sono anch’io?». Si sentono altri squilli del telefono. Alla porta c’è un inviato della televisione svedese. «Ciao, dice, adesso mangio, poi vado a riposare». Da tre ore Montale era in attesa. Il giorno prima, mercoledì, uno dei suoi traduttori in svedese, il Prof. Oreglia, lo aveva avvertito che l’assegnazione del premio era ormai sicura al 90%.«Come ha passato la notte?». Gli chiedo. «Con la mia solita insonnia. È sessant’anni che ne soffro. Il Nobel non c’entra», risponde. «Degli altri probabili vincitori cosa pensa?». «Ho saputo che c’era anche Simone De Beauvoir. Dicono che sia una donna terribile. Come fa Sartre a starle insieme da tanto tempo?». Sono le undici, da Roma è arrivata una giornalista svedese, Martha Larsson. Deve tracciare una rapida biografia del poeta. Si comincia dalla data di nascita: 12 ottobre 1896. «Ho scritto la mia prima poesia a 5 anni. La ricordo perfettamente: Il vaso era il posto noto – né pieno né vuoto». A poco a poco avviene una metamorfosi abbastanza consueta quando si intervista Montale.

La sua insaziabile curiosità delle cose della vita, che è una specie di reazione alla solitudine di cui si è sempre circondato, lo porta a essere lui l’intervistatore. Alla Larsson che gli chiede se ha lettori in Svezia risponde: «Sì, mi mandano delle cartoline con slitte trainate da cani. Ma come risolvete i problemi del riscaldamento con tutto quel freddo? In quanti siete? È vero che da voi non c’è modo di sfuggire alle tasse?». La giornalista gli risponde che è vero. «Allora il vostro governo non piacerebbe agli italiani», commenta Montale. La Larsson insiste: «Cosa ne pensa della situazione italiana?». La risposta è: «Finirà bene. Non ho mai visto un Paese che muore perché un bilancio è in passivo. Mio padre, ai primi del secolo, diceva sempre: “È una catastrofe, non si può andare avanti”. Sono passati più di 70 anni. I discorsi sono sempre uguali. Solo al tempo del fascismo non si faceva perché non si poteva parlare. Adesso siamo forse arrivati all’eccesso opposto: Dal mutismo alla logorrea». La Larsson vuole condurlo a pronunciarsi sul problema dell’aborto. Risponde: «Non siamo molto bravi a interpretare le leggi. Quando è arrivato il divorzio, molti hanno creduto che fosse obbligatorio. Adesso c’é il pericolo che tutte le donne si sentano obbligate ad abortire. Ma è vero che in Svezia non ci sono poveri?».

Stoccolma, 10 dicembre 1975, nel Salone della Fiera Campionaria si svolgono le prove della cerimonia di consegna del Premio Nobel: gli undici candidati, a turno, devono avanzare verso re Carlo Gustavo di Svezia e ritirare la prestigiosa medaglia. Tra loro c’è Eugenio Montale, il poeta, certo, autore di “Ossi di seppia” e “Le occasioni”, ma anche il giornalista e critico musicale del Corriere della Sera, oltre che il traduttore che collaborò con Elio Vittorini all’antologia “Americana”. Al Nobel l’ha condotto la stima smisurata del collega svedese Anders Osterling, che già nel 1960 aveva tradotto per i connazionali la raccolta “Ossi di seppia” (Archivio Rcs)

Montale ha 80 anni, soffre da tempo di vertigini e fatica a camminare, ma presenzia alle prove della cerimonia, mentre la fidata governante Gina sbuffa e dice: «Me lo stan sbatacchiando di qua e di là come se avesse vent'anni». Dopo qualche momento di smarrimento generale, data la rigidità del cerimoniale che impedisce di accompagnare i vincitori, il re Carlo Gustavo - nella foto - si offre di portargli il premio (Archivio Rcs). E di quell’occasione solenne, riconoscimento per il lavoro di una vita, oltre che orgoglio nazionale, restano alcuni esilaranti commenti a margine di Montale, come questo sui 90 milioni di lire legati al premio: «Tutti mi chiedono che cosa ne farò. Prima vorrei sapere quanti me ne restano dopo le tasse» (Archivio Rcs).

Ma a cerimonia conclusa, durante il banchetto in onore dei vincitori, lasciandosi andare all’emozione e all’orgoglio, Montale si fa serio e commenta così quella giornata speciale: «Ho sempre bussato alle porte di quell'enigma meraviglioso che è la vita, e da quell'enigma ho tratto la poesia» (Archivio Rcs).

Ultimo di sei figli, Eugenio Montale nasce a Genova nel 1896 in una famiglia della media borghesia, che sceglie per lui studi tecnici a causa della sua salute precaria, pur lasciandogli coltivare la passione letteraria. Si diplomerà in ragioneria, ma negli anni verrà insignito di ben tre lauree honoris causa, di cui dirà: «Qui [in Italia], anche per diventare poliziotto bisogna essere dottore. Soprattutto nel meridione è un titolo molto apprezzato» (Archivio Rcs).

Alla passione per la letteratura accompagna quella per il canto, seguendo le lezioni dell’ex baritono Ernesto Sivori; come cantante non si esibirà mai, tranne che per i colleghi del Corriere della Sera, come racconta Vittorio Notarnicola: «Un pomeriggio al giornale, con un registratore a disco, gli si tirò una trappola: lo convincemmo a incidere “la calunnia”, del don Basilio rossiniano. Eugenio cantò, ma non sapeva tutte le parole; non si fermò, andò avanti a cantare, inventando quello che non conosceva della romanza» (Archivio Rcs).

Dopo aver preso parte alla Grande Guerra, Montale affronta gli anni ’20 e ’30 distaccandosi dal fascismo e sottoscrivendo il famoso manifesto di Benedetto Croce, che gli costerà l’espulsione dal Gabinetto scientifico letterario Vieusseux di cui era diventato direttore nel 1938. Nella foto con Maria Luisa Spaziani (Archivio Rcs). Negli anni del soggiorno fiorentino, Montale si é già fatto notare per la sua prima raccolta poetica “Ossi di seppia”, pubblicata da Piero Gobetti nel 1925, e collabora alla rivista “Solaria”, immerso nella vita culturale fiorentina e nei circoli letterari, dove ha modo di conoscere Carlo Emilio Gadda, Tommaso Landolfi ed Elio Vittorini - con lui nella foto (Archivio Rcs)

«L'argomento della mia poesia è la condizione umana in sé considerata: non questo o quell’avvenimento storico. Ciò non significa estraniarsi da quanto avviene nel mondo; significa solo coscienza, e volontà, di non scambiare l'essenziale col transitorio. [...] Avendo sentito fin dalla nascita una totale disarmonia con la realtà che mi circondava, la materia della mia ispirazione non poteva essere che quella disarmonia». E ancor più che in “Ossi di seppia”, ne “Le occasioni” la poesia si fa simbolica, il linguaggio meno penetrabile e carico di sottintesi (Archivio Rcs).

Nel 1948 viene chiamato a collaborare con la redazione del Corriere della Sera e del Corriere d’Informazione come critico musicale; una svolta, come già altre nella sua vita, che definirà casuale: «Non ho mai deciso nulla, cosa fare, dove andare. Gli eventi mi hanno modificato. Sono diventato giornalista dopo i cinquanta, quando si va quasi in pensione». Nella foto con il direttore Piero Ottone (Archivio Rcs).

Stoccolma, 10 dicembre 1975, nel Salone della Fiera Campionaria si svolgono le prove della cerimonia di consegna del Premio Nobel: gli undici candidati, a turno, devono avanzare verso re Carlo Gustavo di Svezia e ritirare la prestigiosa medaglia. Tra loro c’è Eugenio Montale, il poeta, certo, autore di “Ossi di seppia” e “Le occasioni”, ma anche il giornalista e critico musicale del Corriere della Sera, oltre che il traduttore che collaborò con Elio Vittorini all’antologia “Americana”. Al Nobel l’ha condotto la stima smisurata del collega svedese Anders Osterling, che già nel 1960 aveva tradotto per i connazionali la raccolta “Ossi di seppia” (Archivio Rcs).

Martha Larsson se ne va. Dalla Mondadori, la casa editrice che pubblica i suoi libri, gli chiedono una dichiarazione ufficiale. I «tic» del volto si accendono tutti all’improvviso. La bocca sbuffa con quel sibilo che a volte gela l’interlocutore. «Come si fa a dire cose non banali?», domanda. Detta qualcosa: «L’altissimo riconoscimento che mi viene dall’Accademia svedese é per me motivo di soddisfazione…». Ci ripensa. Si ferma. I «tic» riprendono il sopravvento, torna a dettare: «Non sono mai stato in Svezia e non conosco personalmente i miei traduttori in lingua svedese. Questo fatto aumenta in me la profonda gratitudine per il riconoscimento che mi viene da un Paese che ha alte tradizioni di cultura e di profonda fede democratica. Mi ripropongo di andare in Svezia e ringraziare personalmente i miei nuovi amici». 

Segue un’immediata postilla: «Andrò a Stoccolma, ma non vorrei fare discorsi». È quasi mezzogiorno. Lo prende un dubbio: «E se poi non vinco? E se poi decidono di cambiare opinione?». Ride nervoso. Gli ricordo che il Nobel coincide con i 50 anni di Ossi di seppia. «Il volume costava sei lire», risponde. «Ne furono stampate mille copie. Dovetti darmi da fare per convincere parenti e amici a prenotarlo. Il primo titolo che avevo proposto era "Rottami".

Il tempo scorre lento. Si parla di giornali: «Ho sentito che quello di Scalfari, “La Repubblica”, uscirà in un formato quasi tabloid. Che convenienze ci sono?». Poi il discorso passa al «Corriere»: «Chi c’è nella stanza dove stavo io con il povero Emanuelli? Via Solferino è diventata troppo lontana per le mie gambe. Devo muovermi ogni giorno, me l’ha ordinato il medico, ma non fare tanta strada. Se andrò a Stoccolma dovrò tirare fuori lo smoking. È da quando ho smesso di fare il critico musicale che non lo indosso più». «Ha scritto poesie in queste ultime settimane?», domando. «No, sono appena rientrato da una lunga vacanza a Forte dei Marmi. Adesso posso concedermi lunghe vacanze. Andavo alla spiaggia tutte le mattine. Ma non ho scritto poesie». Non sembra sincero del tutto. In qualche cassetto forse c’è qualcuno di quei foglietti su cui ha sempre abbozzato le sue poesie: quei foglietti che un’antica domestica, Maria Bordigoni, trovava nelle sue tasche e buttava via. Maria non sapeva leggere. Le interessava ricuperare i fiammiferi o i bottoni che si erano staccati.

Sarebbe forse ora di fare qualche domanda sull’intera sua vita, sull’intera sua opera. «Globale è un aggettivo che detesto», replica subito: «Messaggi? I messaggi è meglio non mandarli». Si stenta a superare il muro del paradosso. Montale è sempre stato così. L’imminenza del Nobel non l’ha cambiato. Concede una brevissima frase: «Per me la poesia è un invito alla speranza», ma subito se ne ritrae. «Ho sempre provato un po’ di vergogna a sentirmi chiamare poeta. Nei registri degli alberghi, mi sono sempre qualificato come giornalista». «E dopo il Nobel?», azzardo. «Magari diventerò Papa. Se c’è tanta avanguardia, tanto dissenso nella Chiesa, perché un borghese non potrebbe diventare Papa?».

È l’ultimo paradosso. Sono le tredici. Arriva la telefonata dell’ambasciatore di Svezia. La Gina apre la radio, stanno dando la notizia. Mettono in onda un’intervista di qualche anno fa, quando uscì Satura. La radio è in cucina. Per chi crede nella poesia e in Montale, non è un momento come tanti altri. Questo non se andrà mai dalla memoria. Una cucina, una pentola che fuma, le pareti vuote, il senso d’una distanza che nemmeno il Nobel riesce a valicare. Fuori c’è la città. C’è anche l’indifferenza della città. La sua «decenza quotidiana» forse è una lezione troppo ardua.

martedì 22 dicembre 2015

IN ITALIA SONO MOLTI I CAPIPARTITO, MA MANCA UNO STATISTA

Pubblicato su Affaritaliani il 17.12.2015

 
L’Italia necessita di politica seria e responsabile. Gli Italiani chiedono politici preparati, affidabili, all’altezza dell’incarico. Sembrano cittadini disinteressati e disincantati, e invece sono vigili e accorti; seguono ogni accadimento, sempre più allarmati nel notare che gli attuali capipartito sono troppo impegnati a delegittimarsi reciprocamente, rinfacciandosi vicendevolmente il rispettivo passato (non certo sempre esemplare) e ciascuno promettendo con orgoglio (e talora con sfrontatezza) di rendersi garanzia d’un futuro di benessere e di sicurezza. 

I cittadini, però, non sono tanto inesperti e ingenui; non restano più a sentire e a guardare soltanto: capiscono, intuiscono i messaggi nascosti, trepidano. Si propongono di continuare a tollerare il deludente scenario politico, mostrando estrema sensibilità civica e profonda responsabilità etica, ma aspettando tempi migliori. Essi vivono con dignità e risolvono con concretezza i propri problemi quotidiani, spesso dolorosi e drammatici. E non hanno alcuna voglia di sentirsi ripetere le solite noiose litanie da parte sia delle maggioranze e sia delle opposizioni, verso cui nutrono diffuso scetticismo e seria sfiducia. Il cittadino onesto si sente rapinato della sua umanità: non riesce a convincersi come mai uomini come lui, una volta “conquistato” il potere, diventano insensibili ai bisogni e indifferenti alle mortificazioni, che umiliano, per esempio, l’anziano che vive negli stenti e ogni giorno ascolta o legge la cronaca di impudenti resoconti di scandali, truffe, evasioni e corruzioni, davanti a cui i politici non raramente o tacciono o chiariscono o tergiversano con bizantinismi sottili e capziosi, attenti solo a non dispiacere al proprio più o meno ampio elettorato. 

Nel mondo della politica italiana prolificano i partiti e, di conseguenza, si moltiplicano i capipartito che, in qualunque collocazione vadano a trovarsi (o di maggioranza o di opposizione), si avversano su ogni iniziativa, nell’ottica ristretta del tornaconto della propria parte, che ovviamente non coinciderà mai con i bisogni di tutto il popolo, sempre invocato da tutti, ma da tutti sempre disatteso. Opposizioni che dettano con superficiale saccenteria consigli a maggioranze, che con irresponsabile arroganza “non accettano mai lezioni da nessuno”, sentendosi i conoscitori competenti d’ogni esigenza del Paese e gli unici possessori dei rimedi veramente validi. Come se avesse senso parlare di “opposizione che verifica e suggerisce” e di “governo che ascolta e governa”; cioè, di una minoranza che contribuisce al migliore funzionamento dello Stato e di un governo che attua i propri programmi e nello stesso tempo risolve al meglio ogni problema ereditato. Così sarà sempre per ogni governo che subentra al potere: rimediare a carenze ereditate e realizzare nuovi traguardi, programmati e condivisi con tutte le parti che esprimono le molteplici volontà dei cittadini.  

Ecco, allora, che il cittadino non sa cosa pensare di fronte a governanti che, mentre ostentano esageratamente il loro operato, deridono inopportunamente i governi precedenti e scherniscono pericolosamente come “uccello del malaugurio” chiunque sia di diversa opinione. Messaggio equivoco e rischioso, in quanto si produce la sensazione che si realizzano provvedimenti “per” una parte sollecitata a gioire d’un proprio trionfo, “contro” altre parti condannate ad arrendersi miseramente. I cittadini, però, nutrono altre aspettative da un governo, che si professi repubblicano e democratico. Chiunque governi democraticamente, infatti, deve porsi sempre e comunque al di sopra d’ogni parte e ascoltare tutti, addossandosi ovviamente la responsabilità delle decisioni ultime, da prendere solo in vista del bene di tutta la Nazione. Invece il cittadino assiste a spettacoli del tutto opposti: la politica, da azione comune per il bene di tutti, è ridotta a verbosi dibattiti superflui e dannosi, tesi solo ad accontentare i propri elettori. Ma non è nemmeno sempre così. L’unico risultato sicuro è di allontanare dalla politica altri cittadini benpensanti, ingrossando la già numerosa schiera di quelli che non si recano più nemmeno alle urne. 

Ecco allora: gli Italiani hanno bisogno di uno “statista”, cioè  di qualcuno di degna levatura e con doti di statista, cioè di chi pensa alle esigenze di tutto il popolo e opera per risolvere i problemi dello Stato intero, e non di una parte grande o piccola. Essere capo d’un partito non vuol dire avere la statura di statista. Infatti, si moltiplicano le riunioni e i convegni (la nota ‘convention’) di persone, che si riuniscono per discutere di argomenti di interesse comune a loro, ma non certo di dimensioni generali ed estese quanto tutto lo Stato. 

Si assiste in adunate in cui echeggiano parole svuotate d’ogni solido contenuto. Che significato hanno in simili convegni le parole, quali democrazia, riforme, giustizia, libertà, etica, responsabilità. Sono ormai parole che hanno perduto il loro significato originario e significano tutt’altro. Domina l’arte oratoria, ma anch’essa stravolta: da arte del comunicare idee e generare pensieri sensati, è trasformata in artificio, con cui occultare la totalità della verità con la violenza dei toni e la sovrabbondanza delle immagini, suscitando sentimenti e risentimenti, ma di sicuro non generando responsabile riflessione.  

Lo statista usa poche parole e molta autorevolezza. Basti ricordare il discorso breve (non a braccio, ma preparato con due mesi di lavoro meticoloso) del Presidente Kennedy, quando nel 1960, all’età di 43 anni, il più giovane presidente eletto dal popolo americano, sottolineò - con misurate scarne parole - l’importanza della politica come servizio nazionale: “Miei concittadini americani, non chiedete cosa il vostro paese può fare per voi, chiedete cosa potete fare voi per il vostro paese”. E così pure il Gorbaciov, abbatta questo muro!”: quattro scarne parole dette nel 1987 da Ronald Reagan durante un discorso tenuto presso la Porta di Brandeburgo il 12 giugno 1987; due anni dopo cadrà il muro e il sarà cambiato mondo intero. E non mancano esempi e modelli nella nostra Italia repubblicana: non sono da meno, infatti, Alcide De Gasperi, Aldo Moro, Enrico Berlinguer, per ricordarne alcuni.

 

 

IL DILEMMA DEI POTENTI A PARIGI: IL MONDO O CAMBIA MODO DI PENSARE O MUORE


Pubblicato su Affaritaliani il 2.12.2015
 
Fino al prossimo 11 dicembre 190 Paesi tratteranno per un nuovo accordo, per ridurre le emissioni, che causano il riscaldamento del pianeta Terra. L’umanità intera aspetta con preoccupazione ciò che verrà deciso. Il problema è molto serio e non dà alcuno spazio a dichiarazioni di rito, come potrebbero apparire - a causa delle prese di posizione già annunciate da parte di alcuni Stati - quelle del Presedente francese, che ha esordito: “Prenderemo in qualche giorno decisioni che avranno conseguenze per decenni, la posta in gioco è il futuro del pianeta”, e, collegando responsabilmente la minaccia del terrorismo ai cambiamenti climatici, ha concluso: “Sono le due grandi sfide che dobbiamo raccogliere, perché ai nostri figli dobbiamo lasciare in eredità non soltanto un mondo liberato dal terrore, anche un pianeta preservato da catastrofi”. 

Ormai è consolidato che il genere umano ha un destino unico di vita o di morte, legato ormai in massima parte ai giochi dell’economia e ai capricci del mercato, determinati apertamente da una verità fondamentale, cioè che le sorti del Nord e del Sud della Terra sono indubbiamente collegate, ma, realisticamente esaminate e oggettivamene valutate, sono determinate e sostenute non dal Nord, ma dal Sud, in quanto l’economia dell’eccessivo benessere e dello sfrenato consumismo del Nord è alimentata dallo sfruttamento che il Sud ha subìto e continua a patire ormai da secoli. Oltre alla corsa sregolata al benessere e all’accumulo di capitali, è necessario, poi, riconsiderare la linea politica degli armamenti, che, mentre ingrossa i profitti del Nord, accresce la povertà del Sud, aggravando le piaghe delle ingiustizie sociali e della miseria d’interi Paesi condannati davvero alla fame. Causa di questi modi di pensare e di vivere non sono certo da rintracciare nell’immutabile natura umana o nell’apatia endemica di alcuni popoli, bensì nelle scelte di chi li “governa”.  

Ora, non si tratta di difendere le faticose conquiste di alcune Nazioni e di segnalare la colpevole inerzia di altre; forse non c’è più tempo per strategie ideologiche e tatticismi politici; è giunto definitivamente il tempo per far prevalere in tutti, ma soprattutto nei potenti, l’innato istinto di conservazione, da usare per debellare i veri nemici dell’umanità. E’ tempo che gli uomini tornino a pensare che per propria natura non sono “lupi” tra di loro, bensì individui d’uno stesso genere, accomunati dallo stesso destino. Certo le disuguaglianze e le ingiustizie, sempre riemergenti in modo forse più marcato, a svantaggio dei più indifesi grida il dolore della miseria e urla la disumanità della fame. I potenti riuniti a Parigi, pertanto, dibattano pure sugli obiettivi da loro considerati meno nocivi, ma non dimentichino che ogni loro decisione avrà il senso di soluzioni credibili solo se l’obiettivo finale è l’abbattimento della belligeranza e il perseguimento della pacificazione dei Popoli.  

Diano vita a una cultura della pace, propugnando una politica, che, incrementando e valorizzando la presenza attiva dell’uomo nel campo della storia umana, consenta il passaggio da una civiltà fondata sulla competizione ad una civiltà fondata sulla valenza dell’uomo e sulla corresponsabilità reciproca. Però, non come un pacifismo mistico o utopico, ma come un cammino faticoso verso un ideale, che rimarrà tale, ma verso il quale l’umanità deve marciare, avvicinandosi il più possibile, come auspicava già secoli fa Erasmo, quando nel Lamento della pace, concludeva: “Vengano resi i massimi onori a chi ha contribuito a tenere lontano la guerra (…), a chi si è prodigato senza risparmio non per allestire la massima potenza di schiere armate e di macchine belliche, ma per non doverne abbisognare”.