Il Tempo, in sé fluire di momenti transeunti che vanno accolti, si apre a un "oltre" custode Eterno di valori trascendenti che vanno abitati. Vicende e realtà tendono alla suprema fusione nell'infinita Totalità, anima di ogni Speranza.

lunedì 5 gennaio 2015

E' FINITA L'ERA DELLA RAPPRESENTANZA POPOLARE

Pubblicato da "Affari Italiani", Giovedì, 20 novembre 2014

IL COMMENTO - Il popolo italiano non elegge già da tempo i suoi "deputati" né li delega a legiferare a nome suo e per il bene di tutti. Ormai deve prendere soltanto atto d'ogni operato dei vari soggetti designati e cooptati dagli schieramenti politici e dalle altre forze che contano... Di Cosimo Scarcella

Giovedì, 20 novembre 2014 - 16:21:00

Il popolo italiano non elegge già da tempo i suoi "deputati" né li delega a legiferare a nome suo e per il bene di tutti. Ormai deve prendere soltanto atto d'ogni operato dei vari soggetti designati e cooptati dagli schieramenti politici e dalle altre forze che contano. Osservando lo scenario odierno offerto dai partiti politici, si capisce finalmente cosa hanno voluto dire molti pensatori assennati e disincantati, quando hanno definito i parlamenti il "mercato delle vacche". Nei mercati di rione, infatti, è normale il "tirare sul prezzo" il più possibile dalle parti contrattanti, con reciproca furbesca attenzione, però, al punto di rottura, che farebbe perdere l'affare sia al compratore che al venditore. A questo sembra essere ridotta la politica italiana di questi ultimi mesi. Politica, in sé e per sé, è abilità di risolvere problemi e soddisfare bisogni reali dei cittadini, che si presentano indubbiamente diversi e talora perfino opposti e, quindi, che vanno legittimamente e saggiamente mediati. Portavoce naturali delle singole voci popolari sono i partiti politici. I governi che si succedono al potere, di conseguenza, hanno il duplice dovere di difendere l'identità della propria parte politica e, nello stesso tempo, di captare i bisogni e intuire i valori delle altre parti. La storia della Repubblica Italiana documenta che è stato questo l'ideale regolativo dei vari governi, almeno fino a un ventennio fa: da Alcide De Gasperi e Togliatti a Enrico Berlinguer e Aldo Moro. E questo è il significato autentico anche del paradosso delle "convergenze parallele", che si dice abbia pronunciato Aldo Moro durante il congresso di Firenze della D.C. nel 1959: concetto assurdo in matematica, ma fondamentale per una politica sana e un governo buono, in quanto le molteplici "parallele" socio-politiche ed economico-finanziarie devono convergere il più possibile in ogni iniziativa governativa, al fine di perseguire il bene comune.

Non susciterebbe stupore, quindi, il fermento che anima palazzi e piazze italiane in questi ultimi mesi: in una normale vita democratica sarebbe ottimo segno di dialettica viva e costruttiva. La cosa, però, insospettisce, anzi spinge ad analizzarne e capirne le motivazioni reali e le finalità forse taciute. Da ogni parte, infatti, s'ostentano dichiarazioni di difesa degli interessi generali e di rivendicazione del bene del popolo, quando nella sostanza dei fatti il popolo risulta del tutto dimenticato o accontentato con qualche briciola residua (forse anche casuale e indiretta, ma certo non disinteressata). I protagonisti della politica odierna sembrano, infatti, mercanti attenti agli affari propri, che mirano a concludere a ogni costo e a ogni prezzo, e perciò attenti solo al punto di rottura: pronti sì alle schermaglie e agli scontri, ma anche disponibili ai compromessi d'ogni genere. Comportamento dettato - si predica - dal proposito di salvaguardare gli equilibri di bilancio, le coperture economico-finanziarie, la difesa dei vari diritti, la dignità delle relazioni internazionali, ecc. Ovviamente - si precisa solennemente - con l'annuncio formale (qui veramente unanime o quasi) che l'unico vero destinatario finale di tutto è il popolo, il quale vedrà (non certo dall'oggi al domani, a tempo opportuno) i frutti copiosi della crescita, dell'occupazione, della rinascita della scuola e della ricerca, del riassestamento del territorio, dell'equità sociale, ecc. Nel frattempo, però, i diversi contrattanti s'assicurano l'affare proprio.

Si è ben lontani, sembra, dall'era della politica della rappresentanza popolare, in cui la classe politica rappresentava veramente e solamente (o soprattutto) il popolo, che di fatto aveva il potere - grazie a leggi e riforme adeguate - di decidere di volta in volta di confermarla o di sostituirla. E' finita quell'era. Osservando alcuni fenomeni attuali, si ha la sensazione che c'è qualcosa di diverso, che si miri a qualcos'altro; ed è una sensazione che genera perplessità per il futuro della nostra democrazia rappresentativa. E' doveroso, senza dubbio, demolire ideologie sorpassate dalla storia e palesemente inutili, ma è pericoloso instaurare procedimenti destinati (forse pure inconsapevolmente, ma non per questo meno nocivi) a smentire e capovolgere la democrazia rappresentativa. Conservare il Parlamento, ma esautorarlo e addomesticarlo all'Esecutivo, allo scopo di mostrare l'impotenza di quell'istituzione, per risaltare la potenza del gruppo dirigente e richiedere il necessario contributo di forze sociali ed economico-finanziarie "estranee"; svuotare il Senato d'ogni competenza di controllo sulla Camera dei Deputati; demolire le funzioni parlamentari apparentemente rispettate, ma nei fatti raggirate come inutili remore; puntare su riforme istituzionali ben cucite su misura; progettare una legge elettorale, che riduce sostanzialmente a farsa il voto dei cittadini. E il tutto con una frenesia, che toglie ogni lucidità di giudizio e limita la possibilità di riflettere e di ponderare i fatti, quasi si abbia paura che s'intuisca qualcosa di più e che si capisca meglio. Ma il popolo italiano non è quello cinquecentesco immaginato dal vecchio Machiavelli. E' quello che s'è costruito grazie alla democrazia rappresentativa sulle macerie di due guerre e di due funesti totalitarismi. E lo conferma il fatto che a tutt'oggi il partito più numeroso è quello dei non-voto, che si gonfia sempre più nel silenzio dell'avversione dignitosa.

ALDO MORO NON E’ TUTTO MORTO!


Pubblicato da "Affari Italiani", Mercoledì, 12 novembre 2014

Giunge con soddisfazione la notizia che è stata conclusa l’inchiesta condotta sul caso Moro, dopo le interessanti dichiarazioni di Enrico Rossi, ex ispettore di PS. Il Procuratore generale di Roma, Luigi Ciampoli, riferirà nella competente Commissione parlamentare. E’ conclusa, dunque, l’inchiesta. Ma nell’animo - particolarmente di chi ha vissuto quei terribili avvenimenti - riaffiorano brutti ricordi e riemerge ancora un forte senso d’incredulità. Il rapimento e l’uccisione di Moro hanno inferto allora un colpo mortale non solo e non tanto a un partito politico, ma anche e soprattutto a tutto il nostro Paese. Ferita così grave e profonda che ancora oggi è veramente difficile prevedere fino a quando rimarrà ancora aperta, con tutte le sue conseguenze. Erano già passati quattro anni dal tragico episodio, quando l’allora Segretario della DC Flaminio Piccoli, tentando di intravedere qualche filo di chiarezza, asseriva che “dire che non abbiamo mai avuto dubbi varrebbe riconoscere che siamo di pietra. Ogni coscienza che si rispetti, dinnanzi ad eventi così spaventosi, s’interroga, si esamina, ricorda momenti e decisioni e li riguarda sotto ogni aspetto, per la ricerca di una verità, che sia portatrice almeno di serenità e di pace”. Non pochi dubbi restano ancora, e forse non si capirà mai la verità delle motivazioni vere e delle finalità politiche occultate, che condannarono a morte Aldo Moro. Non bastano, comunque, celebrazioni e attestazioni. Dimenticando e condannando alla sterilità alcuni suoi validi insegnamenti – consigliati con la vita e testimoniati con la morte da martire del servizio al bene di tutti – forse rimarrebbe “assassinato” di nuovo.

Il giorno del sequestro Moro stava recandosi a Montecitorio, dove Giulio Andreotti avrebbe presentato il nuovo governo, per la cui nascita era stato decisivo il contributo dato da Moro. Circa tre mesi prima, in un clima di grande confusione tra tutti i partiti e all’interno di ciascun patito, egli aveva pronunciato un discorso ai gruppi parlamentari della D.C., durante il quale aveva sostenuto: “Possiamo dire che abbiamo cercato, seriamente e lentamente, la verità: la verità, diciamo in senso politico, cioè la chiave di risoluzione delle difficoltà politiche”. Nella politica operosa e produttiva, quindi, non debbono avere alcuno spazio né la superficialità né l’improvvisazione; tutto va deciso e realizzato con lungimiranza, per vedere oltre l’immediato, e con abilità di mediazione, per trovare risoluzioni condivise il più possibile. Quello di Moro era un abito interiore convinto, che traspariva anche dal suo atteggiamento esteriore, che in quei tempi era molto significativo. Aveva, infatti, un incedere compassato e mai studiato, ponderato e sostenuto, ispirante sempre rispetto sincero: era lo specchio d’un uomo intento a osservare e esercitato a riflettere, consapevole delle proprie responsabilità politiche e morali, in anni di crisi grave e profonda in ogni campo.

Da prigioniero nel “carcere” delle Brigate Rosse, quaranta giorni prima della morte, scriveva a Zaccagnini, allora segretario della Dc, consigliandogli disponibilità a trattare “qualche concessione” con i brigatisti, e concludeva: “Tenere duro può apparire più appropriato, ma qualche concessione è non solo equa, ma anche politicamente utile. Se così non sarà, l’avrete voluto e, lo dico senza animosità, le inevitabili conseguenze ricadranno sul partito e sulle persone. Poi comincerà un altro ciclo più terribile e parimenti senza sbocco”. Nel partecipare all’audizione del Procuratore Generale, tutti i partecipanti ripensino almeno a due direttrici, che Moro ha lasciato in eredità. La verità e il dialogo. “Quando si dice la verità – aveva ammonito lo statista pugliese, non bisogna dolersi di averla detta. La verità è sempre illuminante. Ci aiuta a essere coraggiosi”. E aveva insistito che non basta dirla la verità, “per avere la coscienza a posto: noi abbiamo un limite; noi siamo dei politici, e la cosa più appropriata e garantita, che noi possiamo fare, è di lasciare libero corso alla giustizia, e fare in modo che un giudice, finalmente un vero giudice, possa emettere il suo verdetto”. Per la soluzione più efficace dei problemi d’ogni natura, Moro suggerisce sempre il metodo del dialogo: purchè sia leale e ispirato solo al bene comune; rimane intatta la sua testimonianza, secondo cui la terapia nel pensare e nell’agire politico non è il mutare tecniche operative, ma vivere i valori. Testimoniandoli sino a offrire la propria vita.

"ELOGIO FUNEBRE DEL REGIME PARLAMENTARE”

Pubblicato da "Affari Italiani", Sabato, 8 novembre 2014

“Noi assistiamo alle esequie di una forma di governo”, disse il 19 dicembre 1925 al Senato, nel celebre discorso di rifiuto della legge sulle prerogative del Capo del governo, Gaetano Mosca giurista, politico, senatore e membro del governo Salandra. La riforma che veniva proposta era certamente compatibile, se si guardava alla lettera dello Statuto Albertino allora in vigore, ma la sostanza, che si voleva venisse approvata, era davvero preoccupante, in quanto si sanciva che i singoli ministri non dipendevano più dal Capo dello Stato (allora il re), ma dal Capo del Governo, e si stabiliva che lo stesso Consiglio dei Ministri da “organo collegiale” diventava “organo consultivo”.

Tutto il potere, pertanto, veniva riposto nelle mani del Capo del Governo, il quale creava i ministri, poteva destituire quelli in carica, poteva modificarne le deleghe, poteva attribuirsi le decisioni su questioni di reciproca competenza e aveva perfino il potere di stabilire l’ordine del giorno delle Camere. Il punto più enigmatico, tuttavia, era il problema della fiducia che doveva reggere il Capo del Governo: egli, infatti, restava al potere non solo al di fuori del volere delle Camere, ma persino al di fuori della volontà del Capo dello Stato (allora il re). Nel disegno di legge era scritto espressamente che il Capo del Governo veniva mantenuto al potere dal “complesso di forze economiche e politiche e morali, che lo hanno portato al Governo”. Era qui che si nascondeva l’ambiguità: chi erano quelle strane forze extraparlamentari tanto potenti da non essere soggette al parere neppure del Capo dello Stato. E Gaetano Mosca – maestro di Diritto, fondatore della Scienza Politica nelle università italiane, teorico della “classe politica” – diede voto contrario.

Annunciando il proprio voto contrario, Mosca avvertiva che nei fatti, sotto l’apparenza di strumenti presentati e caldeggiati come più adatti a un governo fattivo ed efficace, si stava cambiando un intero sistema di governo, che coinvolgeva e comprometteva diritti civili, equità sociali, doveri politici e persino valori morali d’una nazione intera già in piena crisi morale ed economica del dopoguerra. Cambiamenti probabilmente non solo opportuni, ma addirittura necessari. Ma erano proprio le motivazioni e le finalità, che si diceva voler perseguire mediante tale cambiamenti che richiedevano prudente valutazione della realtà presente e saggia previsione delle possibili conseguenze future. Egli riteneva che un rinnovamento esageratamente rapido e intempestivo era un “salto nel buio” dettato dall’impulso frenetico d’una “nuova generazione, che crede di sapere tutto e di poter tutto mutare”. Terminava, perciò, le sue parole – sempre dettate con stile dimesso e umile - dichiarando che sentiva come suo “forte dovere di ammonirla”.

Consapevole di alcune reazioni prevedili, Mosca volle raffigurare i sentimenti che lo animavano nel suo comportamento e nella sua decisione, ricordando all’Assemblea l’addio di Ettore ad Astianatte: il tragico epilogo omerico d’una virtù morale e combattiva.

Sono passati circa novant’anni: forse non pochi per rileggere la nostra storia, prendendo qualche utile lezione.