E’
giunto il tempo fissato per “tirare le conseguenze” del responso delle urne
elettorali. Le
analisi e le valutazioni veramente significative delle consultazioni
amministrative erano state rinviate al dopo i ballottaggi, fermo restando –
com’era stato sottolineato ripetutamente da alcuni esponenti e forze politiche -
che si sarebbe trattato di consultazioni amministrative, quindi di breve respiro,
in quanto circoscritte al governo di Enti Locali e, pertanto, assolutamente vuote di qualunque valenza
politica nazionale. I commenti dei leaders di partito sono noti, del resto
prevedibili e scontati, perché collaudati da decennale ritualità: il solito e usurato
sciorinare numeri, cavillando per evidenziare a ogni costo il significato positivo
o negativo dei decimali delle parti e, ovviamente, per ostentare il proprio avanzamento
(probabile) e sottolineare la regressione (eventuale) d’altri. Qualunque conquista
è esaltata come vittoria e qualunque perdita è segnalata come sconfitta. Il
cittadino italiano, però, da parte sua, a questo spettacolo assiste incredulo,
ma soprattutto amaramente sospeso tra il serio e il faceto: l’intero mondo politico ostenta grande competenza
a interpretare il responso delle urne; ma dimentica
(astutamente) o sottace (scaltramente) che a disertare le urne è stata circa la
metà dell’elettorato.
Certo, nella democrazia
rappresentativa è utopistico pretendere una partecipazione totale del popolo
all’esercizio del voto, ma è realistico aspettarsi l’adesione d’un numero
significativo di elettori. Quando ciò non succede, discettare su chi – tra i
partiti politici in campo – abbia vinto e perso è un esercizio inutile, se non
dannoso e che, comunque, fa parte di modelli ormai superati. Oggi, il fenomeno più incomprensibile e
pauroso, che dev’essere analizzato e valutato in ogni sua dimensione, è l’astensionismo: il destino della democrazia
– non solo in Italia – è appeso alla soluzione del problema dell’astensionismo.
Nella democrazia realizzata nasce, si radica e s’irrobustisce un sempre più
convinto e profondo sentimento di comune appartenenza, che è l’esatto contrario
dell’assenteismo. La disaffezione e l’avversione del cittadino verso la politica,
pertanto, nascono essenzialmente dal vedersi privato del “diritto di associarsi
liberamente per concorrere con metodo democratico a determinare la politica
nazionale” (art. 49 della Costituzione) e dallo svuotamento (graduale, ma
reale) del suo diritto-dovere di voto, a causa di leggi elettorali, che trasferiscono
il potere reale di designare i “rappresentati del popolo” solo ai capipartito.
Si crea così un distacco tra governanti e governati, che snatura l’essenza stessa della democrazia, sradicandola dal suo senso
costitutivo e trasformandola in altre forme di governo, forse più efficienti,
ma non certo “del popolo per il popolo”.
In buona sostanza,
la causa dell’astensionismo è lo strapotere di alcuni pochi, che pianificano
programmi socio-politici forse anche in sé validi, ma che il “popolo non
gradisce”; per cui bisogna individuare e valutare chi sono i “soggetti interessati”, che propongono -
con un pesante deficit di democrazia - per il prossimo futuro i mutamenti alle
condizioni generali della politica (ovviamente in nome del popolo e per il bene
comune). A rafforzare queste domande (e a trovare risposte plausibili) sono i recentissimi
comportamenti - espliciti e diretti – dei mercati economici e finanziari, delle
grandi imprese e delle multinazionali. E’
di qualche giorno fa l’avviso dell’agenzia internazionale di valutazione di
credito Fith, che – dopo l’ingiunzione
già del 1913 all’Eurozona di “sbarazzarsi delle costituzioni antifasciste” – ha
unito la sua voce a quella dei Fondi JP
Morgan, della Confindustria e del Fondo Monetario Internazionale a
proposito del comportamento dei cittadini al prossimo referendum costituzionale:
gli Italiani approvino la proposta referendaria
del loro Governo, perché “l’esito del referendum di ottobre 2016 sarà
fondamentale per determinare se la spinta alle riforme continua o va in
stallo”. Nulla da eccepire sulla legittimità di esprimere opinioni e dare
indicazioni, anche se i mercati finanziari e le multinazionali non hanno le
migliori credenziali per giudicare e consigliare (considerando la crisi del 2007-2008);
si tratta, comunque, di un mondo autonomo, che giustamente ha i propri scopi da
raggiungere e i propri interessi da difendere. Del resto, anche i vertici delle gerarchie ecclesiastiche spesso non dubitano
di attaccare a gamba tesa il mondo della politica e dare ai “credenti” – spesso
e più o meno diplomaticamente - indicazioni
di comportamento.
Il
problema vero
– che deve preoccupare molto seriamente, e non solo gli Italiani - non è né la retorica dell’antipolitica (quante
carriere costruite e quante scalate al potere in nome dell’antipolitica!), né la perdita spesso lamentata di autonomia
della politica a causa sia dello strapotere della magistratura e sia delle
indebite ingerenze della sfera morale. Autonomia, infatti, non è assoluta e
totale autoreferenzialità o rigida divisione impermeabile dei poteri, ma
capacità di ogni potere e istituzione di perseguire i propri scopi con i propri
metodi, sempre e comunque in continuo confronto collaborativo con ogni altra
realtà statuale, sociale, economica e culturale. Il problema vero è lo svuotamento del modello democratico. La
democrazia reale è certamente una forma di governo, ma che si sostanzia
d’una propria visione integrale dell’uomo e del mondo, senza della quale diventa
sterile tecnicismo, arido sistema di riforme e controriforme, spesso bloccato dai veti incrociati dei
diversi partiti e sindacati. Per questo nella democrazia c’è il rischio che si
apra un’agevole strada per reclamare urgente la necessità di efficienza governativa
e di velocità amministrativa, comportando ovviamente un depotenziamento
del modello democratico, in cui si depaupera
gradualmente il ruolo del popolo. La democrazia viene ridotta a insieme di
regole e di procedure di natura tecnica, bisognosa, quindi, non di politici
competenti e lungimiranti, ma di tecnici e di decisionisti. Invece la
democrazia vive di azioni di governo e di sviluppo, in cui tutte le forze sane
della cultura, della politica e dell’economia s’intrecciano in sinergia
positiva e solidale. Del resto, la politica,
finché sembrava offrire qualche possibilità costruttiva di azioni concrete
indirizzate al maggior bene comune, poteva
ricorrere all’ausilio di personalità valide e generose, estranee alla
politica (irrise poi dagli stessi politici come “utili idioti”), ma l’attuale situazione (non solo dell’Occidente)
fa rammentare ai benpensanti il consiglio suggerito due millenni e mezzo fa
nella Repubblica (VI libro) dal vecchio ed esperto Platone: quando infuria la
tempesta devastatrice, è da insensati
mettersi in mezzo e sfidare la bufera; è saggio soltanto il mettersi al riparo,
sperando di salvare almeno la propria ragione.
Mettersi al riparo dalla degenerazione
della politica e dalla corruzione dilagante ovvero, parafrasando Jacques
Maritain, schierarsi per la “neutralità
attiva”: forse è questa oggi l’unica forma di “antipolitica” positiva e
costruttiva, intesa come lotta dura contro i partiti alquanto degenerati e i
suoi esponenti che, anziché perseguire
il bene comune, sono dediti solo o soprattutto agli interessi personali e
privati, sfruttando al peggio i bisogni del popolo onesto e laborioso. La
presenza in politica di persone credibili potrebbe tornare a vantaggio di chi
della politica fa un mestiere a suo uso
e consumo. Inoltre, rimanere fuori, in situazioni particolari, è l’opposizione necessaria, in quanto, se
non ci sono forme sane di opposizione, non c’è democrazia, ma pensiero unico;
e senza diversità di pensiero, si annichilisce lo spirito umano creativo e
libero e s’incoraggiano la simulazione degli scaltri e l’uniformità dei deboli.
Di conseguenza, non più rispetto del vero, del giusto e del bene, ma ampia liceità
di ciò che conviene. Ma, se è giusto sempre e solo ciò che conviene, svaniscono
responsabilità e libertà, cioè quell’eredità umana, che dovremmo responsabilmente
trasmettere alle generazioni future.