Nel definire il significato di “laicità” e nel fissarne compiti e ruolo, talora si frappongono alcuni equivoci, che alterano la serenità del dialogo e fuorviano dalle reali intenzioni della discussione. Quindi, è necessario innanzitutto precisare il senso autentico della parola “laicità”, che, pur essendo ricca di contenuto e di valore, non sempre è intesa e adoperata in maniera appropriata. Essere laico, infatti, non significa, come purtroppo spesso si pensa, essere un avversario della religione in generale e del cattolicesimo in particolare; la parola “laico”, di per sé, non vuol dire l’essere né “credente” né “indifferente” né “miscredente”. A essere ostile alla religione e a combatterne ogni forma di predicazione è il “laicismo”, cioè quell’atteggiamento estremista, che disprezza e odia la religione e le chiese per pregiudizio. La vera “laicità”, invece, anche quando non condivide dottrine e regole dei diversi campi religiosi (o anche modelli proposti dalla politica, dalla società, dall’economia, dalla morale, dalla scienza, dalla teologia, ecc)), tuttavia li valuta con serena imparzialità, li rispetta con lealtà e li apprezza con onestà, senza fare confusione tra le rispettive facoltà e, soprattutto, tenendo ben separate – con intelligenza e fermezza – le rispettive competenze delle Chiese e degli Stati.
La “laicità”, pertanto, non è un insieme di dottrine particolari, ma è soltanto un abito mentale, grazie al quale si distingue ciò che è dimostrabile con la ragione da ciò che si accetta per fede. La laicità, quindi, non s’identifica con alcun credo specifico e non sostiene alcuna filosofia o morale o politica o ideologia particolare; essa è soltanto la capacità di articolare le proprie convinzioni (siano esse religiose, filosofiche, sociali, culturali) secondo regole che sono proprie della logica razionale, la quale, per la sua stessa natura, non può accettare o subire condizionamenti esterni, perché perderebbe la sua validità. Infatti, la logica razionale è veramente tale, solo se opera nella sua assoluta autonomia, cioè solo se è libera e, quindi, “laica”: tanto in un San Tommaso d'Aquino quanto in un pensatore ateo, la logica s’affida sempre e solo a principi di razionalità, allo stesso modo in cui, nella matematica, la dimostrazione d’un teorema obbedisce solo alle leggi della matematica, indipendentemente dal fatto che essa sia fatta da un Santo o da un miscredente.
La laicità, così intesa, crea la cultura della tolleranza: quella tolleranza che si concretizza nella sapiente umiltà che fa dubitare delle proprie certezze. Il laico è veramente tale, quando è “libero” davvero, cioè quando non si crea propri idoli da adorare né accetta miti altrui da venerare. Egli crede con forza e coerenza in alcuni valori che fa suoi, ma nello stesso tempo non dimentica mai che esistono anche i valori degli altri, che sono pur’essi nobili e validi e, perciò, meritevoli di stima e di rispetto. Laicità significa, allora, avere il coraggio di fare le proprie scelte, assumendosi la responsabilità delle eventuali rinunce necessarie e degli eventuali errori e fallimenti, senza confondere in nessun caso il pensiero rigoroso con i convincimenti fanatici e senza mescolare il sentimento sincero con le reazioni emotive e passionali. Per queste sue caratteristiche la laicità crea e difende una moralità appropriata, con cui si evitano sia gli eccessi del moralismo fazioso sia le licenziosità del permissivismo. Solo il “laico”, dunque, è e vive da uomo libero, perché solo lui aderisce a un'idea, senza restarne succube; s’impegna politicamente, senza perdere la propria indipendenza critica; non resta schiavo delle sue stesse idee e non denigra quelle degli altri; non inganna se stesso, trovando mille giustificazioni ideologiche per le proprie mancanze.
Questa concezione di laicità è stata condivisa e raccomandata anche dal Concilio Ecumenico Vaticano II, nel quale viene delineata una Chiesa aperta alle esigenze del mondo, attenta ai “segni dei tempi”, alla ricerca di un dialogo fecondo con il “Mondo” nelle sue varie dimensioni. Perciò, si rivendica per l’uomo una fede religiosa integrale, cioè che non può essere ridotta a un affare privato riguardante solo la sfera personale, poiché il credente, in quanto “laico”, non può né deve essere relegato nel recinto del suo tempio, così come chi professa idee diverse deve godere del diritto a realizzare nella vita sociale le sue idee. Il volere per forza chiudere il credente nella sua cappella o il pretendere di scacciare dal proprio recinto chi la pensa diversamente, fa parte d’un laicismo arrogante. Del resto, se si vuole una “Chiesa aperta al mondo” e disponibile a capirne e ad accoglierne – sia pur criticamente - le esigenze, si deve ammettere anche un “Mondo aperto alla chiesa”, disponibile, cioè, a comprendere e ad accettare – sia pur criticamente - le sue opinioni e le sue prese di posizione su temi pastorali, che abbiano eventuali implicazioni sociali e indirettamente anche politiche. Autorevoli pensatori religiosi hanno offerto frequenti esempi di questa chiarezza e continuano tuttora a testimoniare l’esigenza di rispettare la ragione e le sue frontiere. Essi, infatti, rivendicano il ruolo che il Vangelo può e deve avere nell’ispirare una visione del mondo e, quindi, nel contribuire a creare una società più giusta; ma, nello stesso tempo, sostengono che la predicazione del Cristo non può mai tradursi direttamente e immediatamente in articoli di legge, per cui esigono un senso profondo della distinzione tra Stato e Chiesa, tra ciò che spetta all'uno e ciò che spetta all'altra.
La laicità, però, s’oppone anche al cosiddetto pluralismo culturale, spesso falso e ostentato dalla società del nostro tempo, la quale esalta tutte le differenze, ma in realtà, sotto l’ingannevole apparenza d’accogliere tutto indistintamente, persegue soltanto il qualunquismo, in cui ogni proposta è considerata come “valore”: c’è posto per tutto e per tutti, perché in esso regna la più piatta indifferenza. Invece la laicità vera, quella che garantisce il pluralismo autentico, riconosce non tutto senza distinzione, ma ogni reale positività di chi operi con efficacia alla costruzione della vita dei popoli e degli stati, i quali non sono contenitori vuoti da riempire con tutto quello che si vuole, ma sono uno spazio, nel quale ciascuno può e deve portare il suo contributo all’edificazione del bene comune. Oggi c’è bisogno di questa laicità “nuova”, per ripartire verso traguardi di civiltà vera.
Il Tempo, in sé fluire di momenti transeunti che vanno accolti, si apre a un "oltre" custode Eterno di valori trascendenti che vanno abitati. Vicende e realtà tendono alla suprema fusione nell'infinita Totalità, anima di ogni Speranza.
martedì 8 marzo 2011
domenica 6 febbraio 2011
LA BIOETICA TRA SCIENZA DIRITTO E MORALE PER LA DIFESA DEI DIRITTI DELL’UOMO
Alla domanda perché sia nata la bioetica vengono date risposte differenti, perché esse vengono costruite su visioni storiche discordi e restano influenzate da interessi culturali diversi. Tuttavia, una tesi dominante è che la bioetica è nata per proteggere l’umanità dalle conquiste talora incontrollabili della scienza e dalle applicazioni spesso pericolose della tecnologia, per cui è ritenuta una disciplina “difensiva”, in quanto ad essa è delegato il compito di salvaguardare l’umanità dai pericoli che deriverebbero dal mondo della scienza, la quale, pertanto, deve essere riportata sotto la tutela della morale. Anche per questo motivo ogni altra idea e progetto di bioetica, che mirino ad evidenziare i non pochi benefici della scienza e a documentare i non trascurabili vantaggi della stessa tecnica ben applicata, sono visti come il tentativo ingannevole di prevaricare i limiti opportunamente segnati dal senso morale e dalle leggi delle società.
Per verificare l’attendibilità di queste affermazioni, sembra quanto mai opportuno partire da una constatazione indiscutibile: oggi viviamo in tempi dominati da grandi richieste, spesso paradossali e talora persino contrastanti. Infatti, alcuni pretendono d’affrettare la morte di chi soffre (eutanasia), altri gridano alla sacralità della vita e lottano per avere un trapianto; alcuni rivendicano la libertà assoluta per la ricerca scientifica (per giungere a debellare malattie ora inguaribili), altri reclamano la liceità e la bontà del rifiuto di terapie intensive e artificiose, condannate comunque all’insuccesso; alcuni predicano la sacralità inviolabile della vita, altri rivendicano l’irrinunciabile diritto-dovere di migliorarne sempre di più la qualità, rendendola più a dimensione della dignità della natura umana.
A questo punto, non solo è lecito chiedersi cosa determini questa situazione di conflittualità tra scienza medica, leggi della società e norme morali, ma è anche doveroso e urgente trovarvi soluzioni leali e risposte adeguate, considerato che rimangono coinvolti esseri umani (e talora non solo), che concretamente vivono una sola volta e che vogliono, perciò, capire sul serio il valore e il senso della loro vita, per accettare ragionevolmente le situazioni (positive e negative), nelle quali si trovano o potrebbero venire a trovarsi.
Come documenta tutta la tradizione (soprattutto quella che fa riferimento a Ippocrate) l’arte medica alle sue origini consisteva in una pratica clinica affidabile. Il medico, cioè, combatteva la malattia grazie alla sua esperienza; quindi, se un medico dimostrava con i fatti di possedere questa abilità, allora riscuoteva la fiducia dei pazienti, i quali lo giudicavano medico “dotto” e medico “buono”, in quanto con le sue conoscenze operava sempre bene, debellando sofferenze e ridando salute. In sostanza il medico dipendeva dal giudizio e dall’approvazione del paziente, che gli confermava o negava la fiducia oppure ne decretava l’inefficienza e la pericolosità. Il paziente si sottoponeva alle cure anche dolorose che il medico prescriveva, solo perchè era convinto che gli venivano prescritte secondo alcune norme e miravano esclusivamente al suo bene.
Con il trascorrere del tempo il contenuto del sapere della medicina muta gradualmente, arricchendosi sempre di più. Le conoscenze che il medico deve dimostrare di possedere cominciano a costituire il presupposto indispensabile per ogni suo intervento curativo. La medicina dovrà essere in grado di prevedere malattie e affezioni, che avrebbero interessato sia i singoli e sia le collettività; quindi, essa assume il ruolo di utilità anche sociale, potendo – attraverso una propria adeguata organizzazione - divenire lo strumento indispensabile per il mantenimento dell’igiene pubblica e per la tutela della salute d’intere società. Nello stesso tempo, però, scaturiscono le responsabilità anche delle pubbliche autorità, le quali, dovendo tutelare la salute di tutti i cittadini, hanno la responsabilità di “orientare” il sapere e l’arte medica attraverso leggi, alle quali dovranno attenersi sia gli operatori sanitari e sia i pazienti. Le scelte riguardanti la salute anche individuale non stanno più nelle mani del singolo paziente, ma passano attraverso le decisioni pubbliche della società, che attraverso le leggi dello Stato controlla la medicina.
Questo stato di cose genera una sorta di valida alleanza e d’operosa collaborazione tra società e scienza medica, in quanto era più semplice per tutti determinare un bene pubblico omogeneo d’un’intera comunità anziché capire e soddisfare le diverse esigenze dei singoli pazienti. Nello stesso tempo, però, per gli individui nascono delicati e spinosi problemi su cosa intendere e cosa fare per la tutela della salute “propria”, dal momento che – in sostanza - è lo Stato che con la forza dei suoi ordinamenti giuridici decreta l’inizio e la fine della vita, decide quali interventi sono leciti e quali vietati, determina quali scelte sono possibili e quali vietate.ù
I problemi s’accrescono e s’acuiscono ancora di più, quando la scienza conquista nuove conoscenze importanti, che la medicina, però, non può rendere operative per colpa dell’autorità politica, che non riesce a deliberare a tempo debito regole di comportamento adeguate ed efficienti. La situazione s’aggrava ulteriormente, quando al processo di Norimberga emerge che in Germania, che aveva tutta una propria legislazione a garanzia della sperimentazione scientifica, gli internati d’un campo di concentramento erano stati usati per la sperimentazione. E’ a questo punto che nasce e s’impone la bioetica, con lo scopo di sollecitare una possibile armonia tra l’utilità della scienza medica e la tempestività di norme comportamentali. Quindi, storicamente la bioetica nasce per garantire la dignità dell’uomo, pesantemente violata dall’irresponsabilità di certi ricercatori scientifici e gravemente compromessa dall’inerzia legislativa degli Stati. Essa intende raggiungere questo scopo mediante due suggerimenti: riportare al centro delle scelte mediche la libera volontà del singolo cittadino, che deve ritornare ad essere il primo e maggiore protagonista nelle decisioni riguardanti il suo diritto alla salute e ripristinare la fiducia nella vera scienza, intesa come forma di conoscenza controllata e continuamente rielaborata attraverso metodi trasparenti e socialmente aperti, in quanto così non rappresenta un pericolo per l’uomo; anzi, al contrario, rappresenta il sistema più efficace per la tutela dell’ambiente e per la soluzione di problemi, che l’evoluzione biologica e quella culturale hanno prodotto e producono nella lunga storia della vita sulla terra.
Si nota facilmente come in tutto questo contesto rimane quasi scontato il presupposto che la medicina e la scienza in genere debbano essere ancorate e racchiuse naturalmente da regole morali. Ed è giusto. Come è giusto che, dinanzi alla fallibilità e addirittura alla devianza disumana di certa sperimentazione scientifica, la morale intervenga con decisione e fissi con chiarezza dei limiti ben precisi a difesa della vita umana; e ciò vale soprattutto da quando alcuni Stati si sono dimostrati incapaci di tutelarne i diritti contro l’imbarbarimento generato da certo mercato dei prodotti realizzati grazie alla ricerca scientifica. Solo che queste regole morali spesso pretendono di essere valide perennemente, se non addirittura in sé e per sé immutabili e, quindi, inviolabili, tanto da ritenerle naturalmente incorporate in qualunque campo scientifico. Ma forse non è proprio così. Infatti le norme della morale, nella scienza e in ogni campo dell’agire umano, debbono accompagnare e seguire anche i mutamenti storici e gli avanzamenti culturali, a rischio di rimanere inefficaci e sterili, quando non addirittura dannose, in quanto incapaci a indicare giuste finalità e di proporre opportune modalità. E questa è un’opinione fondata su riscontri di fatto. Infatti, se si esaminano alcuni problemi fondamentali, che stanno alla base della bioetica (quali, ad esempio, l’aborto e l’eutanasia), non è difficile notare che essi sono divenuti “problemi” non in seguito ai progressi e ai mutamenti ritenuti incontrollati della scienza, e nemmeno del tutto all’incapacità politica di legiferare, ma anche (e, in qualche caso, soprattutto) alla tenacia persistente e inamovibile di certe dottrine etiche, che, a differenza di altre, non hanno mai accolto né condiviso alcune valutazioni morali. E’ opportuno, allora, precisare che lo sviluppo scientifico ha solo messo in evidenza alcuni conflitti morali già da tempo sorti all’interno dell’etica, e da tempo discussi tra alcune posizioni etiche dominanti e altre rimaste, invece, minoritarie. Sotto questo aspetto, forse sarebbe più utile che le diverse teorie etiche aprissero tra di loro un dialogo aperto e leale, al fine di riconsiderare e rifondare alcuni principi fondamentali etici, da cui ricavare adeguate norme attuative, che mirino non all’affermazione di qualche posizione predominante, ma alla garanzia dell’autonomia e della libertà dell’uomo, unico e ultimo responsabile della propria coscienza.
Per verificare l’attendibilità di queste affermazioni, sembra quanto mai opportuno partire da una constatazione indiscutibile: oggi viviamo in tempi dominati da grandi richieste, spesso paradossali e talora persino contrastanti. Infatti, alcuni pretendono d’affrettare la morte di chi soffre (eutanasia), altri gridano alla sacralità della vita e lottano per avere un trapianto; alcuni rivendicano la libertà assoluta per la ricerca scientifica (per giungere a debellare malattie ora inguaribili), altri reclamano la liceità e la bontà del rifiuto di terapie intensive e artificiose, condannate comunque all’insuccesso; alcuni predicano la sacralità inviolabile della vita, altri rivendicano l’irrinunciabile diritto-dovere di migliorarne sempre di più la qualità, rendendola più a dimensione della dignità della natura umana.
A questo punto, non solo è lecito chiedersi cosa determini questa situazione di conflittualità tra scienza medica, leggi della società e norme morali, ma è anche doveroso e urgente trovarvi soluzioni leali e risposte adeguate, considerato che rimangono coinvolti esseri umani (e talora non solo), che concretamente vivono una sola volta e che vogliono, perciò, capire sul serio il valore e il senso della loro vita, per accettare ragionevolmente le situazioni (positive e negative), nelle quali si trovano o potrebbero venire a trovarsi.
Come documenta tutta la tradizione (soprattutto quella che fa riferimento a Ippocrate) l’arte medica alle sue origini consisteva in una pratica clinica affidabile. Il medico, cioè, combatteva la malattia grazie alla sua esperienza; quindi, se un medico dimostrava con i fatti di possedere questa abilità, allora riscuoteva la fiducia dei pazienti, i quali lo giudicavano medico “dotto” e medico “buono”, in quanto con le sue conoscenze operava sempre bene, debellando sofferenze e ridando salute. In sostanza il medico dipendeva dal giudizio e dall’approvazione del paziente, che gli confermava o negava la fiducia oppure ne decretava l’inefficienza e la pericolosità. Il paziente si sottoponeva alle cure anche dolorose che il medico prescriveva, solo perchè era convinto che gli venivano prescritte secondo alcune norme e miravano esclusivamente al suo bene.
Con il trascorrere del tempo il contenuto del sapere della medicina muta gradualmente, arricchendosi sempre di più. Le conoscenze che il medico deve dimostrare di possedere cominciano a costituire il presupposto indispensabile per ogni suo intervento curativo. La medicina dovrà essere in grado di prevedere malattie e affezioni, che avrebbero interessato sia i singoli e sia le collettività; quindi, essa assume il ruolo di utilità anche sociale, potendo – attraverso una propria adeguata organizzazione - divenire lo strumento indispensabile per il mantenimento dell’igiene pubblica e per la tutela della salute d’intere società. Nello stesso tempo, però, scaturiscono le responsabilità anche delle pubbliche autorità, le quali, dovendo tutelare la salute di tutti i cittadini, hanno la responsabilità di “orientare” il sapere e l’arte medica attraverso leggi, alle quali dovranno attenersi sia gli operatori sanitari e sia i pazienti. Le scelte riguardanti la salute anche individuale non stanno più nelle mani del singolo paziente, ma passano attraverso le decisioni pubbliche della società, che attraverso le leggi dello Stato controlla la medicina.
Questo stato di cose genera una sorta di valida alleanza e d’operosa collaborazione tra società e scienza medica, in quanto era più semplice per tutti determinare un bene pubblico omogeneo d’un’intera comunità anziché capire e soddisfare le diverse esigenze dei singoli pazienti. Nello stesso tempo, però, per gli individui nascono delicati e spinosi problemi su cosa intendere e cosa fare per la tutela della salute “propria”, dal momento che – in sostanza - è lo Stato che con la forza dei suoi ordinamenti giuridici decreta l’inizio e la fine della vita, decide quali interventi sono leciti e quali vietati, determina quali scelte sono possibili e quali vietate.ù
I problemi s’accrescono e s’acuiscono ancora di più, quando la scienza conquista nuove conoscenze importanti, che la medicina, però, non può rendere operative per colpa dell’autorità politica, che non riesce a deliberare a tempo debito regole di comportamento adeguate ed efficienti. La situazione s’aggrava ulteriormente, quando al processo di Norimberga emerge che in Germania, che aveva tutta una propria legislazione a garanzia della sperimentazione scientifica, gli internati d’un campo di concentramento erano stati usati per la sperimentazione. E’ a questo punto che nasce e s’impone la bioetica, con lo scopo di sollecitare una possibile armonia tra l’utilità della scienza medica e la tempestività di norme comportamentali. Quindi, storicamente la bioetica nasce per garantire la dignità dell’uomo, pesantemente violata dall’irresponsabilità di certi ricercatori scientifici e gravemente compromessa dall’inerzia legislativa degli Stati. Essa intende raggiungere questo scopo mediante due suggerimenti: riportare al centro delle scelte mediche la libera volontà del singolo cittadino, che deve ritornare ad essere il primo e maggiore protagonista nelle decisioni riguardanti il suo diritto alla salute e ripristinare la fiducia nella vera scienza, intesa come forma di conoscenza controllata e continuamente rielaborata attraverso metodi trasparenti e socialmente aperti, in quanto così non rappresenta un pericolo per l’uomo; anzi, al contrario, rappresenta il sistema più efficace per la tutela dell’ambiente e per la soluzione di problemi, che l’evoluzione biologica e quella culturale hanno prodotto e producono nella lunga storia della vita sulla terra.
Si nota facilmente come in tutto questo contesto rimane quasi scontato il presupposto che la medicina e la scienza in genere debbano essere ancorate e racchiuse naturalmente da regole morali. Ed è giusto. Come è giusto che, dinanzi alla fallibilità e addirittura alla devianza disumana di certa sperimentazione scientifica, la morale intervenga con decisione e fissi con chiarezza dei limiti ben precisi a difesa della vita umana; e ciò vale soprattutto da quando alcuni Stati si sono dimostrati incapaci di tutelarne i diritti contro l’imbarbarimento generato da certo mercato dei prodotti realizzati grazie alla ricerca scientifica. Solo che queste regole morali spesso pretendono di essere valide perennemente, se non addirittura in sé e per sé immutabili e, quindi, inviolabili, tanto da ritenerle naturalmente incorporate in qualunque campo scientifico. Ma forse non è proprio così. Infatti le norme della morale, nella scienza e in ogni campo dell’agire umano, debbono accompagnare e seguire anche i mutamenti storici e gli avanzamenti culturali, a rischio di rimanere inefficaci e sterili, quando non addirittura dannose, in quanto incapaci a indicare giuste finalità e di proporre opportune modalità. E questa è un’opinione fondata su riscontri di fatto. Infatti, se si esaminano alcuni problemi fondamentali, che stanno alla base della bioetica (quali, ad esempio, l’aborto e l’eutanasia), non è difficile notare che essi sono divenuti “problemi” non in seguito ai progressi e ai mutamenti ritenuti incontrollati della scienza, e nemmeno del tutto all’incapacità politica di legiferare, ma anche (e, in qualche caso, soprattutto) alla tenacia persistente e inamovibile di certe dottrine etiche, che, a differenza di altre, non hanno mai accolto né condiviso alcune valutazioni morali. E’ opportuno, allora, precisare che lo sviluppo scientifico ha solo messo in evidenza alcuni conflitti morali già da tempo sorti all’interno dell’etica, e da tempo discussi tra alcune posizioni etiche dominanti e altre rimaste, invece, minoritarie. Sotto questo aspetto, forse sarebbe più utile che le diverse teorie etiche aprissero tra di loro un dialogo aperto e leale, al fine di riconsiderare e rifondare alcuni principi fondamentali etici, da cui ricavare adeguate norme attuative, che mirino non all’affermazione di qualche posizione predominante, ma alla garanzia dell’autonomia e della libertà dell’uomo, unico e ultimo responsabile della propria coscienza.
lunedì 3 gennaio 2011
LA BIOETICA: DISCIPLINA CHE SI COSTRUISCE COL DIALOGO PER LA RICERCA DEI PRINCÌPI UMANISTICI
La bioetica è la parte dell’etica, che studia i fenomeni della vita organica e va alla ricerca di risposte efficaci ai problemi relativi alla procreazione, alla vita e all’estinzione dell’essere umano; alle problematiche, cioè, riguardanti la nascita e lo sviluppo del corpo, l’età matura e la vecchiaia, la salute e la malattia, la morte. L’etica (e, quindi, anche la bioetica) è una disciplina che si fonda sulla ragione umana, in quanto cerca di conoscere con severità razionale i fondamenti generali, sui quali sarà stabilito quali comportamenti dell’uomo sono buoni, giusti e moralmente leciti, e quali, invece, sono cattivi, ingiusti e moralmente scorretti. L'etica e la bioetica, pertanto, non possono costruirsi su basi solamente sentimentali o riconducibili soprattutto a slanci emotivi d’umana solidarietà e d’amorevole compassione, che rimangono certamente sentimenti inviolabili e degni di rispetto, ma inadeguati a trovare e a mostrare la strada che nelle scelte morali devono imboccare sia gli individui che le società. Solo una disciplina sistemata con rigore logico può gettare le basi e fissare i limiti, entro i quali nè potrà né dovrà spingersi la libera volontà degli uomini e la legittima autorità degli stati.
Nella bioetica bisogna distinguere la parte “descrittiva” e la parte “normativa”.Nella bioetica “descrittiva” s’osservano e si descrivono i comportamenti riscontrabili degli uomini, al fine di capire i motivi veri della loro condotta morale e di rendere comprensibili gli atteggiamenti realmente presenti e operanti in un ben preciso contesto sociale e culturale; nella bioetica “normativa”, invece, s’individuano alcuni principi generali, sui quali si dovrà regolare il comportamento umano e dai quali successivamente si dovranno ricavare norme precise per la soluzione concreta delle singole situazioni reali. Sono entrambe parti d’estrema importanza, anche se una certa priorità va riconosciuta alla bioetica “normativa”, in quanto essa tratta i principi generali che indicano i valori da rispettare e i fini da cercare di raggiungere. Anche perché, mentre nell’ambito delle norme pratiche possono verificarsi scontri duri e contrapposizioni inconciliabili, invece, nell’ambito dei principi (che, per quanto diversi, non sono mai contraddittori, ma solo differenti e, quindi, negoziabili) non solo è possibile, ma addirittura s’impone la necessità di confrontarsi e di discutere, per raggiungere alcuni “compromessi” concepibili nel rispetto d’una scala di valori essenziali concordati, condivisi, accettati e difesi.
Così definita la bioetica, emergono due conseguenze evidenti e necessarie: in primo luogo, che essa non potrà essere mai una disciplina fissata una volta per tutte e, quindi, immutabile e valida in ogni tempo e in ogni luogo; e, in secondo luogo, che essa non è una materia assolutamente autonoma e indipendente. Infatti, con l’avanzare delle conoscenze e con il progredire delle tecnologie mutano continuamente i costumi del vivere civile, emergono sempre nuovi criteri di valutazione del comune senso morale, nascono improvvisi nuovi campi d’interesse: e da tutto ciò si generano difficoltà nuove e spesso imprevedibili, che a loro volta pongono questioni globali, che coinvolgono sempre e comunque l’essere umano in tutta la sua integralità di corpo e anima, di materia e spirito. E’ assolutamente inevitabile, allora, che si sconfini dall’ambito esclusivo della bioetica e si entri nel campo di altre discipline, il cui il contributo diventa indispensabile e insostituibile.
In ogni caso la bioetica dovrà affrontare problematiche delicate e complesse, che innegabilmente toccano sempre l’intimità più sacra dell’essere umano, che si dibatte nello sforzo di scoprire davvero il significato ultimo della sua vita e di fare onestamente le scelte più giuste per realizzarlo. Per questo la bioetica ha bisogno del contributo forte, responsabile e generoso di uomini in possesso d’una formazione qualificata, d’un’esperienza consolidata e di abilità provata; essa richiede, cioè, una salda e sicura esperienza professionale e morale, che s’acquista solo mediante l’osservazione continua, attenta, umile e indulgente dei comportamenti umani, e che si consolida solo mediante il lavoro quotidiano compiuto con benevola partecipazione e con umano coinvolgimento nel capire, nel vivere e nel risolvere i difficili problemi riguardanti la vita, la salute, la malattia, la sofferenza e la morte. Il primo sostegno richiesto è quello del medico, il quale, però, non intenda la sua professione come una merce né amministri la malattia come un funzionario, ma che, sempre con il dovuto distacco professionale, sappia percepire e condividere paure e speranze, angosce e aspettative del proprio “paziente”, instaurando con lui un rapporto anche di premurosi sentimenti di sincera umanità. Indispensabile, poi, è l’apporto dello scienziato biologo, il quale, mantenendo continui contatti con tutti gli altri soggetti interessati, metterà a disposizione le conquiste delle sue ricerche e i progressi della tecnologia. Decisiva, inoltre, è la collaborazione del giurista esperto nell’organizzare un ordinato e aggiornato registro, in cui annotare e comparare il maggior numero possibile di casi concreti, in base ai quali sia possibile verificare l’attuabilità dei principi generali. Infine, alla bioetica non può né deve mancare il sostegno del filosofo e il supporto del teologo, i quali, risalendo dalle problematiche poste dalla scienza alle questioni etiche generali, individueranno alcuni principi morali capaci di guidare la condotta da seguire nelle singole situazioni concrete.
Da queste considerazioni consegue che nel campo della bioetica nessuno - per quanto ricco di esperienza, di studi e di conoscenze - può ritenersi autosufficiente, cioè del tutto completo ed esaustivo. La bioetica avanza e si consolida solo mediante il dialogo aperto e leale tra medico, scienziato, giurista, filosofo, teologo e chiunque altro ritenga di avere qualche esperienza da comunicare e qualche valore da rivendicare. Lo spirito davvero autentico e validamente costruttivo della bioetica, quindi, sta nel dialogo: cioè, nella disponibilità di tutti a recepire con umiltà le varie opinioni, a vagliare con lealtà le idee differenti o addirittura contrastanti, a ponderare pacatamente le diverse argomentazioni, a prestare attenzione alle sensibilità anche più lontane. Questo atteggiamento, peraltro, non significherà mai un rinunciare al coraggio di dichiarare, difendere e applicare con fermezza i principi generali, cui si sia pervenuti con mente aperta e sincera e che siano stati condivisi con ragionevole chiarezza.
Non esiste, pertanto, una bioetica vera e tutte le altre false; nell’etica e nella bioetica non c’è posto per il vero e per il falso, in quanto in esse sta raccolto e conservato l’intero insieme delle risposte, che nel corso d’innumerevoli anni sono state date alle molte, diverse, nuove, imprevedibili domande, che situazioni problematiche spesso immediate hanno posto davanti alla ragione e alla volontà dei singoli e delle società. Del resto è sufficiente considerare come nel tempo si sono evoluti gli stessi principi generali etici e come, conseguentemente, sono cambiate molte posizioni morali, per rendersi conto che tutta la bioetica non è un qualcosa di astratto e che viene dal vuoto, ma è il risultato testimoniato delle scelte, che uomini e società hanno fatto in ben definiti contesti culturali prevalenti e in situazioni socio-economiche dominanti. Non c’è, quindi, alcun motivo valido, per cui si possa ritenere che la risposta di uno debba valere necessariamente anche per tutti gli altri; ma ognuno presenterà il suo problema, ipotizzerà la sua opinione, argomenterà il suo convincimento e lo offrirà agli altri, affinchè lo vaglino, lo giudichino ed eventualmente decidano se e fino a che punto possano condividerlo ed accoglierlo. In bioetica, dunque, ognuno deve poter seguire la propria strada, ovviamente sempre entro i confini stabiliti secondo i principi generali discussi e condivisi.
In questa prospettiva s’introduce anche nel campo della bioetica quel principio basilare – anch’esso per sua stessa natura fortemente “etico”, in quanto sostenuto da una valida scelta “etica” - della tolleranza. Pensare e agire secondo lo spirito “etico”, proprio della tolleranza, significa consentire a ogni cittadino di avere una propria opinione ragionevole, di fare una sua scelta responsabile, di esprimere senza timori il suo pensiero e di realizzare i convincimenti che gli suggeriscono la sua conoscenza e la sua coscienza; nella cultura della tolleranza, cioè, nessuno può imporre a un altro il proprio pensiero né può impedire ad altri di vivere secondo la propria visione di vita. Ovviamente anche la tolleranza è circoscritta da limiti ben definiti e assolutamente invalicabili, sintetizzabili tutti nel valore inviolabile del rispetto della dignità di ogni “altro”, dall’istante del suo concepimento al momento della sua morte. A garantire l’ossequio assiduo e il più rispettoso possibile di questo valore sono indirizzati il diritto e la morale. Il primo come struttura, che le società si danno per offrire norme precise per la convivenza e la collaborazione produttiva; la seconda come appello esclusivo dell’animo umano, che detta a ogni individuo i comportamenti da tenere nei diversi casi della vita. Comportamenti spesso difficili a comprendersi e a condividere, talora anche “fuori da ogni ragione”, ma tuttavia sempre profondamente “umani” e degni di rispetto.
Nella bioetica bisogna distinguere la parte “descrittiva” e la parte “normativa”.Nella bioetica “descrittiva” s’osservano e si descrivono i comportamenti riscontrabili degli uomini, al fine di capire i motivi veri della loro condotta morale e di rendere comprensibili gli atteggiamenti realmente presenti e operanti in un ben preciso contesto sociale e culturale; nella bioetica “normativa”, invece, s’individuano alcuni principi generali, sui quali si dovrà regolare il comportamento umano e dai quali successivamente si dovranno ricavare norme precise per la soluzione concreta delle singole situazioni reali. Sono entrambe parti d’estrema importanza, anche se una certa priorità va riconosciuta alla bioetica “normativa”, in quanto essa tratta i principi generali che indicano i valori da rispettare e i fini da cercare di raggiungere. Anche perché, mentre nell’ambito delle norme pratiche possono verificarsi scontri duri e contrapposizioni inconciliabili, invece, nell’ambito dei principi (che, per quanto diversi, non sono mai contraddittori, ma solo differenti e, quindi, negoziabili) non solo è possibile, ma addirittura s’impone la necessità di confrontarsi e di discutere, per raggiungere alcuni “compromessi” concepibili nel rispetto d’una scala di valori essenziali concordati, condivisi, accettati e difesi.
Così definita la bioetica, emergono due conseguenze evidenti e necessarie: in primo luogo, che essa non potrà essere mai una disciplina fissata una volta per tutte e, quindi, immutabile e valida in ogni tempo e in ogni luogo; e, in secondo luogo, che essa non è una materia assolutamente autonoma e indipendente. Infatti, con l’avanzare delle conoscenze e con il progredire delle tecnologie mutano continuamente i costumi del vivere civile, emergono sempre nuovi criteri di valutazione del comune senso morale, nascono improvvisi nuovi campi d’interesse: e da tutto ciò si generano difficoltà nuove e spesso imprevedibili, che a loro volta pongono questioni globali, che coinvolgono sempre e comunque l’essere umano in tutta la sua integralità di corpo e anima, di materia e spirito. E’ assolutamente inevitabile, allora, che si sconfini dall’ambito esclusivo della bioetica e si entri nel campo di altre discipline, il cui il contributo diventa indispensabile e insostituibile.
In ogni caso la bioetica dovrà affrontare problematiche delicate e complesse, che innegabilmente toccano sempre l’intimità più sacra dell’essere umano, che si dibatte nello sforzo di scoprire davvero il significato ultimo della sua vita e di fare onestamente le scelte più giuste per realizzarlo. Per questo la bioetica ha bisogno del contributo forte, responsabile e generoso di uomini in possesso d’una formazione qualificata, d’un’esperienza consolidata e di abilità provata; essa richiede, cioè, una salda e sicura esperienza professionale e morale, che s’acquista solo mediante l’osservazione continua, attenta, umile e indulgente dei comportamenti umani, e che si consolida solo mediante il lavoro quotidiano compiuto con benevola partecipazione e con umano coinvolgimento nel capire, nel vivere e nel risolvere i difficili problemi riguardanti la vita, la salute, la malattia, la sofferenza e la morte. Il primo sostegno richiesto è quello del medico, il quale, però, non intenda la sua professione come una merce né amministri la malattia come un funzionario, ma che, sempre con il dovuto distacco professionale, sappia percepire e condividere paure e speranze, angosce e aspettative del proprio “paziente”, instaurando con lui un rapporto anche di premurosi sentimenti di sincera umanità. Indispensabile, poi, è l’apporto dello scienziato biologo, il quale, mantenendo continui contatti con tutti gli altri soggetti interessati, metterà a disposizione le conquiste delle sue ricerche e i progressi della tecnologia. Decisiva, inoltre, è la collaborazione del giurista esperto nell’organizzare un ordinato e aggiornato registro, in cui annotare e comparare il maggior numero possibile di casi concreti, in base ai quali sia possibile verificare l’attuabilità dei principi generali. Infine, alla bioetica non può né deve mancare il sostegno del filosofo e il supporto del teologo, i quali, risalendo dalle problematiche poste dalla scienza alle questioni etiche generali, individueranno alcuni principi morali capaci di guidare la condotta da seguire nelle singole situazioni concrete.
Da queste considerazioni consegue che nel campo della bioetica nessuno - per quanto ricco di esperienza, di studi e di conoscenze - può ritenersi autosufficiente, cioè del tutto completo ed esaustivo. La bioetica avanza e si consolida solo mediante il dialogo aperto e leale tra medico, scienziato, giurista, filosofo, teologo e chiunque altro ritenga di avere qualche esperienza da comunicare e qualche valore da rivendicare. Lo spirito davvero autentico e validamente costruttivo della bioetica, quindi, sta nel dialogo: cioè, nella disponibilità di tutti a recepire con umiltà le varie opinioni, a vagliare con lealtà le idee differenti o addirittura contrastanti, a ponderare pacatamente le diverse argomentazioni, a prestare attenzione alle sensibilità anche più lontane. Questo atteggiamento, peraltro, non significherà mai un rinunciare al coraggio di dichiarare, difendere e applicare con fermezza i principi generali, cui si sia pervenuti con mente aperta e sincera e che siano stati condivisi con ragionevole chiarezza.
Non esiste, pertanto, una bioetica vera e tutte le altre false; nell’etica e nella bioetica non c’è posto per il vero e per il falso, in quanto in esse sta raccolto e conservato l’intero insieme delle risposte, che nel corso d’innumerevoli anni sono state date alle molte, diverse, nuove, imprevedibili domande, che situazioni problematiche spesso immediate hanno posto davanti alla ragione e alla volontà dei singoli e delle società. Del resto è sufficiente considerare come nel tempo si sono evoluti gli stessi principi generali etici e come, conseguentemente, sono cambiate molte posizioni morali, per rendersi conto che tutta la bioetica non è un qualcosa di astratto e che viene dal vuoto, ma è il risultato testimoniato delle scelte, che uomini e società hanno fatto in ben definiti contesti culturali prevalenti e in situazioni socio-economiche dominanti. Non c’è, quindi, alcun motivo valido, per cui si possa ritenere che la risposta di uno debba valere necessariamente anche per tutti gli altri; ma ognuno presenterà il suo problema, ipotizzerà la sua opinione, argomenterà il suo convincimento e lo offrirà agli altri, affinchè lo vaglino, lo giudichino ed eventualmente decidano se e fino a che punto possano condividerlo ed accoglierlo. In bioetica, dunque, ognuno deve poter seguire la propria strada, ovviamente sempre entro i confini stabiliti secondo i principi generali discussi e condivisi.
In questa prospettiva s’introduce anche nel campo della bioetica quel principio basilare – anch’esso per sua stessa natura fortemente “etico”, in quanto sostenuto da una valida scelta “etica” - della tolleranza. Pensare e agire secondo lo spirito “etico”, proprio della tolleranza, significa consentire a ogni cittadino di avere una propria opinione ragionevole, di fare una sua scelta responsabile, di esprimere senza timori il suo pensiero e di realizzare i convincimenti che gli suggeriscono la sua conoscenza e la sua coscienza; nella cultura della tolleranza, cioè, nessuno può imporre a un altro il proprio pensiero né può impedire ad altri di vivere secondo la propria visione di vita. Ovviamente anche la tolleranza è circoscritta da limiti ben definiti e assolutamente invalicabili, sintetizzabili tutti nel valore inviolabile del rispetto della dignità di ogni “altro”, dall’istante del suo concepimento al momento della sua morte. A garantire l’ossequio assiduo e il più rispettoso possibile di questo valore sono indirizzati il diritto e la morale. Il primo come struttura, che le società si danno per offrire norme precise per la convivenza e la collaborazione produttiva; la seconda come appello esclusivo dell’animo umano, che detta a ogni individuo i comportamenti da tenere nei diversi casi della vita. Comportamenti spesso difficili a comprendersi e a condividere, talora anche “fuori da ogni ragione”, ma tuttavia sempre profondamente “umani” e degni di rispetto.
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