Il Tempo, in sé fluire di momenti transeunti che vanno accolti, si apre a un "oltre" custode Eterno di valori trascendenti che vanno abitati. Vicende e realtà tendono alla suprema fusione nell'infinita Totalità, anima di ogni Speranza.

sabato 13 dicembre 2008

L’ANIMO UMANO. L’INTIMITA’ CHE TUTTO REALIZZA E TUTTO SALVA

L’animo umano, nella sua più profonda intimità, è lo scrigno più prezioso, più sicuro, più impenetrabile, più sacro che è dato in dote a ciascun uomo. Esso non è ciò che chiamiamo coscienza, e che spesso riduciamo a burbero censore o a scomodo contenitore di comandi e di veti. E non è nemmeno ciò che chiamiamo “anima”, e che spesso intendiamo come un supplemento aggiunto alla natura propria dell’essere umano, che così diverrebbe prodigiosamente partecipe di realtà superiori destinate a vite più eccelse senza tempo e senza spazio. L’animo umano è l’essere sostanziale d’ogni individuo, la sua vera essenza esistente e vivente in sé e per sé, nella sua singolarità totale. E’ l’animo che rende l’esistente umano (che in sé e per sé è individuale e contingente) partecipe della Totalità somma dell’unico Essere infinito: quell’Essere che tutto comprende e tutto accoglie; che tutto realizza e tutto esprime; che tutto verifica nell’assoluta trasparenza immediata della verità immortale; che da nessuno e da nulla può essere contraddetto, perché è esso stesso la verità; che mai viene meno, mai dubita, mai tradisce; quell’Essere totale che nessuno e nulla può ingannare. Quell’Essere, la cui partecipazione appaga l’uomo, la cui comunione ne lenisce le sofferenze esistenziali, la cui unione gli dona i primordiali impulsi di speranza nel futuro e di tensione verso le dimensioni vere della realtà, fatte di pienezza massima e di sintonia perfetta.
L’intimità dell’animo umano, poi, è il tabernacolo sacro, nel quale rimangono scolpiti indelebilmente tutti i pensieri, tutti i desideri, tutti i sentimenti, tutti gli eventi che scandiscono l’intero itinerario dell’esistenza di ciascun individuo. Solo nell’intimità dell’animo umano si conservano, quindi, tutti i segreti veri, che nessun altro essere conoscerà mai; sono quei segreti intimi, che tali rimarranno in eterno: molti presumeranno di indurne cause ed effetti, altri presupporranno di intuirne la natura, ma nessuno ne conoscerà veramente la vera natura.
E’ qui, in questo sacro scrigno, che ci si deve rifugiare, se si vuole veramente stare al riparo da indiscrezioni invadenti e da curiosità interessate; e soprattutto se si vuole vivere davvero la totalità della propria anima. Nell’intimità dell’animo umano gli ”altri” saranno sempre degli estranei molesti, ai quali sarà negata qualunque condivisione e per i quali rimarrà serrato qualunque spiraglio: in essa trova sicuro rifugio la totalità dell’uomo, che avverte il rischio di perdersi nel caos delle attività quotidiane e nel ginepraio delle relazioni sociali. Nell’intimità dell’animo il singolo io raccoglie tutto il proprio spirito, autopossedendosi e vivendosi in tutta la sua totalità e, soprattutto, nella sincera totale trasparenza di sé a se stesso.
In quest’intima meditata conversazione con se stessi cessa ogni equivoco, si dilegua ogni dubbio; non ha ragion d’essere alcun mediatore, alcun traduttore. Si fuga ogni resistenza: tutto lo spirito si scioglie in se stesso e s’abbraccia, comprendendosi.
Solo allora l’uomo si ama davvero, perché solo allora conosce la vera essenza del suo pensiero, del suo agire, del suo sperare, del suo angosciarsi, del suo odiare, del suo stesso amare e amarsi. Allora si pacifica con se stesso, con tutto se stesso: possiede la pace che nessuno può turbare, gode dell’appagamento che nessuno può intaccare, riconquista la purezza originaria che nessuno può più contaminare né tanto meno dissacrare.
E allora, diventa sopportabile anche il mondo degli altri, benché fatto di banalità, di ipocrisie, di invidie, di cattiverie. E il mondo diventa sopportabile, anche perché esso diventa e si rivela più banale e più vuoto.
Custodire l’intimità del proprio animo vuol dire salvare la propria vita: salvarla dalla dissipazione, dalle frivolezze, dalle contese, dal pettegolezzo. Tutte queste negatività ci saranno e continueranno a esserci e a farsi sentire; ma per chi conserva e coltiva l’intimità del suo animo, proteggendola fino al sommo sacrificio di abnegazione e di generosa empatia, è come se esse non ci fossero, perché non penetrano né penetreranno nello scrigno ben custodito della propria anima.

lunedì 10 novembre 2008

EDUCAZIONE ALL’ INVECCHIAMENTO

La “geragogia” (termine usato per la prima volta nel 1973 da Angiolo Sordi) oggi non è solo un’autonoma scienza teorica con un proprio oggetto di ricerca, ma è anche una forte esigenza reclamata dalla dignità della vita dell’uomo tanto nella limitata dimensione del singolo individuo quanto nelle più vaste relazioni della società umana. La geragogia, infatti, è la branca della gerontologia, che si propone di trovare, studiare e proporre un insieme organico d’insegnamenti volti al perseguimento d’un’organica educazione all’invecchiamento, quale preparazione per una vecchiaia attiva e vitale.
Si sa che nel futuro (che in alcuni aspetti si sta già vivendo) vi sarà un numero sempre maggiore di persone, che invecchieranno in maniera migliore sia dal punto di vista fisico che psichico; e tuttavia, però, con la sola triste previsione di vivere da “pensionati” per un numero considerevole di anni, talora notevolmente maggiore che nel passato.
Ora, non è concepibile che questi “nuovi anziani” siano destinati a vivere un periodo ragguardevole di vita senza un proprio ruolo sociale ben definito e connotato da idoneità reali. Non solo non è concepibile, ma è addirittura disumano e funesto, perché un uomo senza un ruolo autonomo di valori veri è necessariamente destinato all’emarginazione e, quindi, all’isolamento. E’compito primario della geragogia, quindi, chiedersi quale ruolo o funzione possa e debba avere l’anziano di oggi nelle strutture della società contemporanea, che cambia con ritmi vertiginosi, provocando numerosi meccanismi emarginanti.
Le trasformazioni degli ultimi decenni, infatti, hanno certamente generato non pochi benefici, ma hanno anche causato situazioni sfavorevoli, che hanno interessato i più deboli e in primo luogo gli anziani. L’industrializzazione del lavoro non ha bisogno più della creatività del singolo, perché si basa esclusivamente su lavori meccanizzati, ripetitivi e legati alla produttività e all’efficienza (quando non alla carriera): l’obiettivo primario è maggiore ricchezza e maggiore prestigio sociale; e quello che serve è una conoscenza operativa, bisognosa sempre e solo di nuovi aggiornamenti tecnici e metodologici. Non c’è alcun posto per l’esperienza acquisita (magari nel corso d’un’intera vita) anche come patrimonio di valori. Quell’esperienza propria che detiene l’anziano.
Anche il modello di famiglia “nucleare” è incapace di proteggere e valorizzare le potenzialità degli anziani, in quanto – data, appunto, la struttura del lavoro industrializzato – non ha la possibilità di accoglierli nel suo interno e tanto meno di garantire loro una qualche forma di assistenza.
L’età della pensione coincide con l’inizio di un ruolo improduttivo dal punto di vista economico e sociale: lo stabiliscono norme giuridiche, anche se a decidere (liberamente?) il passaggio dalla produttività all’improduttività è ciascun individuo.
Volendo esprimere questa realtà con espressione forse brutale, ma vera, si potrebbe dire: la vecchiaia, un tempo età di saggezza venerata e tenuta in gran conto per le sue potenzialità “produttive” in termini di guida, ora è sostanzialmente età d’attesa che la vita finisca, cessando di essere un peso per gli altri e un tormento per se stessi, condannati all’isolamento e all’emarginazione.
La geragogia si faccia carico di questi aspetti umani e, affrontando indagini impietose sulla realtà effettiva del vecchio oggi, fornisca indicazioni “oggettive” per un’adeguata educazione all’invecchiamento degno dell’uomo.

domenica 26 ottobre 2008

LA VITA E’ UN “LUNGO SOGNO”

Arturo Schopenhauer, seguendo il pensiero di Kant, sostiene che la “realtà”, rimanendo sempre inconoscibile in sé, si rivela solo come rappresentazione del soggetto. Per questo diventa molto difficile distinguerla dal sogno. Scrive, infatti:

“Noi abbiamo sogni; non è forse tutta la vita un sogno? – o più precisamente: esiste un criterio sicuro per distinguere sogno e realtà, fantasmi ed oggetti reali? – L’addurre la minor vivacità e chiarezza dell’immagine sognata rispetto a quella reale non merita alcuna considerazione; dato che nessuno ancora ha avuto presenti contemporaneamente l’uno e l’altro per confrontarli, ma si poteva confrontare soltanto il ricordo del sogno con la realtà presente. Kant risolve cosí il problema: “Il rapporto delle rappresentazioni fra di loro secondo la legge della causalità distingue la vita dal sogno”. Ma anche nel sogno ciascun particolare dipende parimenti in tutte le sue forme dal principio di ragione, e questo si rompe soltanto fra la vita e il sogno e fra i singoli sogni. La risposta di Kant potrebbe, quindi, essere formulata cosí: il lungo sogno (la vita) ha in sé connessioni costanti secondo il principio di ragione, ma non le ha coi sogni brevi; sebbene ciascuno di questi abbia in sé la stessa connessione: fra questi e quello è dunque rotto il ponte, e in base a ciò si distinguono tra loro.
(...) L’unico criterio sicuro per distinguere il sogno dalla realtà è in effetti quello affatto empirico del risveglio, col quale in verità il nesso causale fra le circostanze sognate e quelle della vita cosciente viene espressamente e sensibilmente rotto.
(...) Calderon infine era preso cosí profondamente da questo pensiero, che cercò di esprimerlo in un dramma, che in un certo modo è metafisico: La vita è sogno.
Dopo tutti questi passi di poeti sarà concesso anche a me di esprimermi con una similitudine. La vita e il sogno sono le pagine di uno stesso libro. La lettura continuata si chiama la vita reale. Ma quando l’ora abituale della lettura (il giorno) è terminata e giunge il tempo del riposo, allora noi spesso seguitiamo ancora pigramente, senza ordine e connessione, a sfogliare ora qua ora là una pagina: ora è una pagina già letta, ora una ancora sconosciuta, ma sempre dello stesso libro. Una pagina letta cosí isolatamente è, invero, senza connessione con la lettura ordinata: tuttavia non rimane molto indietro a questa, se si pensa che anche il complesso della lettura ordinata comincia e finisce parimenti all’improvviso, e si deve, quindi, considerare solo come un’unica pagina piú lunga.
Anche se, dunque, i singoli sogni sono distinti dalla vita reale in quanto non entrano in quella connessione dell’esperienza, che costantemente continua per tutta la vita; anche se il risveglio rivela questa differenza; tuttavia è proprio quella connessione dell’esperienza che già appartiene, come sua forma, alla vita reale ed il sogno stesso mostra anch’esso una connessione, che si trova a sua volta in se stesso. Se, dunque, per giudicare scegliamo un punto di riferimento esterno ad entrambi, non troviamo nella loro essenza nessuna distinzione precisa e siamo, così, costretti a concedere ai poeti che la vita è un lungo sogno”. (A. Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione, I, 5).

Cos’è la realtà? Cos’è il sogno? Cos’è la vita? Tre domande che resteranno sempre senza una risposta certa. Ciascuno vede – e lo fa con estrema lealtà – la “sua” realtà e, se non intende oltrepassare i limiti dell’onestà intellettuale, non ne formula ipotesi interpretative, senza dubbio rispettabili, ma comunque prive di fondamento valido. Ciascuno elabora i “suoi” sogni, che, a differenza dei progetti, che sono qualcosa di inesistente che si vuol portare alla realtà (e, si solito, vengono partecipati ad altri senza alcuna remora), sono elaborazione positiva del proprio esistere (e, di solito, vengono tutelati all’ombra pudica del proprio lato intimo).
La vita, allora, è l’unione di realtà e sogno, cioè di razionalità umana (realtà) e di umanità integrale (sogno): la prima non deve soffocare la seconda, perché ne resterebbe annichilita la vita intera; la seconda non deve misconoscere la prima, perché ne uscirebbe gravemente mutilata la totalità dell’essere umano. Tutto – reale e sognato - è proiezione del singolo soggetto; ogni pretesa di possedere qualcosa come “reale oggettivo” è debolezza umana incapace di accettare e rimanere nei limiti umani; ogni tentativo o desiderio d’imporre ad altri il proprio modo di vedere è presunzione pericolosa, che oltraggia la libertà e la dignità della coscienza altrui.
I poeti definiscono la vita un “lungo sogno”. Parafrasando Schopenhauer, noi diremo che la vita è un libro unico, più o meno voluminoso, composto da tante pagine, sulle quali vengono scritte tante vicende “reali” e “sognate”: belle e brutte, felici e tristi, volute e fortuite. Le pagine, se lette isolate, perdono il proprio senso vero, autentico e compiuto; ma acquistano tutto il loro significato nell’ essere lette e intuite nel loro insieme. Così è la vita umana: è realtà d’ogni momento programmato e vissuto, ed è, insieme, sogno d’ogni istante covato e protetto. Il loro intrecciarsi tessono la vita d’ogni uomo, che sappia e voglia leggere l’intero volume della sua esistenza, con coraggio e senza paura di riconoscere e abbracciare l’intera sua scrittura.