Il Tempo, in sé fluire di momenti transeunti che vanno accolti, si apre a un "oltre" custode Eterno di valori trascendenti che vanno abitati. Vicende e realtà tendono alla suprema fusione nell'infinita Totalità, anima di ogni Speranza.

sabato 18 dicembre 2021

 

IL POSTPANDEMIA: 

CIVILTÀ DEI CONSUMI O CIVILTÀ DELL’UOMO

 

In questi ultimi tempi, aggrediti e dominati dalla virulenta pandemia del Covid-19, che col suo variare repentino e imprevedibile sembra non lasciare facile scampo all’umanità dell’intero pianeta Terra, s’assiste quotidianamente  un po’ ovunque, ma soprattutto nei Paesi del Vecchio Continente  e, quindi, anche in Italia - attraverso i numerosi e vari mezzi di comunicazione - alla girandola di notizie che ci travolgono riguardo allo stato dell’infezione sanitaria e alle conseguenti criticità sociali causate dalla particolare congiuntura economico-finanziaria dei vari Stati. Ogni comunicazione si conclude sempre con un’analisi dettagliata dell’andamento epidemiologico, con un accorto commento alle statistiche sanitarie e con qualche azzardata previsione in campo economico-finanziario. Ma è su quest’ultimo aspetto, tuttavia, che s’appunta maggiormente l’attenzione generale dei responsabili dei governi delle nazioni, i quali indugiano con responsabile prudenza a offrire ai popoli un quadro della situazione certamente realistico, ma anche aperto a cauto ottimismo, onde attenuare i diffusi sentimenti di sfiducia e di paura. Con quest’atteggiamento, assolutamente comprensibile e apprezzabile, si  vela, comunque, quella che è la principale vera preoccupazione che agita il pensiero dei potenti del mondo: la dimensione economica delle nazioni è vissuta, di fatto, come il primo problema umano e sociale generato dalla crisi sanitaria e che deve essere affrontato con decisione e risolto con tempestività. La crisi sanitaria, quindi, genera la crisi economico-finanziaria, da cui derivano le situazioni problematiche dei consumi e delle produzioni e, di conseguenza, delle opportunità lavorative e occupazionali.

In verità, sono tutti elementi costitutivi della vita umana e sociale e, quindi, momenti essenziali della consueta quotidianità tanto dei singoli quanto delle collettività. Si tratta, pertanto, di aspetti assolutamente sostanziali e ugualmente necessari della vita dei popoli e delle nazioni. Però, a ben considerarli in sé stessi e tentare poi di riscontrarne il rispetto da parte dell’azione  dell’odierna politica - caduta in balìa degli avversi nazionalismi e partitismi e corredata perlopiù solo di miopi e grette mire egoistiche e personalistiche del tutto  ignare del bene comune – si rivelano deficitari, in quanto parziali, insufficienti e gravemente inadeguati per una visione concettuale e fattuale, che ambisca a essere davvero integrale umanamente e dalle ampie dimensioni del mondo universale. L’odierna crisi pandemica, infatti, è globale e coinvolge tutte le realtà umane e sociali, a partire dall’alto dei mercati finanziari, per finire a condizionare pesantemente e determinare incisivamente l'economia reale, con la quale il popolo fa e deve fare i conti quotidianamente, con l’animo tremante, perché pendulo tra timori e speranze, tra diffusa confusione d’incertezze e fuggevoli sprazzi di lucidità angosciante, tra calma padronanza di sé e malcelata ira contenuta e sorda. E’ la vita concreta che ogni giorno sostiene la gente - rapportata alle laute negoziazioni dei mercati finanziari - che costringe a ripensare alcuni concetti fondamentali e ad aggiornare alcuni atteggiamenti comuni alla base della relazione tra economia, finanza, lavoro e sviluppo.

Negli ultimi tempi da più parti s’immagina e si progetta - anche e a giusta ragione – un probabile assetto delle nazioni e delle società nel prossimo futuro post-pandemico, e l’attenzione generale è volta soprattutto all’individuazione del come spendere le risorse da destinare ai diversi settori. Il suggerimento dominante è di cogliere l’opportunità e non sprecare energie per ottenere aggiornamenti e modernizzazioni; e dai diversi schieramenti politici e corpi sociali produttivi si snocciola un caldeggiato elenco magico di obiettivi: ripartenza, sostenibilità, transizione ecologica; ovviamente con l’occhio sempre puntato al Prodotto Interno Lordo. Tutti questi obiettivi sono da perseguire assolutamente, in quanto  necessari per la strutturazione della vita umana consociata; ma, così come sono proposti e perseguiti, rischiano di oscurare le finalità primarie e gli obiettivi fondamentali richiesti dal nuovo corso storico, che attende ogni cittadino spettatore e testimone di questa sciagurata calamità. Superare, infatti, l’emergenza sanitaria e risolvere al meglio la congiuntura economica significa solo aver mirato a modernizzare il futuro, senza favorirne nello stesso tempo il processo altrettanto vitale di civilizzazione e acculturazione, così come è sancito nella Costituzione Italiana, costantemente vigile e attenta a garantire e proteggere il benessere d’ogni cittadino in qualunque situazione sociale si trovi. Oggi viviamo in tempi di strabilianti innovazioni, ma anche di inquietanti forme di schiavitù salariale, sociale, tecnologica. Sono queste le dimensioni esistenziali, che rivendica e reclama il dovere civico e morale della giustizia sociale e della verità.

 Giova ricordare a questo riguardo quanto raccomandò già nel 1969 Aldo Moro: «Sia dunque ben chiaro che, quando si parla di un giusto controllo dell’economia e di rapporti umani, su base di autonomia, dignità e responsabilità nell’ambiente di lavoro, non si discute solo di efficienza produttiva, ma di condizione sociale della persona, di qualche cosa che va al di là della pur naturale rivendicazione di benessere e della giustizia, per toccare la posizione dell’uomo ed il suo modo di essere, il solo accettabile ed appagante, nella società. (…).  Si riscatta la persona dall’inquietudine e dallo scontento, che il solo benessere non riesce a placare. In una tale condizione c’è un lavoro da compiere ed una disciplina da accettare. Ma è importante e caratterizzante che in essi si esprima l’uomo non come servo della macchina, della tecnica, dei padroni, del potere, ma come libero e responsabile protagonista d vita sociale e politica».

 

 

 

venerdì 8 ottobre 2021

 

 LA RICERCA DEL SENSO DELLA VITA
tra assurdo e assurdità del non-senso

 

Che si esista è un dato fattuale chiaro ed evidente e, quindi, indubitabile e indiscutibile. L’inizio (con la nascita) e la fine (con la morte) d’ogni esistenza sono ugualmente realtà perlopiù ignote, ma concretamente sicure, certe e incontrovertibili: niente e nessuno sa come e quando si nasce, ma tutti e ciascuno ci si scorge improvvisamente gettati nel mondo degli esistenti e dei viventi e, pertanto, necessariamente destinato anche a uscirne fuori e scomparire - un qualche giorno talora desiderato e invocato, ma sempre paurosamente atteso e intimamene temuto - in qualche abissale voragine nascosta e  ignota, ma che tutto fagocita e divora.

Una vita, dunque, consiste sostanzialmente nell’arco di tempo compreso tra il momento della nascita e dell’apparire e il momento della morte e dello scomparire: itinerario evolutivo destinato per tutte le realtà singole e collettive. E’ in questo spazio temporale che si generano, avvengono, si affrontano e si giocano tutte le partite d’ogni esistenza. E ogni accadimento occupa e consuma una particella di tempo: lunga e d’ampio respiro o piccola e di breve durata, pur sempre una porzione costitutiva del patrimonio temporale - ben pre-determinato - da ogni realtà ricevuto in dotazione. Questo vale per il singolo individuo, per le varie forme associative di vita e di comunità di persone e di popoli, nel loro susseguirsi e nel loro mutare nel tempo. Per tutte le realtà l’esistenza è fondamentalmente il poter e voler conoscere veramente il senso del proprio essere sulla terra e realizzare totalmente se stessi durante l’inesorabile silenzioso scorrere e consumarsi del tempo a lui concesso, ma forse tendente verso l’infinito.

L’esistente umano, in particolare, per ricercare e trovare un qualche senso attinente o pertinente alla sua vita, ha almeno tre vie alternative, che può imboccare e percorrere. La prima: chiedersi e tentare d’indovinare quando, come e perché è pervenuto alla sua esistenza nel mondo; la seconda: indagare per quale causa agente e per quale nuova ignota destinazione - finalizzata o casuale - debba estinguersi e sparire dal pianeta terrestre. Cioè, può avviare e sostenere il suo itinerario d’indagine esistenziale, o partendo dal mistero talora angosciante della sua nascita o meditando sull’ineluttabile cogente necessità della sua morte. Rimane, altresì, una terza via: intuire con lucidità di mente e accettare con virile fermezza di volontà il senso rintracciato in un’indagine compiuta nella solitudine interiore del suo spirito; insinuarsi, poi, e penetrare con audacia nelle pieghe del proprio animo, per riconoscere e accogliere ogni risultanza della sua riflessione meditata riguardante il significato emerso del suo esistere nel presente, ora e in sé stesso, senza ricorrere all’ausilio di probabili termini di relazione certamente utili, ma pericolosamente fuorvianti. Soprattutto l’uomo, infatti - quale essere dotato di libera riflessività razionale, per nulla passiva e istintuale - deve avere il coraggioso ardire di non accontentarsi di comode elucubrazioni spesso inconcludenti, che servono solo ad allontanare pressanti scomode domande e addirittura a mistificare esigenze intime e profonde. E’ facile e appagante accogliere acriticamente le nobili voci dei vari credo religiosi, come è esaltante aderire agli ultimi dettami della cultura dominante e delle valide conquiste della scienza. All’uomo, però, che si limita a nutrirsi solo o soprattutto delle risultanze del mondo a lui esterno, sfugge il senso vero del vivere suo e del cosmo, in cui si trova collocato. Lo turba di continuo e agita la sua mente l’ombra sfuggente ma onnipresente del non-senso e, quindi, dell’assurdità di tutto, ch’egli respinge e allontana dal suo animo. Nello stesso tempo, però, sente che il non-senso non è meno assurdo della stessa assurdità: un senso deve esserci in ogni realtà e l’uomo ad esso anela e lo trova solo quando riesce a separarsi  momentaneamente dal mondo a lui esterno e si ripiega nella solitudine interiore del proprio essere: lì trova il senso vero che sinceramente desidera e onestamente ricerca.

Solo così l’uomo scoprirà che il senso e il valore d’ogni vita non provengono né gli sono dati dall’esterno, che non sono un dato oggettivo, che solo il mondo custodisce ed elargisce a suo insindacabile volere, assegnando all’umanità il compito di rispettare e onorare ciò che a essa è destinato, evitando il blasfemo atto dell’inutile disubbidienza, con cui si dissacra la presunta verità e si genera disordine e caos. Al contrario, è l’uomo che proietta sul mondo valori e significati, che la sua mente razionale germina e la sua libera volontà di uomo determina. Ne deriverà e si consoliderà una vita umana animata e pervasa da un perenne e vitale afflato di sacralità, con cui si genera, si sostanzia e si orienta l’autentica dimensione della solidarietà umana universale. Ogni senso autentico, infatti, si cova nell’intimità della libera coscienza personale; e non c’è tesoro più prezioso del senso esistenziale personale intuito audacemente e custodito gelosamente in se stessi. Essere parte del genere umano, essere attore delle proprie scelte e co-attore dell’intera vita del cosmo, padroneggiare il sentimento della solidarietà naturale, intuire e testimoniare il proprio insostituibile ruolo nella storia dei tempi sono il tesoro covato e scoperto nella sacralità della propria coscienza. Questa inviolabile sacralità non è, quindi, un momento della coscienza umana, ma un elemento costitutivo e, perciò, organico della struttura stessa della coscienza, totalmente connessa allo sforzo che l’uomo compie per costruire un mondo che abbia un senso. Il significato della realtà, quindi, non è un dato oggettivo che si trova e si accetta, ma un valore che l’uomo proietta e pone in realtà, che percepisce come vuote e insensate. Il senso del mondo, quindi, è quasi una proiezione della totalità della persona umana integralmente vissuta.

 

venerdì 11 giugno 2021


IN ITALIA NON CI SARA’ FUTURO INTEGRALE SENZA LE DONNE

In Finlandia Sanna Marin a 34 anni è Primo Ministro 

 

Pubblicato in Presenza Taurisanese, maggio-giugno 2021, n. 328, p. 13

 

In Italia la popolazione femminile costituisce più della metà dei cittadini. Ogni cittadino italiano – secondo l’esplicito dettato della Carta Costituzionale - contribuisce attivamente alla vita della Nazione mediante “L’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale” (art. 2). Questo dovere fondamentale e inderogabile non ammette eccezioni o deroghe per alcun motivo, in quanto la Repubblica  proclama la pari dignità dei suoi cittadini e riconosce loro indistintamente i medesimi diritti, ma esige da ciascuno l’assolvimento dei rispettivi doveri: “Tutti i cittadini – è sancito solennemente nell’articolo 3 – hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”. Il cittadino italiano, quindi, che legittimamente usufruisce – indipendentemente dalle diversità personali e sociali -  dei diritti garantitigli, non può non adempiere – secondo le sue possibilità e nel rispetto delle le diversità personali e sociali - ai doveri richiestigli, poiché sarebbe un fatto, oltre che contrario al dettato costituzionale, anche gravemente lesivo della integralità della persona umana, in quanto depriverebbe i propri concittadini del contributo dovuto e, pertanto, depaupererebbe tutta la Nazione economicamente e soprattutto moralmente e culturalmente. Analizzando la situazione reale  in Italia, sembra che le donne – che sono, appunto, oltre la metà della popolazione – non sono messe nella possibilità concreta di offrire totalmente e liberamente il proprio contributo adeguato alle loro capacità, determinando, così, uno spreco ingiustificato e dannoso di energie collaborative e costruttive.

 

A queste puntualizzazioni s’è spinti, quando si voglia considerare e valutare il ruolo riservato e assegnato alle donne italiane, oggi, nelle varie attività socio-economiche del Paese, nelle decisioni politiche e nel mondo della cultura e della ricerca. Ad accendere la curiosità e a suscitare l’interesse degli spiriti più attenti sono state le reazioni italiane registrate in occasione della nomina, circa un anno fa, alla carica di Primo Ministro della Finlandia di Sanna Marin. Improntate a stupore e ammirazione, si levavano voci piuttosto fioche, che avevano il sapore soprattutto della meraviglia e dell’attesa. Molti sapevano e sottolineavano solo il fatto che si trattava di una donna e che era una donna giovane, pochi andarono alla ricerca, per acquisire o approfondire conoscenze utili e illuminanti sulla vicenda umana e sull’esperienza politico-amministrativa, grazie alle quali la neoeletta Premier s’era proposta all’attenzione dei parlamentari finlandesi, che non hanno avuto perplessità a porre nelle sue mani la guida del Governo Nazionale. Sanna Marin, di 34 anni, dopo la regolare frequenza delle Scuole Superiori, frequenta l’Università di Tampere, conseguendo nel 2007 (a ventidue anni) la Laurea in Scienze dell’Amministrazione; nello stesso anno viene eletta nel Consiglio Comunale di Tampere, ricoprendo la carica di Presidente del Consiglio Comunale. Negi ultimi anni è stata vicepresidente dei socialdemocratici finlandesi e parlamentare. E’ madre d’una bambina avuta dal compagno storico. Emerge la figura di una donna umanamente costruitasi su solide fondamenta, di una professionista competente e responsabile e di una cittadina eticamente indiscutibile e politicamente formatasi per mezzo di esperienze compiute con la necessaria gradualità e con esiti positivi puntualmente verificati. Un esempio degno di emulazione.

 

Sarebbe quanto mai opportuno, ora, considerare quali opportunità reali hanno le donne in Italia d’intraprendere e concludere percorsi formativi teorico-pratici di cultura civica, che consentano loro – oltre all’accesso in carriere esecutive o impiegatizie - di cimentarsi personalmente in compiti di responsabilità, di assumere direttamente iniziative impegnative, di affrontare rischi e pericoli d’un’impresa. Ed anche: di acquisire un consistente patrimonio di dottrina e di pratica necessario per scegliere di sobbarcarsi a cariche pubbliche politico-amministrative. In Italia, di fatto, le donne presenti nell’agone politico-amministrativo sono un numero molto esiguo e perlopiù relegate a ruoli secondari e comunque sostanzialmente gestiti da figure maschili, per cui risalta chiaramente la disparità numerica e qualitativa tra i generi e la scarsa possibilità di rappresentare i problemi relativi ai diritti-doveri delle donne.

 

Nonostante ciò, oggi, in considerazione degl’inconfutabili miglioramenti nella valutazione delle donne, s’è portati a ritenere risolto il problema dell’uguaglianza tra i generi; in realtà, però, se si considera – oltre alla crescente partecipazione femminile nel campo del lavoro, dell’insegnamento e della cultura - la presenza delle donne nelle sedi, in cui si prendono decisioni nei settori della finanza, dell’economica e della politica, ci si rende conto che di fatto – contro ogni dettato e auspicio dei Padri Costituenti - l’uguaglianza tra uomini e donne è ben lontana dall’essere acquisita. In tutti i settori della vita lavorativa nazionale, infatti,  gli uomini tendono ad occupare le posizioni di maggior potere; nelle organizzazioni i vertici aziendali e i dirigenti sono perlopiù uomini; nelle istituzioni politiche il numero di donne è sempre molto inferiore a quello degli uomini. Eppure i Padri Costituenti hanno definito e sancito alcuni Principi Fondamentali rimasti sinora nell’ombra o addirittura del tutto ignorati. Ciò costituisce – oltre a una notevole ingiustizia sociale moralmente biasimevole - un grave vulus giuridico, che dev’essere sanato, perché il Paese possa essere davvero annoverato tra quelli realmente progrediti. Tra i Principi Fondamentali della Costituzione, infatti, nell’articolo 3, dopo la dichiarazione della pari dignità e uguaglianza tra i generi, è sancito il compito della Repubblica a “rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale”, che creano disparità e impediscono lo sviluppo personale e “l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”.

          Questo fondamentale dettato costituzionale sarebbe stato destinato a rimanere nel mondo delle nobili aspirazioni, se i Costituenti non avessero indicato anche le vie concrete per la sua realizzazione. Trattando, infatti, dell’ambito dei “Rapporti Politici” – che è il luogo, in cui in sostanza viene presa la maggior parte delle decisioni, che condizionano e orientano le scelte importanti e gl’indirizzi qualificanti della varia e complessa vita d’un popolo – la Carta nell’articolo 51 stabilisce: “Tutti i cittadini dell’uno o dell’altro sesso possono accedere agli uffici pubblici e alle cariche elettive in condizioni di eguaglianza”.  E quasi interpretando possibili dubbi e dannose incertezze, per non lasciare spazio a tentazioni fuorvianti e, comunque, per  bloccare ogni cavillo o pericolo di fraintendimento, si chiama in causa direttamente la Repubblica, assegnandole il dovere non solo di riconoscere e garantire i diritti sociali e politici anche delle cittadine, ma anche di   “promuovere con appositi provvedimenti le pari opportunità tra donne e uomini” (art. 51). E, in verità, provvedimenti legislativi in tal senso sono stati indubbiamente prodotti, ma finora non sono stati in grado di incidere significativamente sulla condizione e sulla partecipazione delle donne alle attività della Nazione. Basti osservare le presenze femminili nel Parlamento (solo un centinaio di donne su 945 membri) e negli Enti Locali (solo un quinto delle presenze maschili). Eppure in Italia non potrà esserci davvero un futuro globalmente inclusivo e integralmente umano senza la giusta valorizzazione delle energie e delle risorse del genere femminile.

 

          Nella Costituzione, infine, vengono chiaramente indicati il mezzo adatto e il modo concreto, perché ogni cittadino – uomo e donna - possa partecipare concretamente e agire efficacemente nella vita socio-economica e e politica della Nazione. A tal fine, infatti. fu stabilito: “Tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti, per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale” (art.50). Ovviamente i Padri Costituenti pensavano al partito quale luogo, in cui i cittadini d'ogni ceto sociale – in costante cooperazione con i movimenti femminili e giovanili – discutevano con responsabilità e libertà problematiche del momento, di parte e d’interesse generale, e proponevano democraticamente ipotesi risolutive, ciascuno in coerenza con i propri valori umani e e le proprie convinzioni politiche e civili. La progressiva trasformazione negli ultimi decenni della natura specifica e delle finalità affidate al partito originario, pone problemi nuovi, che richiedono riflessione e autocritica.

  

martedì 25 maggio 2021

 

COSA FANNO I PARLAMENTARI? 

Pubblicato su «Iuncturae» il 25 maggio 2021

 

“Noi assistiamo alle esequie di una forma di governo”, disse novant’anni fa, il 19 dicembre 1925, al Senato, nel celebre discorso di rifiuto della legge sulle prerogative del Capo del governo, Gaetano Mosca, dotto giurista, esperto senatore e rispettato membro del governo Salandra. La riforma che veniva proposta, compatibile con la lettera dello Statuto Albertino allora vigente, nella sostanza era preoccupante. E gli avvenimenti degli anni che seguirono diedero ragione al “vecchio” parlamentare, dimostrando nei fatti e con chiarezza che a rinforzare il regime fascista non furono l’energia volitiva del Duce e la capacità governativa del suo Consiglio, ma la debolezza e la paura di molti Membri del Parlamento. Lo strapotere del despota non si fonda mai sulle sue doti morali e sulla sua capacità governativa, ma sempre sulla debolezza e l’inadeguatezza dei cittadini, che, tramite l’atteggiamento e le scelte dei propri deputati, si mostrano incerti nell’esporre le proprie idee, timidi nell’avanzare le proprie proposte e, soprattutto, deboli nel difendere i propri convincimenti e fiacchi nel bloccare il capo, ogni qualvolta pretenda – anche al fine encomiabile di incrementare progresso e garantire felicità - di usare irragionevolmente metodi non accettabili, perchè spesso al limite della legalità e comunque estranei al costume di una vita veramente “democratica e popolare”, per cui offendono dignità umana e diritti politici.

 

E’ deludente, quasi disarmante, assistere oggi a “delegati d’un intero popolo”, che pretendono a loro volta di delegare codardamente al Presidente della Repubblica azioni e iniziative, che sanno bene che la Costituzione preclude al Capo dello Stato e impone, invece, proprio a loro che sono i detentori del Potere Legislativo. Coloro che hanno il dovere di interpretare e difendere il bene comune della Nazione, s’attardano a dichiarazioni di rito e a insensate minacce verbali spesso indegne, attendendo speranzosamente un qualche intervento dall’alto per fare ciò che solo il Parlamento – nella sua collettività e nei singoli componenti – può e deve proporre a nome del popolo e imporre per il bene del popolo! Se la maggioranza di parlamentari eletti dal popolo, secondo leggi da loro stessi approvate, consente al Governo - da essa voluto e mai sfiduciato - comportamenti arroganti e di fatto al limite d’ogni vera democrazia; se un’intera classe politica, formatasi e costituita secondo norme e procedure da se stessa create, ha dato e mantiene in vita questo Governo, non è proprio il caso che si gridi allo scandalo e s’invochi qualcuno a porre rimedio. Tocca a loro: alla classe politica prendere posizione; è dovere d’ogni parlamentare - delegato secondo la Costituzione a governare senza vincolo di mandato e in nome del popolo e per il bene del popolo – assumersi le sue responsabilità e ad agire secondo il dettato della sua ragione.

 

Non siamo più nella Firenze governata dai Medici, né il popolo italiano è quella massa amorfa e grezza pensata e descritta dal fiorentino Machiavelli, né i cittadini italiani sono disposti ancora oggi a stare a sopportare chi volesse governarli da capo “furbo come una volpe e forte come un leone”, cambiando aspetto da situazione a situazione. Il popolo italiano non accetta più d’essere ingannato, né ha più paura di reagire alla corruzione e incapacità di chi lo governa. Solo la saggezza della ragione dei cittadini italiani e la loro responsabilità civile li sostengono ad assistere tristemente ma dignitosamente anche agli ultimi spettacoli vergognosi offerti nelle Aule Parlamentari. I cittadini aspettano che si passi dalle comparse ai fatti: non significano nulla né il lancio delle frasi indegne per tutti né il tiro dei fiori persino oltraggiati nel loro nobile e sacro significato. E “i fatti” stanno nel potere di voto d’ogni parlamentare, esercitato a viso aperto e dettato da ragione e coscienza, non da calcoli privati e ricatti nascosti.

 

Novant’anni fa l’ormai vecchio parlamentare Gaetano Mosca, annunciando il proprio voto contrario a una riforma proposta dal governo, avvertiva che mutamenti proposti come strumenti  più adatti a un governo efficace, in realtà implicavano cambiamenti radicali del sistema di governo, che rischiavano di compromettere diritti civili, equità sociali, doveri politici e persino valori etici della nazione intera, già in piena crisi morale ed economica di quegli anni (non molto dissimili dai nostri). Probabilmente si trattava di cambiamenti addirittura necessari; ma erano proprio le modalità, con cui li si stava proponendo e perseguendo: procedimenti innovativi esageratamente rapidi potevano nascondere qualche “salto nel buio” dettato dall’impulso frenetico d’una “nuova generazione, che crede di sapere tutto e di poter tutto mutare”. Proprio per questo, terminava le sue parole, dichiarando umilmente che sentiva come suo “forte dovere di ammonirla”.

 

Sono passati circa novant’anni: forse non pochi perché gli “anziani” e le “nuove” generazioni del nostro tempo rileggano la nostra storia, prendendo qualche utile lezione.

 

lunedì 26 aprile 2021

 

«NEL GRANDE SILENZIO»

Soliloquio di Nietzsche nell’«immensa impossibilità di parlare»

Pubblicato in Iuncturae il 30 aprile 2021


Friedrich Nietzsche (1844-1900) – interprete di una delle più radicali revisioni culturali dell’Occidente – in «Aurora» (1881) intitola il pensiero n.423 «Nel grande silenzio». E’ uno scritto breve ed essenziale, ma nella sua stringatezza denso di messaggi eloquenti, con i quali il filosofo manifesta il suo animo combattuto da opposte istanze e prefigura non pochi esiti del suo pensiero nichilista, indovinati ed efficaci anche per i tempi che ci è dato vivere.

Allontanatosi dalla ressa e dai frastuoni della «città» - confida il filoso - trova rifugio in riva al mare in un luogo solitario, che conciliava la meditazione sul senso immediato e finale del vivere cosmico e sulla destinazione dell’operosità e dei travagli degli uomini. La serena limpidezza dell’aria e la trasparente luminosità dei luoghi placavano il suo spirito stanco e sollecitavano la sua mente a meditare su problemi di vario interesse. Abbandonatosi completamente alla pace di quell’ambiente, il filosofo si sciolse da ogni reticenza e fuse i moti del suo essere con le palpitazioni della Natura, alla quale si rivolse con parole echeggianti un’antica intima frequentazione, amichevole e familiare: «Ecco il mare – le rivolse amabilmente soddisfatto -, qui possiamo dimenticare la città». Tutti, infatti, provati e stanchi per le vicissitudini della quotidianità, cercano un quieto riposo rigenerante, che favorisca l’oblio delle avversità e consenta lo scambio reciproco di confidenze di felicità e di sofferenza, di conquista e di fallimento.  

A chi accostarsi con fiducia e chiedere sostegno e conforto? Da chi aspettarsi chiarimenti e rassicurazioni sui destini umani? A chi affidare i segreti del proprio animo? Egli aveva già chiuso le porte a ogni tentativo metafisico, aveva demolito ogni realtà trascendente ed inoltre aveva annunciato la «morte di Dio», rivendicato dalle religioni quale fondamento e garante d’ogni forma di al di là e al di sopra di questo mondo. Ed era giunto a tali conclusioni con un percorso di pensiero meditato e sofferto, anche se complesso e apparentemente contraddittorio, soprattutto nei confronti della religione ricevuta dai genitori. Figlio, infatti, di un pastore protestante, egli stesso formatosi nella cultura del cristianesimo calvinista, con estrema onestà intellettuale e con esemplare coerenza morale aveva dovuto aderire ai dettami dell’esperienza della sua vita e alle risultanze per lui evidenti della ragione. «A chi -scrive senza esitazione – oggi mi si rivela ambiguo nei riguardi del cristianesimo non do neppure la mano. C’è solo un modo di essere onesto in proposito: un no assoluto» (Frammenti 1887-189, Postumi, KSA, 13, p. 416). Ma significativamente Karl Jaspers, introduce i suoi studi sul filosofo tedesco con un chiaro avvio, solidamente documentato: «La lotta di Nietzsche contro il cristianesimo nasce dalla sua propria essenza cristiana» (K. Jaspers, Nietzsche e il Cristianesimo, trad. it, Marinotti Edizioni, Milano 2008, p. 41).  Per le sue conversazioni intime, quindi, a Nietzsche non rimaneva che il dialogo franco e sincero con la Natura.  

Nietzsche, quindi, raggiunge la riva del mare. Domina l’ampio spazio circostante un silenzio profondo, interrotto, però, proprio in quel momento dallo «strepitare delle campane dell’Ave Maria […] ma solo per un istante ancora!»; era, infatti, soltanto il «sussurro - cupo e folle, eppur dolce - al crocicchio del giorno e della notte». L’animo del filosofo si riverbera sulla natura: lo «strepitare» delle campane non è percepito come un disturbo molesto, ma come l’amabile «sussurro cupo e folle, eppur dolce», che  al calar del sole accompagna e quasi protegge l’ostinato alternarsi delle ore e l’inesorabile consumarsi dei giorni della vita umana. Suono breve e rapido quello delle campane vespertine, ma carico di note sentimentali e di rimembranze emotive: «cupo e folle» come la mente degli uomini alla ricerca di senso e giustificazione alle scelte fatte sotto la tirannia del bisogno «folle» di dare ad esse fondamento e scopo ultraterreni; suono, però, anche «dolce», perché giunge come balsamo alle loro sofferenze inespresse, ma strazianti. Cessata la voce delle campane,  «ora tutto tace». La vasta distesa delle acque marine si offre tutta scintillante alla vista di chi la sta contemplando, ma «non può dire parola»; la volta celeste mostra il suo eterno spettacolo di luce e di colori, ma anch’esso «non può dire parola»; anche gli scogli, che vanno lentamente declinando verso le acque del mare calmo alla ricerca di un luogo ancor più appartato e solitario, «non possono dire parola». Tutti i protagonisti, concordemente, covano – e sembra frenino a fatica - un forte desiderio represso di emettere voci sinora soffocate e proferire parole risolute e chiare sinora trattenute. Nello stesso tempo i luoghi dintorno vibrano smorzati e palpitano sommessamente sotto il misterioso fitto velo del silenzio, e pare che tutto voglia esprimere un pensiero taciuto: «Questa immensa impossibilità di parlare, che ci coglie all’improvviso, è bella e agghiacciante: ne è gonfio il cuore». Mare, cielo, terra – e anche l’uomo - appaiono accomunati da un’unica esperienza esistenziale: sono tutti impediti di esprimersi chiaramente e di manifestarsi apertamente; tutti sembrano vittime e prede di forze ignote e comunque superiori, ch’essi subiscono mestamente, ma ne rispettano il potere coercitivo.

A questo punto il filosofo, come scosso da un guizzo di lucida razionalità e quasi sospinto dal risveglio della propria dignità, rompe ogni argine di misura e di riservatezza e dà libero sfogo all’impeto della rinvigorita volontà di potenza umana. Si strappa e butta via la maschera della finzione e – sapendo «Perché l’uomo non vede le cose? Perché vi ha interposto se stesso: egli nasconde le cose» (Aurora, Pensiero 438) – sbotta tra rabbia, sarcasmo e cinismo: «O ipocrisia di questa muta bellezza! Quanto bene saprebbe parlare, quanto male, anche, se volesse!».  La natura, però, non dà né ha alcun segno di reazione; resta muta, impassibile, impenetrabile. Il filosofo, tuttavia, avendo conosciuto per esperienza personale che le «Nature flemmatiche possiamo entusiasmarle  solo fanatizzandole» (Aurora, Pensiero 222) gioca d’astuzia, ricorrendo anche all’oltraggio fino all’irrisionee e allo scherno: «Il nodo della mia lingua e la sua dolorosa felicità nel viso – manifesta ironicamente alla natura che, a suo dire, poco prima l’aveva inebriato - è una malizia per deridere la consonanza del tuo sentire!». Era del tutto incomprensibile il mutismo ostinato della Natura. In fondo il filosofo non aveva chiesto la rivelazione di alcuna verità nascosta né aveva voluto estorcere lo svelamento di qualche segreto misterioso. Andava solo alla ricerca di qualche senso al vivere dell’uomo e del mondo; la stessa Hannah Arendt, peraltro, impegnata a decifrare l’animo di uomini malvagi, sosterrà che «Il bisogno di cercare una ragione non deriva dal desiderio di verità, ma dal desiderio di trovare un significato».

Nietzsche si rammarica, ma non si vergogna né si pente di questo suo comportamento e soprattutto d’essersi fatto zimbello di forze ignote; della Natura, invece, prova profonda compassione, perché essa è costretta a non parlare, «anche se – insiste quasi incattivito il filosofo, rivolgendosi rudemente alla Natura - è soltanto la tua malvagità ad annodarti la lingua: sì, io ti commisero a cagione della tua malvagità!». Il silenzio, però, si fa ancor più profondo e il cuore si gonfia nuovamente, perché «lo atterrisce una nuova verità: neppure esso può dire parola». Anch’esso con malvagità non parla e, insensibile quale simulacro marmoreo, con ghigno beffardo sembra irridere a ogni tentativo di comunicazione, per cui: «Il parlare, anzi il pensare – confessa tristemente il filosofo - mi è odioso: non odo forse, dietro ogni parola, ridere l’errore, l’immaginazione, lo spirito dell’illusione? Non devo irridere la mia pietà? Irridere la mia irrisione?».  Il mare, che con la sua tranquillità e la sua possente distesa d’acqua, aveva ispirato sentimenti di tenacia nella speranza, ora si mostra elemento imbelle e servile, quindi da irridere; la sera, che col suo regolare e progressivo scandire ore di luce e ore di tenebra, aveva confermato la realtà dell’eterno ritorno del tutto, ora getta l’animo nel dubbio e nell’incertezza, quindi da irridere; il cielo, che con la meraviglia inimitabile del suo cangiante manto variopinto, aveva infuso pensieri di eternità, ora si rivela terribile doloroso inganno, quindi da irridere. Mare, sera e cielo, «Voi – accusa il filosofo deluso e amareggiato - siete cattivi maestri! Voi insegnate all’uomo a cessare di essere uomo!». Non è, non può e non deve essere come la Natura presume e pretende insegnare: l’uomo, dotato di spirito apollineo unitamente all’energia dionisiaca, non si abbandona alla forza dell’istinto, vivendo «pallido, scintillante, muto, immenso, riposante su se steso». No! Ecco, allora, l’ammonimento del filosofo: «Conviene alla natura umana di un maestro, mettere i propri discepoli in guardia contro se stesso» (Aurora, Pensiero 447).

 

mercoledì 21 aprile 2021

 

CHI E’ IL POPOLO NELLA DEMOCRAZIA?

Pubblicato in Presenza Taurisanese a. aprile 2021,n. 327, pp. 13-14 

                                             Pubblicato in Iuncurae  il 30 aprile 2021

Non c’è società umana, organizzata civilmente e strutturata politicamente in un ben definito ordine giuridico, che non contempli il legittimo detentore della sovranità, riconosciuto e condiviso da tutti i cittadini. Anche nelle società organizzate e governate secondo la forma democratica, quindi, c’è il titolare della sovranità; ed è il démos, cioè il “popolo”, che, in quanto sovrano, non riconosce nulla e nessuno superiore a sé, a meno che non venga derubato e svuotato del suo potere. Ma chi è il popolo in una democrazia? Non certo quello di uno stato retto da una monarchia, in cui è costituito da sudditi devoti al re; o da una plutocrazia, in cui è costituito da consumatori al servizio del mercato; o da una oligarchia, in cui è costituito da anonimi individui divenuti muto gregge al seguito del padrone; o da una partitocrazia, in cui è costituito da miliziani scelti al servizio del leader.

Chi è, allora, il popolo d’una democrazia? Lungi dal porsi solamente come una moltitudine indistinta d’individui coabitanti nello stesso luogo, esso è un insieme di persone, tutte di pari dignità, unite tra di loro – con l’obiettivo finale di perseguire, accrescere e fruire del maggior bene comune possibile - da un rapporto di collaborazione costruttiva e strutturata in un complesso di tradizioni, consuetudini e norme, divenuto col tempo fonte e fondamento d’una propria Costituzione Nazionale.  Infatti, in uno dei Principi Fondamentali, sui quali si regge tutto l’articolato della Costituzione della Repubblica Democratica Italiana, si proclama solennemente che il popolo italiano  è la totalità dei cittadini, i quali “Hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali” (art. 3). A ben riflettere, quindi, un Paese che voglia ritenersi, vivere e agire da “Paese Democratico” – come cittadinanza e come insieme ordinato di istituzioni statuali – si fonda preliminarmente e opera sostanzialmente nell’ottica d’una propria specifica visione generale del mondo, dell’uomo e delle loro storie. Pertanto, la democrazia di per sé non è semplicemente una tra le tante forme di governo, bensì prima di tutto ed essenzialmente una grande idea regolativa sia antropologica sia cosmologica, in quanto presuppone e si nutre d’una visione generale della realtà, nella quale non ci sono diversità e gradualità di valori, ma solo molteplicità e varietà di funzioni, tutte da rispettare e onorare secondo i principi di proporzionalità e necessarietà: in questa prospettiva di democrazia non esistono un centro e delle periferie economico-sociali-culturali, ma ogni singola realtà è contemporaneamente centro e periferia d’un’unica totalità  multicentrica.

Solo nella democrazia così definita radica e prospera la libertà civile e politica dei singoli cittadini e delle istituzioni che li governano; e solo nella libertà e con la libertà ha senso e concretezza la formula adottata ormai da secoli da tutti gli organi governativi democratici: “In nome del popolo sovrano”. Questa espressione, infatti, sintetizza e racchiude felicemente la coincidenza di Stato, in quanto organizzazione della comunità, e di Governo, in quanto organismo responsabile delle scelte politiche, e li correda di un valore, oltre che socio-economico, anche etico-politico, per cui divengono contemporaneamente fonti d’incremento culturale e gestori di potere “sovrano”, ma non nell’accezione di sovranismo o autoritarismo, bensì come concreta manifestazione e chiara espressione d’una volontà “democratica”, in quanto sono la voce indiscussa della volontà libera del popolo e, quindi, volontà democratica nel suo significato autentico e profondo: la democrazia è libertà dello spirito e delle intenzioni d’un popolo, che si realizzano nel concreto agire umano, cioè  nella vita e nell’azione politica.

Nasce, a questo punto, il problema di come il popolo eserciti materialmente la sua sovrana e libera volontà e di come la traduca concretamente ed efficacemente in azioni governative. La via della democrazia diretta – largamente usata in alcune città dell’antica Grecia - si rivela per i nostri tempi utopia e inganno per almeno due motivi principali. In primo luogo per  il  grande numero di cittadini delle odierne nazioni democratiche: basti pensare che lo stesso Jean Jacques Rousseau, già due secoli e mezzo fa, nello stendere le  Considerazioni sul Governo della Polonia  (pubblicate nel l 1782), proprio a causa della grandezza numerica della cittadinanza polacca, credette necessario, rifacendosi al suo precedente Progetto di Costituzione della Corsica (scritto nel 1768), suddividere la grande  nazione  della Polonia in piccoli stati tra di loro confederati. In secondo luogo, perché la democrazia diretta - nonostante l’utilizzo dei mezzi messi a disposizione dalla tecnologia più avanzata - di fatto, esclude il popolo dalla partecipazione attiva e consapevole alla vita politica nazionale. Infatti, nel mondo attuale della globalizzazione e dell’internalizzazione si richiedono, con urgenza sempre più pressante, velocità e decisionismo, tanto che da più parti si sente talora denunciare la lentezza e addirittura l’inutilità del voto e, quindi, dei Parlamenti, da sostituire ormai – senza alcun confronto di idee e senza un vero dialogo con i cittadini - con alcuni individui scelti col sorteggio, senza alcuna considerazione per le specifiche capacità amministrative, per  le necessarie doti morali e l’indiscutibile sensibilità  etica. L’importante è che siano pronti a decidere e svelti nel tagliare i tempi del profitto e dell’efficienza. In breve e in sostanza si celebra il trionfo del pragmatismo - attivo, operoso e sempre vincente - di pochi e, nello stesso tempo, si esclude il popolo e si condanna a morte la democrazia. La democrazia, infatti, è inclusione, riflessione e mediazione, e opera sempre al fine di ascoltare le voci di tutte le persone, di coinvolgere e tutelare tutti i cittadini, senza la presunzione di formulare arbitrariamente e proporre arrogantemente programmi ritenuti validi e proficui, ma che in effetti lasciano inascoltati e irrisolti i problemi reali di larga parte di cittadini,

Come via da percorrere rimane quella della democrazia rappresentativa, in cui il popolo - che evidentemente non può governare direttamente la “Res Publica” - delega, attraverso il voto, a propri eletti di governare, di fatto, in suo nome. In molte democrazie compiute della Terra – grazie proprio al voto popolare – si designano gli eletti (cioè, i deputati), alcuni a proporre, decidere e governare, e altri a correggere, suggerire, controllare quelli che governano: sono le cosiddette “maggioranza e minoranza”, che, ciascuna nel proprio ruolo, collaborano insieme – coerentemente con il significato etimologico e lo spirito autentico della democrazia, che è “servizio” di ciascuno verso tutti - al miglior governo possibile della cosa pubblica e per il bene comune. E’ il bipolarismo, per cui maggioranza e minoranza lavorano sinergicamente per il benessere e il progresso della nazione. Le cose cambiano, quando la “democrazia”, da governo voluto dal voto popolare, si tramuta in “potere” di partito o di partiti. Allora al posto della formula “in nome del popolo sovrano” si sostituisce di fatto l’altra “in nome del partito o della coalizione di partiti”, che sovrani non sono né possono essere. A questo punto la Democrazia è umiliata, tradita e annichilita: svuotata, infatti, dei suoi veri valori etici e privata dei suoi contenuti sociali e politi, viene ridotta ad asettico contenitore informe, disponibile ad accogliere qualunque mistificazione di realtà di privati o di comunità particolari o di piccole collettività.

La Democrazia, però, muore, perché non viene più alimentato il fuoco della fucina, nella quale – oltre che nella famiglia e nella scuola - si forgiano uomini probi, cittadini e lavoratori onesti, professionisti e imprenditori coraggiosi e, soprattutto si preparano e si cimentano amministratori responsabili e capaci, cioè i partiti politici.  Questi costituivano una fitta rete capillare di piccoli centri (le sezioni), che si diramavano da tutte le parti del Paese e confluivano tutti verso la capitale. In ogni “sezione” arrivavano quotidianamente i giornali organo d’ogni partito, con i quali si proponeva l’interpretazione dei fatti consona alle diverse visioni politiche, che i cittadini discutevano e commentavano talora animatamente e con sentita passione, espressione della aderenza e della fedeltà al proprio credo politico. Era un pulsare vivo di confronti di idee, che, arricchite del contributo di tante diverse opinioni, da ogni periferia giungevano ai deputati, che a loro volta recepivano e vagliavano nelle sedi parlamentari. Nelle “sezioni” di partito, infatti, s’incontravano cittadini d’ogni ceto sociale, s’accoglieva il contributo pronto e valido del movimento femminile e dei giovani, si approfondiva la reciproca conoscenza, si prendeva consapevolezza dei vari ruoli politici, s’apprendeva l’arte d’amministrare la cosa pubblica e, gradualmente e a tempo opportuno, si veniva designati – in base alle capacità e al merito - per i vari incarichi pubblici. Era l’applicazione e la realizzazione del dettato costituzionale: “Tutti i cittadini – sancisce l’articolo 49 - hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale”. Quanto diverse - per natura, metodo, contenuti e finalità - le cosiddette “scuole di formazione politica” degli odierni partiti. Da circa un trentennio la Costituzione è disattesa. I partiti si sono svuotati di ideali e si sono riempiti di interessi personali e di parte, condividendo un umico denominatore            comune: acquistare e accrescere a qualunque costo potere e ricchezza. Ovviamente con la compagnia del séguito coerente di tutte le logiche conseguenze naturali, tra le quali non ci saranno né quella di bene comune né quella di rispetto del popolo,   (C.S.)

 

 

 

 

 

 

 

giovedì 4 marzo 2021

 

IL TEMPO DI PANDEMIA C’INTERROGA E CI SFIDA

Pubblicato su “Presenza Taurisanese”, anno XXXIX, n. 3, marzo 2021, p. 13

 

L’umanità lotta ormai da molto tempo contro una pandemia, che in tutto il mondo miete ogni giorno un gran numero di vite umane, crea gravi scompensi ecologici, causa pericolose crisi nel settore socioeconomico, costringe a profondi mutamenti nelle modalità anche delle relazioni interpersonali affettive e sociali. S’attende, perciò, come una vera liberazione che, grazie soprattutto all’apporto della scienza, venga vinta questa terribile sciagura. Molti credono – e forse sperano - che ciò avvenga quanto prima, per poter ricominciare la vita “normale” di prima, interrotta bruscamente dalla virulenza della pandemia, considerata spesso solo come un brutto improvviso accadimento, che, una volta passato, lascerà tutto com’era e ognuno potrà riprendere la propria vita dal punto dove era stato costretto a fermarsi. Probabilmente, però, la situazione non è così facile come si crede e si spera. Infatti, la pandemia - che sarà stata non una violenta tempesta momentanea, ma un ciclone vorticoso che ha scompigliato ogni realtà individuale e sociale - richiede una svolta radicale nel sistema socio-economico e nel modello etico-culturale, che l’umanità s’è creati e secondo i quali è vissuta finora. E’ la sfida che la Natura e la Storia lanciano all’umanità: ripensare le linee guida dell’organizzazione dell’attuale vita individuale e sociale, mutare radicalmente i principi in base ai quali poter pensare liberamente, sentire rettamente, vivere coerentemente, in modo che siano consoni alla dignità di tutti gli esseri viventi, rispettati nella loro integralità.


Davanti allo spettacolo terribile, che la pandemia presenta oggi agli occhi di tutti, torna alla mente ciò che ha scritto, in situazioni analoghe, Martin Heidegger all’indomani della seconda guerra mondiale, alla vista degli orrendi disastri causati dalla follia bellica dell’uomo “Siamo noi forse – si domandava il filosofo - alla vigilia della più mostruosa trasformazione della terra intera e dello spazio storico-temporale a cui essa è legata? Siamo forse alla vigilia di una notte che prelude un’alba nuova? Sta sorgendo solo ora questa terra del tramonto?” (Un detto di Anassimandro, 1946). In questo nostro tempo, invaso e dominato dall’aggressività letale d’un virus emerso improvvisamente, l’umanità assiste, incredula ed esterrefatta, a fenomeni gravemente distruttivi, per cui si chiede se si stia consumando la fase terminale d’una “mostruosa trasformazione” dell’intero sistema di vita terrestre, oppure se sia l’arrivo d’una forma di vita nuova, oppure se si tratti dell’imminente tramonto d’un presente che scompare, per cedere il posto ad altro per ora del tutto sconosciuto. Il genere umano, quindi, non sa se sta assistendo semplicemente alla trasformazione del presente o al nascere d’un futuro del tutto inatteso o al crudele ghigno d’una fine definitiva. Ovviamente s’avanzano diverse ipotesi interpretative di tali fenomeni e se ne ricercano eventuali rimedi. Misconoscendo la tesi dell’insana follia del negazionismo, c’è chi nella pandemia scorge un intervento punitivo di Dio, chi vede una dura rivolta della natura che rivendica i suoi diritti violati, chi constata semplicemente interferenze casuali nell’azione dei diversi elementi, chi chiama in causa la tracotanza dell’uomo alla ricerca ossessiva di ricchezza e di potere. Probabilmente ogni risposta ha il suo fondamento condivisibile o meno, ma ragionevole.


Da parte sua, il filosofo tedesco trovava e suggeriva, a suo tempo, la via segnata dal ritrovamento dell’autenticità umana smarrita, disprezzata e tradita. Sulle orme del pensiero già di Parmenide, ripreso e sviluppato, tra gli altri, da Einstein, affermava che l’esistente umano può vivere secondo due diverse modalità: secondo la “banalità” delle apparenze, cioè impegnandosi a prendersi “cura” delle cose contingenti del mondo e vivere totalmente preoccupato per esse, e secondo la “autenticità” delle realtà sostanziali, cioè – spiega a chiare lettere - disponendosi  ad accogliere virilmente e senza riserve la prospettiva della morte, vera e indiscutibile rivelazione della finitezza umana: essa soltanto è veramente capace di far emergere e far apprezzare l’esistenza propria del vivere umano. L’individuo umano, infatti, viene e si trova in vita senza averne la minima consapevolezza, ma ha piena coscienza che tutta la sua vita si svolgerà liberamente in un arco di tempo limitato; è in suo potere, quindi, scegliere e decidere i modi e gli scopi per cui vivere nel tempo a sua disposizione. Heidegger avverte esplicitamente: non c’è scampo: bisogna risolversi a vivere o alienandosi in realtà prive di autentico senso finale oppure impegnandosi in attività di seria e indiscussa valenza morale ed etica. La prima opzione sarà fonte di lotte individualistiche tra i singoli e tra le società, a caccia di possesso e di ricchezza anche mediante lo sfruttamento a danno di tutto e di tutti; la seconda opzione sarà - nei limiti delle capacità umane - fonte e garanzia di progresso reale realizzato grazie alla sinergia dei comportamenti convergenti degli umani e della terra.

 

A questo riguardo, particolarmente incisivi e significativi sono i ripetuti interventi di Papa Francesco in tutti questi mesi. “La pandemia – ha affermato recentemente,- non è un castigo divino, ma mette in luce le false sicurezze”. La pandemia, infatti, aggredendo gli esseri umani, s’è rivelata anche e soprattutto una grave crisi storica, che - come le grandi guerre del secolo scorso - ha investito tutti e tutto; pertanto, va analizzata responsabilmente sotto ogni suo aspetto e considerata onestamente in tutti i suoi risvolti possibili, negativi ed eventualmente positivi. Per questo, porgendo gli auguri natalizi alla Curia Romana, ha sostenuto autorevolmente: “Questo flagello è stato un banco di prova non indifferente e, nello stesso tempo, una grande occasione per convertirci e recuperare autenticità”. Ciò significa che l’umanità ha smarrito l’identità del suo essere e ha perduto anche l’autenticità del suo pensare e del suo agire; si è costruito un modello culturale, in cui di fatto resta vilipesa la dignità umana e vengono calpestati e persino negati i diritti della Terra. Momenti tragici come questi - a parere del pontefice – ricorrono “ovunque e in ogni periodo della storia, coinvolgono le ideologie, la politica, l’economia, la tecnica, l’ecologia, la religione. Si tratta di una tappa obbligata della storia personale e sociale. Si manifesta come un evento straordinario, che causa sempre un senso di trepidazione, angoscia, squilibrio e incertezza nelle scelte da fare”.

 

L’umanità di oggi sta cogliendo il messaggio, che la Natura e la Storia le stanno inviando? E’ pronta a un’autocritica generale ed è disponibile a una revisione radicale del suo sistema di vita? Dare una risposta definitiva a quest’interrogativi è azzardato, perché bisogna attendere e verificare i comportamenti umani e le relative reazioni della Natura e della Storia. Al momento, però, non si notano segnali sicuri d’una revisione dei modi di pensare degli uomini e della loro volontà di risistemare il proprio agire. La pandemia, infatti, richiede una svolta radicale e convinta. Heidegger la sognava come “alba nuova”, Papa Francesco la invoca come “con-versione”. Considerato, però, che gli uomini – e soprattutto i reggitori della cosa pubblica - sono impegnati non tanto a rifondare e revisionare la vecchia e malata concezione del mondo, quanto piuttosto ad eliminare gli ostacoli, che impediscono il ripristino di ciò che c’era prima, nasce qualche dubbio, che genera perplessità e sfiducia. Non a caso il Pontefice Romano ha esortato più volte a non stare sempre a lagnarsi, ma – come ha raccomandato nel dare gli auguri di Natale - capire che “la pandemia impone maggiore sobrietà, attenzione discreta e rispettosa dei vicini che possono avere bisogno”. Riscoprire, cioè, che non esiste solo l’io con i suoi interessi, ma anche l’altro, che per il modello della cultura in atto è solo oggetto per il consumo. Sono opportune e necessarie nuove strategie di governo, sono auspicabili interventi mirati per un’equa distribuzione delle risorse disponibili, sono encomiabili inviti ed esortazioni alla solidarietà umana e alla cooperazione internazionale; però, se tutto ciò resta compiuto nello spirito, che domina attualmente nel mondo, si otterrà solo un’imbiancatura di facciata, ma la realtà sostanziale rimarrà immutata. Per un vero cambiamento di rotta è necessario preliminarmente una profonda metanoia dell’animo umano.