Il Tempo, in sé fluire di momenti transeunti che vanno accolti, si apre a un "oltre" custode Eterno di valori trascendenti che vanno abitati. Vicende e realtà tendono alla suprema fusione nell'infinita Totalità, anima di ogni Speranza.

sabato 2 luglio 2016

VINCE L'ASTENSIONISMO. DEMOCRAZIA KO

Pubblicato su Affaritaliani il 20 giugno 2016

E’ giunto il tempo fissato per “tirare le conseguenze” del responso delle urne elettorali. Le analisi e le valutazioni veramente significative delle consultazioni amministrative erano state rinviate al dopo i ballottaggi, fermo restando – com’era stato sottolineato ripetutamente da alcuni esponenti e forze politiche - che si sarebbe trattato di consultazioni amministrative, quindi di breve respiro, in quanto circoscritte al governo di Enti Locali  e, pertanto,  assolutamente vuote di qualunque valenza politica nazionale. I commenti dei leaders di partito sono noti, del resto prevedibili e scontati, perché collaudati da decennale ritualità: il solito e usurato sciorinare numeri, cavillando per evidenziare a ogni costo il significato positivo o negativo dei decimali delle parti e, ovviamente, per ostentare il proprio avanzamento (probabile) e sottolineare la regressione (eventuale) d’altri. Qualunque conquista è esaltata come vittoria e qualunque perdita è segnalata come sconfitta. Il cittadino italiano, però, da parte sua, a questo spettacolo assiste incredulo, ma soprattutto amaramente sospeso tra il serio e il faceto: l’intero mondo politico ostenta grande competenza a interpretare il responso delle urne; ma dimentica (astutamente) o sottace (scaltramente) che a disertare le urne è stata circa la metà dell’elettorato.

Certo, nella democrazia rappresentativa è utopistico pretendere una partecipazione totale del popolo all’esercizio del voto, ma è realistico aspettarsi l’adesione d’un numero significativo di elettori. Quando ciò non succede, discettare su chi – tra i partiti politici in campo – abbia vinto e perso è un esercizio inutile, se non dannoso e che, comunque, fa parte di modelli ormai superati. Oggi, il fenomeno più incomprensibile e pauroso, che dev’essere analizzato e valutato in ogni sua dimensione, è l’astensionismo: il destino della democrazia – non solo in Italia – è appeso alla soluzione del problema dell’astensionismo. Nella democrazia realizzata nasce, si radica e s’irrobustisce un sempre più convinto e profondo sentimento di comune appartenenza, che è l’esatto contrario dell’assenteismo. La disaffezione e l’avversione del cittadino verso la politica, pertanto, nascono essenzialmente dal vedersi privato del “diritto di associarsi liberamente per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale” (art. 49 della Costituzione) e dallo svuotamento (graduale, ma reale) del suo diritto-dovere di voto, a causa di leggi elettorali, che trasferiscono il potere reale di designare i “rappresentati del popolo” solo ai capipartito. Si crea così un distacco tra governanti e governati, che snatura l’essenza stessa della democrazia, sradicandola dal suo senso costitutivo e trasformandola in altre forme di governo, forse più efficienti, ma non certo “del popolo per il popolo”.

In buona sostanza, la causa dell’astensionismo è lo strapotere di alcuni pochi, che pianificano programmi socio-politici forse anche in sé validi, ma che il “popolo non gradisce”; per cui bisogna individuare e valutare chi sono i “soggetti interessati”, che propongono - con un pesante deficit di democrazia - per il prossimo futuro i mutamenti alle condizioni generali della politica (ovviamente in nome del popolo e per il bene comune). A rafforzare queste domande (e a trovare risposte plausibili) sono i recentissimi comportamenti - espliciti e diretti – dei mercati economici e finanziari, delle grandi imprese e delle multinazionali. E’ di qualche giorno fa l’avviso dell’agenzia internazionale di valutazione di credito Fith, che – dopo l’ingiunzione già del 1913 all’Eurozona di “sbarazzarsi delle costituzioni antifasciste” – ha unito la sua voce a quella dei Fondi JP Morgan, della Confindustria e del Fondo Monetario Internazionale a proposito del comportamento dei cittadini al prossimo referendum costituzionale: gli Italiani approvino la proposta referendaria del loro Governo, perché “l’esito del referendum di ottobre 2016 sarà fondamentale per determinare se la spinta alle riforme continua o va in stallo”. Nulla da eccepire sulla legittimità di esprimere opinioni e dare indicazioni, anche se i mercati finanziari e le multinazionali non hanno le migliori credenziali per giudicare e consigliare (considerando la crisi del 2007-2008); si tratta, comunque, di un mondo autonomo, che giustamente ha i propri scopi da raggiungere e i propri interessi da difendere. Del resto, anche i vertici delle gerarchie ecclesiastiche spesso non dubitano di attaccare a gamba tesa il mondo della politica e dare ai “credenti” – spesso e più o meno diplomaticamente - indicazioni  di comportamento.

Il problema vero – che deve preoccupare molto seriamente, e non solo gli Italiani - non è né la retorica dell’antipolitica (quante carriere costruite e quante scalate al potere in nome dell’antipolitica!), né la perdita spesso lamentata di autonomia della politica a causa sia dello strapotere della magistratura e sia delle indebite ingerenze della sfera morale. Autonomia, infatti, non è assoluta e totale autoreferenzialità o rigida divisione impermeabile dei poteri, ma capacità di ogni potere e istituzione di perseguire i propri scopi con i propri metodi, sempre e comunque in continuo confronto collaborativo con ogni altra realtà statuale, sociale, economica e culturale. Il problema vero è lo svuotamento del modello democratico. La democrazia reale è certamente una forma di governo, ma che si sostanzia d’una propria  visione integrale dell’uomo e del mondo, senza della quale diventa sterile tecnicismo, arido sistema di riforme e controriforme, spesso bloccato dai veti incrociati dei diversi partiti e sindacati. Per questo nella democrazia c’è il rischio che si apra un’agevole strada per reclamare urgente la necessità di efficienza governativa e di velocità amministrativa, comportando ovviamente un depotenziamento del  modello democratico, in cui si depaupera gradualmente il ruolo del popolo. La democrazia viene ridotta a insieme di regole e di procedure di natura tecnica, bisognosa, quindi, non di politici competenti e lungimiranti, ma di tecnici e di decisionisti. Invece la democrazia vive di azioni di governo e di sviluppo, in cui tutte le forze sane della cultura, della politica e dell’economia s’intrecciano in sinergia positiva e solidale. Del resto, la politica, finché sembrava offrire qualche possibilità costruttiva di azioni concrete indirizzate al maggior bene comune, poteva ricorrere all’ausilio di personalità valide e generose, estranee alla politica (irrise poi dagli stessi politici come “utili idioti”), ma l’attuale situazione (non solo dell’Occidente) fa rammentare ai benpensanti il consiglio suggerito due millenni e mezzo fa nella Repubblica (VI libro) dal vecchio ed esperto Platone: quando infuria la tempesta devastatrice, è da insensati mettersi in mezzo e sfidare la bufera; è saggio soltanto il mettersi al riparo, sperando di salvare almeno la propria ragione.
Mettersi al riparo dalla degenerazione della politica e dalla corruzione dilagante ovvero, parafrasando Jacques Maritain, schierarsi per la “neutralità attiva”: forse è questa oggi l’unica forma di “antipolitica” positiva e costruttiva, intesa come lotta dura contro i partiti alquanto degenerati e i suoi esponenti che, anziché  perseguire il bene comune, sono dediti solo o soprattutto agli interessi personali e privati, sfruttando al peggio i bisogni del popolo onesto e laborioso. La presenza in politica di persone credibili potrebbe tornare a vantaggio di chi della politica fa un mestiere  a suo uso e consumo. Inoltre, rimanere fuori, in situazioni particolari, è l’opposizione necessaria, in quanto, se non ci sono forme sane di opposizione, non c’è democrazia, ma pensiero unico; e senza diversità di pensiero, si annichilisce lo spirito umano creativo e libero e s’incoraggiano la simulazione degli scaltri e l’uniformità dei deboli. Di conseguenza, non più rispetto del vero, del giusto e del bene, ma ampia liceità di ciò che conviene. Ma, se è giusto sempre e solo ciò che conviene, svaniscono responsabilità e libertà, cioè quell’eredità umana, che dovremmo responsabilmente trasmettere alle generazioni future.

domenica 12 giugno 2016

PER UN VOTO REFERENDARIO RESPONSABILE E LIBERO

Pubblicato su Affaritaliani il 6 giugno 2016

Chiuse le urne e sfogliate le schede elettorali, tutti i partiti sono impegnati a fare i conti e tracciare bilanci, concentrati a indovinare a favore di chi sta girando il vento. Comunque, può ritenersi chiuso il tempo della campagna elettorale per le consultazioni amministrative (dai toni non sempre raffinati e dalla qualità spesso mediocre); ed è giunto il tempo di dedicarsi alla conoscenza seria e alla valutazione ponderata delle problematiche inerenti al referendum costituzionale, che si terrà in ottobre e con cui i cittadini italiani sono interpellati se approvare o respingere la riforma voluta dal governo in carica.

Il testo di legge - lungo e piuttosto complicato – comprende contenuti notevoli e destinati a cambiare in maniera significativa il funzionamento dello Stato e delle sue Istituzioni. Se approvato, la “Repubblica Democratica” italiana non sarà governata più dal Parlamento composto da due Camere con ruoli uguali e competenze ripetitive; il suo Governo sarà investito del suo Potere Esecutivo mediante la fiducia della sola Camera dei Deputati; il Senato avrà composizione e ruolo del tutto inediti; nuove norme regoleranno i rapporti tra il Governo Nazionale e le Assemblee dei vari Enti Locali; saranno introdotte importanti novità riguardo la procedura dell’elezione del Presidente della Repubblica e nuovi criteri per la designazione dei componenti della Corte Costituzionale.
Si tratta, insomma, d’un documento legislativo, con cui si propone una serie di modifiche ed emendamenti, che darà un volto radicalmente innovativo all’intera organizzazione governativa dell’Italia del XXI secolo. Per questo ci sarà bisogno sia d’un popolo diligentemente informato e responsabilmente coinvolto, e sia d’una classe politica dalle competenze adeguate e disponibile ai frequenti e tempestivi aggiornamenti, che richiederanno sia l’evolvere talora repentino delle situazioni e sia la sempre maggiore necessità di efficienza operativa dell’intera macchina politico-amministrativa del Paese. Si tratta, quindi, d’una svolta politica decisiva, che richiede, oltre alle ovvie dotazioni tecniche e giuridiche, anche e soprattutto una generale formazione culturale rinnovata, grazie alla quale l’intera Nazione sappia intercettare e accogliere ogni emergente istanza del nuovo, innestandola - con l’indispensabile “prudenza politica” – sull’eredità del passato (che va sempre e comunque valutato e rispettato) e armonizzandola col presente e nella prospettiva del futuro, cui ogni generazione vuole legittimamente ambire.
Appare subito chiaro che la partita in gioco è di estrema importanza: si tratta, infatti, di scelte decisive, che determineranno la qualità della vita del popolo italiano di oggi e di domani. Per questo è assolutamente prioritario che agli elettori siano illustrati  i contenuti della legge oggetto del referendum con spirito di collaborazione costruttiva, in modo sincero e veritiero, con opportuna pacatezza di argomentazioni e con la dignità di linguaggio richiesta dall’argomento; senza timore di esplicitare ogni intenzione (anche non immediatamente palese), di riconoscere possibili contraddizioni in cui si è dovuti cadere, anzi, evidenziando probabili rischi, cui sarà possibile (o anche necessario) incorrere, pur di perseguire obiettivi reali di progresso e di bene comune. Essere disponibili al confronto e al dialogo, difendere le proprie idee riconoscendone pregi e difetti, accogliere suggerimenti utili per miglioramenti evidenti è sempre e comunque dimostrazione di maturità etica e prova di saggezza politica.
Quello, invece, che viene offerto ai cittadini in questa circostanza appare uno scenario molto diverso e comunque molto lontano da quello che serve. Si ha la sensazione che si voglia trattare l’elettorato alla stregua di tifoserie calcistiche da ben organizzare e istruire. Da una parte, infatti, è stato stilato l’appello dei cosiddetti “costituzionalisti contrari alla riforma costituzionale” (immediatamente e aprioristicamente definiti – proprio da chi forse dovrebbe rimanere al di sopra delle parti -  “archeologi che credono di difendere il codice di Hammurabi”), dall’altra parte è stato contrapposto e diffuso il “manifesto delle ragioni del sì”, sottoscritto da un nutrito gruppo di costituzionalisti e intellettuali, che si presenta come chi, “dopo anni e anni di sforzi vani (…), affronta efficacemente alcune fra le maggiori emergenze istituzionali del nostro Paese”. Leggendoli entrambi, per la genericità aleatoria del contenuto, per il tono sconveniente all’elevatezza dell’argomento e poco riguardoso dell’intelligenza dei cittadini, fanno rimpiangere i “Manifesti” degli intellettuali fascisti e antifascisti di novant’anni fa (1925), che pure non brillarono molto per imparzialità dottrinale e lungimiranza politica, nonostante la riconosciuta autorevolezza dei loro promotori. Tanto può fare  la “passione politica”, se incontrollata.
Oggi, però, i cittadini italiani non sono chiamati a sostenere e far trionfare una di due proposte opposte, ma a “contribuire democraticamente” a creare l’unico documento necessario e utile per la più onesta e più efficace strutturazione del governo della società. Ai cittadini interessa sostanzialmente che siano salvaguardate la sovranità popolare (essenziale per una “democrazia” e come sancito nell’articolo 1 della Costituzione)  e la libertà personale e collettiva (conquistata e donata loro dai propri padri). La graduale usurpazione di questi due valori fondamentali e irrinunciabili ha allontanato molti (circa la metà degli elettori non più votanti!) dalla politica, in quanto si sono visti deprivati – in maniera progressiva, ma sostanziale e talora con ingannevoli tatticismi partitici - della loro sovranità, affidata all’esercizio del voto “personale ed eguale, libero e segreto” (articolo 48 della Costituzione), essendo stati ridotti di fatto ad avalli, rituali e obbligati, di scelte decise da pochi e al di fuori dal popolo, anche quando si proclamava da tutte le parti di agire per il bene del popolo. Senza sovranità sostanziale non ci può essere concreta pienezza di libertà né di pensiero né di azione.
Dal momento, quindi, che la prossima riforma costituzionale regolerà l’intera vita futura del popolo italiano, è essenziale che a deciderla definitivamente sia il popolo, coinvolto il più direttamente possibile e mediante procedimenti condivisibili e rispondenti alla forma “Repubblicana-Democratica” dello Stato e del Governo. E non si può fingere di non sapere che il mutamento della forma dello Stato e del Governo si può perseguire in tanti modi. Mutando, per esempio, qualche formale, ma significativa “sovrastruttura” funzionale, di fatto resta modificata anche la “struttura essenziale e sostanziale” della Carta. Certo, nel contesto politico europeo e intercontinentale, è risibile sentir paventare la “deriva autoritaria” o, all’opposto, veder brandire il fantasma della “palude”.  Così come è assurdità istituzionale e contraddizione politica legare il destino d’un Potere Esecutivo e addirittura il futuro d’un Premier a un esito referendario. A meno che non si vogliano nascondere biasimevoli forme ricattatorie. La Costituzione va aggiornata, perché ne ha bisogno, secondo anche l’avvertimento del Calamandrei, che già novant’anni fa, in occasione della festa della Repubblica, affermava che si celebrava la “festa dell’incompiuta”.
Il popolo sovrano è chiamato ad esprimersi non sull’opinabilità di messaggi più o meno veritieri e opportuni, ma su temi vitali e ben definiti. A tal fine, è necessaria una sola cosa: abbandonare ogni interesse privato e ogni settarismo partitico e spiegare al popolo, in maniera “schietta e popolare”, quanta verità certa e quanti sottintesi pericolosi sono contenuti nella riforma costituzionale proposta, dileguando le ombre che oscurano soprattutto alcune questioni nevralgiche, come le innegabili ripercussioni del combinato disposto di riforma costituzionale-legge elettorale.


mercoledì 1 giugno 2016

DIRITTI UMANI E DIGNITA’ DELLA DONNA

 Pubblicato su Affaritaliani il 25 maggio 2016

Nel maggio dell’anno scorso, su iniziativa del mensile de “L’Osservatore Romano” Donne Chiesa Mondo, nella Casina Pio IV in Vaticano, s’era celebrato un seminario internazionale di tre giorni (28-31 maggio)  sul tema riguardante i diritti umani e la salvaguardia della dignità della donna. I partecipanti erano tutte donne, ma a relazionare erano stati chiamati due uomini, “persone competenti ed appassionate”. Dall’articolato e ricco dibattito vennero fuori testimonianze interessanti e proposte coraggiose, che furono riassunte in tre ambiti problematici: a) la violenza sessuale subìta e vissuta con vergogna da parte della donna, b) il comportamento della famiglia di fronte all’emancipazione femminile, c) la definizione della nuova identità della donna. 

Trascorso un anno, il 3 maggio scorso, il Segretario di Stato Vaticano, cardinale Pietro Parolin, la coordinatrice della rivista Lucetta Scaraffia e la sorella di Bose Elisa Zamboni hanno presentato - ufficialmente e solennemente nella sala della Filmoteca Vaticana a Palazzo San Carlo - il medesimo mensile Donne Chiesa Mondo, che compiva quattro anni di vita e veniva arricchito di contenuti nuovi e di rinnovata veste tipografica. 

Venti giorni dopo,  su proposta di Anelay of St Johns, ministro e rappresentante speciale del governo britannico per la prevenzione della violenza sessuale nei conflitti, l’ambasciatore di Gran Bretagna presso la Santa Sede ha organizzato, con l’aiuto del Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace, un seminario per discutere della violenza sessuale, primo ambito emerso dal seminario tenuto l’anno precedente e dolorosa emergenza causata soprattutto dalla crescente belligeranza tra le nazioni.   

La riunione – sottolinea con sofferta amarezza e attenta precisazione Lucetta Scaraffia - si è svolta a porte chiuse, in un luogo appartato di Roma, perché molte delle religiose e dei religiosi coinvolti rischierebbero la vita, se si sapesse cosa fanno. E comunque si è capito che la rischiano ugualmente. È infatti molto pericoloso cercare di difendere le donne in Paesi dove domina incontrastata la guerra civile, che comporta una violenza continua e inesorabile: un cappuccino congolese ha parlato di trecento donne violentate al giorno solo nella sua regione. È una realtà terribile, di cui non si parla molto, oppure vi si accenna solo per dire “è sempre stato così”. E ancor meno si parla di chi cerca di porre rimedio a questa tragedia”. 

A conclusione dei lavori del seminario sono stati suggeriti e sottolineati alcuni rimedi immediati e indispensabili, per contrastare la violenza sessuale a danno delle donne. Innanzitutto la produzione d’una legislazione seria, ferma e decisa contro l’impunità diffusa dei violentatori: infatti, la prospettiva d’una punizione del colpevole certa, sicura e ben proporzionata al misfatto, se non scoraggia del tutto l’aggressività dei molestatori, almeno incoraggia la donna a denunciare, superando e vincendo il senso di colpa, che quasi sempre s’addossa, rimanendone attanagliata. In secondo luogo, l’impegno necessario per unire gli sforzi da parte di tutti, al fine di dare vita – in questi tempi caratterizzati da movimenti di rivendicazione dei diritti d’ogni natura e a ogni livello - a ogni possibile iniziativa capace di trasformare, con gradualità e continuità, la visione culturale spesso carente dei valori peculiari della persona umana e della donna. 

A giusta ragione il ministro britannico ha predisposto un protocollo - firmato da 140 Paesi – in cui sono contemplate e dettagliatamente spiegate le istruzioni per l’avvio delle indagini e per la protezione dei testimoni e delle donne disponibili a denunciare. Il protocollo si pone anche come un ottimo  strumento offerto agli avvocati e ai giudici, perchè  affrontino un problema al quale, per ovvi motivi, non sono stati preparati.  

Per ora il protocollo riguarda i casi di violenza perpetrati nei paesi divenuti teatro spesso stabile di guerre oppure in nazioni  devastate da frequenti conflitti civili fratricidi fatti anche di funeste politiche di pulizia etnica. Questo, pur attirando giustamente l’attenzione su ciò che succede quotidianamente in luoghi alquanto “lontani”, non può e non deve distrarre l’interesse per quanto accade in luoghi a noi “vicini”. Le donne, infatti, subiscono violenze fisiche e morali anche nel chiuso dei muri domestici di “amorevoli case”, nelle strade popolate di “civilissime città” e spesso da parte d’individui insospettabili che, da uomini “per bene e di cui fidarsi”, si trasformano in esseri perversi e snaturati, privi d’ogni sensibilità e schiavi d’istinti brutali.  

Pertanto, è dovere universale di solidarietà umana e di giustizia sociale unire in un unico potente impegno le forze di tutti gli esseri umani, al fine di debellare l’inciviltà contro le donne e di lottare per la salvaguardia dei loro diritti umani e, in primo luogo, della loro dignità di persona. Gli incontri realizzati grazie anche all’iniziativa del mensile Donne Chiesa Mondo hanno scoperto un piccolo lembo della coltre che copre una realtà tanto disumana quanto trascurata. Infatti, la narrazione e la conoscenza di tante coraggiose esperienze, di tante vite eroiche, sinora quasi sempre sotterrate dal pudore personale e imprigionate dal timore sociale, sono state l’occasione che ha messo in luce l’immagine almeno d’una parte di umanità, che vuole schierarsi dalla parte dei più deboli, ai quali la frenesia del profitto economico, la brama del potere politico e la sordità morale d’interi paesi hanno tolto persino la voce, con cui poter denunciare soprusi patiti e difendere elementari diritti negati.  

In primo luogo, pertanto, urge l’impegno comune per una radicale trasformazione culturale, che faccia capire - agli uomini e anche alle donne – che la donna è una persona appartenente al genere umano e, quindi, con gli stessi diritti umani, con la stessa dignità e con il medesimo dovuto rispetto; e lo è sempre, anche quando – disgraziatamente – è stata deturpata nel corpo e dissacrata nell’anima; essa resta sempre persona che ha le carte in regola, per vivere da elemento attivo della propria società e da parte vitale della comunità umana. Anzi, diventa persona più degna, perché più provata; più meritevole, perché più sperimentata; più amabile, perché  riconsacrata. Nella storia secolare dell’umanità, quella della donna  è una storia a sé e registra lunghe ed estenuanti lotte per rivendicare e ottenere il riconoscimento almeno dell’uguaglianza di genere, per lungo tempo sopraffatta e negata dalla prepotenza ottusa del genere maschile. 

Prevenire, impedire, difendere, punire debbono essere, quindi, i cardini d’ogni valida iniziativa di rieducazione permanente al rispetto reciproco di tutti gli esseri umani e, quindi, anche della donna. A cominciare dalle famiglie, a continuare con la scuola, a proseguire con le istituzioni nazionali e gli organismi internazionali















giovedì 26 maggio 2016

CORRUZIONE E PRESCRIZIONE TRA URGENZE E DUBBI


Pubblicato su Affaritaliani il 29 aprile 2016

Ciò che suscita stupore – che subito, però, si trasforma in indignazione – ormai non sono più la realtà e la scoperta dei fatti di corruzione ogni giorno più dilaganti e veramente sorprendenti. Stupiscono, invece, le reazioni di alcune parti del mondo della politica, quando sono interrogate e chiamate a trovarne i rimedi, al fine di debellare il più possibile la piaga della disonestà privata e del malaffare pubblico. 

Come, soprattutto nell’ultimo ventennio, il “potere legislativo” italiano abbia prodotto volta per volta (e spesso caso per caso) “strumenti  giudiziari” mirati a rendere impunibili non pochi né piccoli reati delle caste e delle lobbies è scritto nelle cronache di quegli anni e ormai sotto gli occhi di tutti. Tra tutti spiccano gli interventi sulla prescrizione, grazie alla quale sono state pronunciate (per costrizione di forza maggiore) numerose sentenze di non colpevolezza, prontamente scambiata e tatticamente propagandata come “innocenza”, tanto che da “presunti colpevoli” si diventava “sicuri innocenti” perseguitati, vittime di una giustizia vessatoria e amante delle manette.  

Da oggi – finalmente! – parte l’esame parlamentare del testo base per allungare i tempi della prescrizione. Significative le puntuali sottolineature fatte ieri all’inaugurazione dell’anno formativo della Scuola Superiore della Magistratura a Scandicci dal Presidente Mattarella, giunto a Firenze in treno. Ricordato il dovere di chiunque s’impegni in politica non solo di essere, ma anche di mostrarsi onesto in ogni momento e con tutta trasparenza, in quanto “nell'impegno politico si assume un duplice dovere di onestà per sè e per i cittadini che si rappresentano”, il Capo dello Stato ha avvertito: “Dobbiamo continuare a spezzare le catene della corruzione, che va combattuta senza equivoci e senza timidezze. Occorre una grande alleanza tra forze sane per sviluppare gli anticorpi necessari”. 

A tal fine è necessario che vi sia la massima coesione tra gli organi dello Stato e nelle istituzioni, perché “Il conflitto genera sfiducia, la giustizia è un servizio e un valore, le istituzioni devono saperla assicurare per evitare che si generi sfiducia e si dia spazio al malaffare". Certo, “Vanno rispettati i confini delle proprie attribuzioni, senza cedere alla tentazione di sottrarre spazi di competenza a chi ne ha titolo in base alla Costituzione”, ma ognuno deve fare senza indecisioni e negligenze il proprio compito. L’ordinamento giuridico e il funzionamento operativo della giustizia sono uno dei pilastri della vita democratica del Paese: "Ai magistrati è affidata la cura di uno degli aspetti fondanti del nostro Stato: la tutela dei diritti, della giustizia, delle libertà. Senza questi non c'è democrazia, non c'è uguaglianza, non c'è dignità della persona, in altre parole non c’è Repubblica”. 

Ecco allora lo stupore, quando si assiste a certi distinguo di qualche parte politica e ad alcune dichiarazioni di alcuni importanti esponenti di partito. Si è giunti a dover leggere il minaccioso ricorso all’uso della “fiducia al governo” anche su quest’atto così vitale per la sopravvivenza morale ed etica dell’Italia. Che senso avrebbe imporre un ultimatum sulla possibilità di somministrare l’unico farmaco salvifico a chi sta morendo proprio per la mancanza di quel farmaco?

lunedì 23 maggio 2016

A ISTANBUL IL VERTICE UMANITARIO MONDIALE

Dalle pagine dell' Osservatore Romano già due giorni fa Fausta Speranza annunciava - con lo scritto che proponiamo nella sua interezza - la celebrazione dell'evento che oggi sta realizzandosi a Istanbul.
"L'impegno per la pace" tra gli uomini e tra le nazioni, da mettere in atto con i fatti e non con le parole, da parte dei responsabili religiosi e politici, senza dimenticare la necessità di svegliare la coscienza e la responsabilità  di ciascuno, come appartenente al genere umano e, quindi, indiscusso corresponsabile.  

"Seimila partecipanti, tra cui cinquanta leader mondiali. Prende il via, lunedì 23 maggio a Istanbul il primo vertice umanitario mondiale, voluto dal segretario generale dell’Onu, Ban-Ki-moon. Per due giorni, nella capitale turca si riuniranno rappresentanti di governi, agenzie per gli aiuti umanitari, comunità colpite, società civile e settore privato.  

Parteciperà anche la delegazione della Santa Sede presieduta dal cardinale segretario di Stato, Pietro Parolin, della quale faranno parte l’osservatore permanente presso le Nazioni Unite a New York, arcivescovo Bernardito Auza, e l’osservatore permanente presso l’ufficio delle Nazioni Unite ed Istituzioni specializzate a Ginevra, arcivescovo Silvano Tomasi.  

Lo scenario è drammatico e noto. Ogni giorno, le cronache parlano di nuove vittime della violenza. Su dieci, nove di queste sono civili. E sono centoventicinque milioni le persone direttamente coinvolte in questa vera e propria guerra mondiale a pezzi.  

L’obiettivo ultimo della mobilitazione che ha portato al vertice è, in sostanza, tutelare l’umanità, mettendo in campo una cooperazione davvero mondiale. Dalle guerre più diverse ai disastri ambientali più dimenticati. Lo scopo è ambizioso e i piani di azione sono innumerevoli e complessi.  

Le leggi internazionali non mancano ma il punto è «far rispettare le norme che tutelano l’umanità», come è scritto nel titolo di una delle tavole rotonde. Oggi le guerre, che restano comunque drammatiche, sono asimmetriche, senza una contrapposizione precisa di eserciti o schieramenti di forze, e troppo spesso non c’è rispetto dei più basilari principi dei regolamenti internazionali.  

In tema di umanità, un presupposto è fondamentale, anche se troppo spesso dimenticato. È l’idea che, per parlare di umanità nel suo complesso, nessuno debba essere lasciato indietro. Da qui, il dovere di assicurarsi che sempre meno persone siano penalizzate da un’economia globale che non conosce sostenibilità. 

C’è poi una tavola rotonda dedicata a un tema sintetico quanto essenziale: ridurre i rischi. Infine, il dibattito che appare più concreto di tutti, quello su come aumentare i finanziamenti.  

L’appello, che emerge già prima del summit, arriva anche alle religioni e nello stesso tempo è lanciato proprio dalle religioni. A Istanbul infatti ci sarà un dibattito speciale proprio sull’impegno delle confessioni religiose. 

 C’è un antefatto: in vista del vertice umanitario mondiale, un anno fa, a Ginevra, i rappresentanti di quattro religioni hanno partecipato alla giornata di dibattito dedicata proprio al ruolo speciale svolto dalle istituzioni e organizzazioni religiose nelle zone di conflitto. All’incontro, promosso dall’Ordine di Malta, hanno partecipato cristiani, musulmani, ebrei, buddisti. 

In quell’occasione Jemilah Mahmoud, per anni medico in prima fila in vari conflitti e scelto da Ban Ki-moon per guidare il team internazionale di preparazione del vertice di Istanbul, ha ricordato che le organizzazioni a carattere religioso assicurano la maggior parte dell’assistenza umanitaria da cui attualmente nel mondo dipendono, per la stretta sopravvivenza, ben ottanta milioni di persone. Le organizzazioni religiose sono spesso le prime a intervenire sul campo nelle situazioni di emergenza umanitaria e per questo godono della fiducia delle comunità locali. Un’altra caratteristica fondamentale è che il loro arrivo non è legato a interessi politici.  

Ma anche i leader religiosi hanno un obiettivo preciso da raggiungere, lavorandoci molto. Ed è far sì che tutti si impegnino a giocare un ruolo nella battaglia contro i fondamentalismi. 

Più in generale, da parte dei leader politici, è necessaria una doverosa assunzione di responsabilità affinché cooperazione faccia rima con riconciliazione, e perché l’impegno all’assistenza proceda di pari passo con un impegno serio per la pace". (Fausta Speranza)

venerdì 29 aprile 2016

DEMOCRAZIA E CAPITALISMO INDUSTRIALIZZATO TRA OTTIMISMO (IDEALE) E NICHILISMO (REALE)

Pubblicato su Affaritaliani il 10 aprile 2016

“Corrono brutti tempi” è la sensazione dominante, tra stupore e incredulità, appena si dà uno sguardo alle realtà sociali e politiche dei nostri giorni. Viene subito in mente l’indignazione con cui duemila anni fa il console Cicerone, seriamente preoccupato, lamentava l’andamento delle cose nella Repubblica romana del suo tempo, inquinata dalla corruzione devastante, dallo smarrimento dell’etica pubblica e dalla perdita dei valori morali a ogni livello. 

“Una confortevole, levigata, ragionevole, democratica non-libertà prevale nella civiltà industriale avanzata, segno del progresso tecnico” accusava, da parte sua, Herbert Marcuse, quando mezzo secolo fa analizzava e descriveva le condizioni reali di vita nelle attuali società industrializzate, anche se guidate da governi che si designano come democratici. In essi, infatti, risaltano alcune caratteristiche dannose: manipolazione della verità, usurpazione della libertà individuale, baratto dei valori fondativi la democrazia, lotta smodata per scalare il potere, insaziabili ambizioni di benessere e di accumulo di ricchezze. Tutto abilmente camuffato da allettanti promesse di crescita generale sicura e godibile da tutti. 

Grazie, poi, ai rapidi processi industriali, alle enormi conquiste scientifiche e tecnologiche sempre più efficienti, l’uomo viene fatto sentire padrone della natura, e, disponendo di sempre più veloci mezzi di comunicazione, viene fatto illudere d’essere ormai divenuto l’invincibile dominatore dell’universo e di tutti i meccanismi della vita, compresa quella umana. Per poi, però, farlo ritrovare di fatto inadeguato alle nuove situazioni e sprovvisto delle capacità necessarie per l’enormità della sfida da affrontare. Con gravi imprevedibili conseguenze per gl’individui e le collettività. Non a caso negli stessi anni Hans Jonas proponeva la nuova formulazione dell’imperativo categorico kantiano: “Agisci in modo che le conseguenze della tua azione siano compatibili con la sopravvivenza della vita umana sulla terra”. 

A questo punto s’impone la necessità d’una riconsiderazione dell’intero modello culturale dell’attuale società industrializzata: proposto come fondato sulla verità, proclamato come salvaguardia di libertà e come garanzia d’innovazione e di futuro, nella realtà significa, però, soltanto liberismo e capitalismo, in cui sono proprio la verità, la libertà e l’equità che, benché ammesse formalmente, nella realtà rimangono del tutto esautorate e annichilite, tanto che non c’è alcun posto né per una verità oggettiva, né per un comune senso morale riconoscibile, né per un’etica pubblica cogente e condivisibile. Infatti, nel capitalismo industrializzato è possibile affermare e negare indifferentemente ogni cosa, in qualunque tempo; di conseguenza, solo il “nichilismo” (da dottrina filosofica divenuta categoria sociale) rimane l’unica visione in grado di sorreggere e avallare i contenuti e le implicanze del liberismo e del capitalismo, che s’arrogano il potere di elaborare e imporre soltanto le norme che si dànno da soli, in quanto devono essere atte a promuovere sempre e solo gli interessi del libero mercato e a inseguire gli umori variabili dell’offerta-domanda, assecondando la logica dominante della “volontà di potenza”. E fidando, naturalmente, nell’intervento salvifico della “mano invisibile”, che tutto adatta e tutto seleziona in una dinamicità interattiva.  

Le proposte alternative non saranno certamente né la rassegnata accettazione né il radicale violento rifiuto: sarebbero risposte entrambe utopiche e inconcludenti, e aggraverebbero ulteriormente la situazione. E’ necessario, invece, analizzare la vera natura delle cause che conducono ai risultati umanamente negativi e socialmente inaccettabili. Ora, davanti a noi si presenta un quadro sociale e culturale caotico: c’è una confusione generale dei princìpi, che causa un pericoloso rovesciamento dei valori reali. Infatti, mentre da ogni parte si ribadiscono la centralità dell’uomo e la dignità della persona, invece s’assiste a realtà di sfruttamento disumano, di disuguaglianze e di ingiustizie talmente gravi e offensive da far scrivere all’ONU giovedì scorso (7 aprile) dall’attuale Papa: “La grave questione della schiavitù moderna e del traffico di esseri umani continua a essere una piaga in tutto il mondo” da ritenersi un vero e proprio “crimine contro l’umanità”. A porre ordine e a tentare di sanare le disumane condizioni delle nostre società cosiddette avanzate è necessario che lo scopo ultimo ritorni a essere l’Umanità in tutte le sue dimensioni, e i mezzi siano gestiti come mezzi. Soltanto quando non sarà dimenticata la dignità d’ogni persona e si daranno i dovuti riconoscimenti a coloro che il capitalismo ha reso emarginati e ridotto a utili strumenti di produzione-consumo, allora si può ragionevolmente sperare che le società saranno comunità di individui dello stesso genere e della medesima dignità: ognuno fine ultimo della vita e non ridotto a mezzo di ricchezza economica o di potere politico.

Occorre mettere in atto ogni possibile iniziativa, per impedire il diffondersi d’una coscienza palesemente falsa e promuovere la formazione d’una coscienza umana autentica: ossia, uscire dagli interessi immediati e privati e mirare e tutelare i diritti reali della società intera. Bisogna cominciare dal prendere atto quanto sia deleterio per tutti, anche per le stesse imprese e gli stessi governi, concentrarsi soprattutto sulla creazione di profitti. Già quattro secoli fa nella “Nuova Atlantide” (1626) Francesco Bacone insisteva sulla necessità di un'organizzazione di ricerca coordinata tra “sapienti”; in essa nutriva concreta fiducia per un progresso scientifico e tecnico a dimensione umana e tratteggiava il disegno d’una società del futuro amministrata e governata grazie al dominio della scienza e della ricerca da parte dell’umanità: gli scienziati – in proficua leale collaborazione con i governanti delle nazioni - saranno quei “mercanti della luce”, che divulgheranno ogni scoperta e ogni conquista in tutte le parti del mondo, perché la Terra è di tutti e nessuno può essere escluso dalla fruizione del progresso. Ma un patto: che il vero fine sia “la conoscenza delle cause e dei segreti movimenti delle cose per allargare i confini del potere umano verso la realizzazione di ogni possibile obiettivo”, e non l’asservimento dell’Umanità e della Natura sotto la schiavitù dell’egoismo e delle passioni.  

Utopia? Forse. Ma Kant ha dimostrato abbondantemente l’energia e la potenza delle idee: mete da non perdere mai di vista, ma a cui guardare costantemente come fari di luce, per un cammino sicuro e umanamente degno verso le Altezze della libertà e della giustizia. Senza ideali, cui tendere con umana ma incrollabile speranza, l’uomo “si fa vivere” dai flussi incontrollati della storia e del mondo: da attore o co-attore protagonista della storia si riduce a insignificante comparsa sulla scena del teatro dl mondo.




martedì 22 marzo 2016

PARTITI POLITICI: “MUTAZIONE GENETICA” O DETERIORAZIONE ETICO-GIURIDICA?


Su Il Foglio di giovedì scorso 17 marzo è stata proposta ai lettori un’interessante e articolata “chiacchierata con Giuliano Amato”, in cui l’ex premier e attuale giudice della Corte Costituzionale propone un’analisi delle vicende dei partiti politici nelle attuali situazioni sia dell’Italia e sia di altre parti del mondo; analisi in parte condivisibile, ma in parte suscettibile di osservazioni e di necessarie puntualizzazioni. E’ indubbio, infatti, che le società umane – proprio perché umane - mutano, che le generazioni si susseguono con caratteristiche proprie sempre nuove, che gli ordinamenti etici s’aggiornano, le istituzioni s’adeguano e, quindi, l’evoluzione anche dei partiti politici non è “né buona né cattiva: è semplicemente inevitabile, è l’unico modo per andare avanti”. 

L’insigne giurista parte da un dato oggettivo inconfutabile: in Italia e in altre nazioni europee (e non solo) si moltiplicano formazioni politiche nuove, s’assiste a inarrestabili travasi da uno schieramento all’altro, si stringono ibridi connubi fra forze antagoniste, divenute d’un tratto associate nella gestione del potere: sempre, ovviamente, con la dichiarazione di voler solo contribuire alla soluzione di problemi di “economia, di politica estera e di riforme costituzionali”. Tradotto in termini più espliciti: nell’attuale realtà politica delle Nazioni e degli Stati è ormai impossibile pensare a vecchi o nuovi partiti maggioritari oppure sperare in qualche coalizione pluripartitica stabile, cui affidare il governo. Non c’è posto, dunque, per un “centro di governo”, ai cui lati si collocano una “destra” e una “sinistra” minoritarie e destinate al loro ruolo insostituibile di opposizione critica e costruttiva. Il partito politico, pertanto, non è né può essere più quello previsto dall’articolo 49 della Costituzione italiana, ma diventa quello che, captando gli umori  delle varie fasce sociali del momento, propaganda progetti e promette riforme “buone”, mirando però all’incremento del proprio numero di elettori che andranno a votare. Calcoli, quindi, d’interesse partitico a beneficio solo di una parte  e, perciò, avulsi dal bene comune e indifferenti ai valori umani sottesi e alle finalità sociali da perseguire. 

E’ un’analisi improntata a trasformismo governativo e a pragmatismo politico, legittimi e rispettabili, ma che suscitano alcune perplessità riguardo soprattutto due punti. In primo luogo, infatti, è necessario stabilire quali sono – sempre e comunque – la ragion d’essere, la natura e il ruolo del partito politico in una repubblica democratica. Bisogna stabilire se esso è la risultante del libero e responsabile “concorso dei cittadini con metodo democratico a determinare la politica nazionale” (articolo 49 della Costituione) oppure il risultato variabile e transitorio dei giochi tra i capi-partito. Preoccupano gli spettacoli quotidiani, in cui s’è costretti a confermarsi nella convinione che i partiti odierni mirano solo a imporsi contro tutto e contro tutti, attenti esclusivamente a demolirsi reciprocamente; e, quando lo spettacolo è meno indegno, appaiono sempre più inequivocabili due livelli sociali ben separati tra di loro: quello dei cosiddetti leaders che si denigrano, scommettendo a chi offende di più, e quello del popolo laborioso e serio, ormai disincantato e del tutto disinteressato alle umilianti e sconcertanti beghe partitiche. E’ necessario chiarire, quindi, se i partiti politici – nelle loro oggettive “mutazioni genetiche” storiche – si trasformano per la spinta di nuove esigenze del bene comune oppure vengono costruiti per calcoli settoriali e con tatticismi di dominio di alcuni settori, del tutto estranei ai problemi dei cittadini. 

In secondo luogo sembra necessario intendersi su cosa siano “centro, destra e sinistra” nella vita politica d’una repubblica democratica, intesa come potere del popolo, da parte del popolo, per il raggiungimento di finalità di bene comune. Tradotto in vita pratica, la democrazia è il “vivere insieme” nel rispetto della giustizia sociale e nella salvaguardia della libertà individuale e collettiva. Senza assiduo, attento e leale ascolto del popolo si rischia di “proporre e imporre” modelli di giustizia e di libertà forse belli e affascinanti, ma non aderenti alla realtà del popolo in un determinato momento storico e con particolari problematiche etiche e sociali. La vita politica veramente efficace ha bisogno di un “centro” inteso come punto di saggia e coraggiosa onvergenza delle istanze della “destra” e della “sinistra”, che, se lasciate in balìa di se stesse, la prima rimane puro cinismo (che può giungere a detestare la giustizia sociale e a svilire alcuni sentimenti umani) e la seconda si rifugia in un puro irrealismo (che – secondo l’insegnamento di Rousseau – preferisce sempre “ciò che non è a ciò che è”). 

Per quest’opera di mediazione culturale e politica essenziale la democrazia ha bisogno dei suoi tempi e dei suoi ritmi, che vanno sempre e comunque rispettati da chiunque sia chiamato al compito di governare. Solo così si governa in nome e per conto di tutti i cittadini, qualunque sia la loro fede politica. I cittadini, da parte loro, vanno necessariamente “educati alla politica” quale loro dovere di solidarietà pubblica, per divenire attori e protagonisti di politica e non rimanere individui “governati” perché bisognosi di guida e di sostegno. E il luogo naturale, dove i cittadini possono educarsi politicamente e agire attivamente nella società, è il partito politico. Non quello, però, mutato in associazione di interessi settoriali e privati a sostegno di precarie e mutevoli oligarchie partitiche, bensì come formazioni libere e animate da ideali ed energie sempre nuove e disponibili a ogni mutamento richiesto da realtà oggettive. Diversamente molti cittadini s’appartano, ma non per negligenza politica o insensibilità etica, bensì per salvaguardare la loro lucidità razionale e la loro libertà di pensiero: per proteggere, cioè, la propria dignità umana dalle insidie d’una politica ridotta a furbizia messa al servizio delle passioni di alcuni.

giovedì 17 marzo 2016

TEMPO DI DIRITTI E FORZA DELLA POLITICA

Pubblicato in Affaritaliani il 02.03.2016

Nelle ultime settimane s’è assistito in Italia a fatti veramente significativi, che hanno suscitato stupore e preoccupazione insieme. Mentre, infatti, in due diverse piazze numerosi cittadini esprimevano le ragioni e rivendicavano i diritti di due diverse concezioni di famiglia e di matrimonio, e mentre nella propria Aula Legislativa i senatori della Repubblica discutevano per raggiungere un accordo e legiferare al meglio sul riconoscimento dei diritti delle unioni civili omo ed eterosessuali, i capi dei partiti politici moltiplicavano e diversificavano la propria posizione, mutandone spesso, e talora anche sostanzialmente, le conclusioni, palesemente più motivati da tatticismi di carattere elettorale che guidati da fedeltà a valori morali e coerenza con principi giuridici. Salomonicamente è intervenuto il Governo, il Potere Esecutivo. Forse s’allungavano i tempi, di certo c’era la dichiarata incomprensibile urgenza di “portare a casa” anche questa legge: e allora, con l’arma della questione della fiducia, estorceva ai legislatori l’approvazione della “sua buona legge”, che doveva leggersi come “fatto storico”, in quanto venivano finalmente “concessi diritti alle coppie omosessuali che prima non avevano”; si tagliava, quindi, un “traguardo importante”, dato che era una “legge molto complessa e difficile, perché tocca le sensibilità di ogni parlamentare e che viene approvata dopo due anni e mezzo di discussione”.


Premesso che venivano riconosciuti i diritti delle “unioni civili” e, quindi, non solo delle “coppie omosessuali”, ma anche di quelle eterosessuali, eliminando finalmente la discriminazione anticostituzionale fatta sull’orientamento sessuale, s’impongono almeno due osservazioni. In primo luogo: i “diritti” non vengono mai concessi da alcun potere democratico, ma debbono essere da esso solo riconosciuti e garantiti, soprattutto mediante l’eliminazione degli ostacoli, che ne impediscono la fruizione, com’è il caso delle unioni civili, stando ai pronunciamenti della Corte Costituzionale, della Corte di Cassazione e persino della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. In secondo luogo: la politica governativa rivendica quotidianamente d’essere protagonista d’una luminosa e florida stagione di riforme e di diritti sociali e civili, con attenzione particolare alle classi più indifese e meno abbienti. La realtà, però, mostra un Esecutivo piuttosto timido, sempre disponibile ad accordi minimali, pur di poter sostenere di “aver fatto” qualcosa e di aver realizzato con i fatti riforme dai predecessori sempre annunciati e subito dimenticati.

Mancando di lungimiranza politica e non avendo la cultura del rispetto di tutte le minoranze (anche se scomode), il Governo in carica rischia di rimanere ostaggio di compromessi, che sfociano con certezza in controversie e rancori. Ed è il caso della legge sulle unioni civili da poco approvata. Infatti, lo stralcio dell’adozione dei figli del partner probabilmente dimostra capacità di mediazione politica, ma certamente testimonia mancanza di audacia ed energia governativa. I campi della scienza, della morale e della politica sono e debbono rimanere intrinsecamente separati. Ciò che scientificamente è possibile, non è automaticamente lecito in morale, né la politica deve rimanerne succube. L’adozione del figlio (ovviamente già in vita) del partner non ha nulla a che fare con altre pericolose immorali pratiche riproduttive che si chiamano in causa più o meno in buona fede. Tocca, quindi, alla politica mostrare il coraggio di definire con rigore ogni ambito, sbarrando ogni abuso e smascherando ogni furbizia. Il riconoscimento e l’affermazione di nuovi diritti pesano sull’ordine sociale esistente, ridistribuiscono poteri, rimodulano princìpi e norme. A chi governa il compito di produrre norme tempestive e chiare:  a ogni minore esistente deve garantirsi il diritto di una vita degna d’ogni uomo; è veramente doveroso, allora, svelare l’ipocrisia, con cui si giustifica lo stralcio concordato e accettato sulle adozioni del figlio del partner, chiamando in causa l’interesse dei minori, i quali, invece, resteranno vittime d’una sopraffazione, che è vera riesumazione della discriminazione tra figli legittimi e figli nati fuori dal matrimonio, civilmente e felicemente eliminata quarant’anno fa.

Indubbiamente la società è una struttura complessa e articolata, nella quale i singoli individui, inserendosi in sistemi relazionali già preesistenti e consolidati, operano ciascuno secondo la propria posizione e il proprio ruolo, al fine di perseguire il soddisfacimento di ben definiti bisogni comuni, pianificati nelle istituzioni. Tuttavia, la società umana non è qualcosa di astratto e ideale, ma una realtà storica concreta, costituita da generazioni umane diverse che convivono, si susseguono e si rinnovano; per questo essa si pone e si realizza come un organismo vivente e in continuo divenire, che si modifica perennemente, progredisce con gradualità sia materialmente che moralmente, salvaguardando ciò che in essa è e resta oggettivamente valido per tutti e acquisendo, nello stesso tempo, ogni novità utile e positiva per l’intera comunità. Considerare la società diversamente, come un insieme di strutture stabilite una volta per tutte e immutabili, significherebbe mitizzarla o addirittura deificarla, illudendosi di poter contenere e costringere nei suoi archetipi i sempre nuovi insorgenti dinamismi della vita sociale. La solidità e la stabilità d’una società si fondano, pertanto, sulla sua reale capacità di operare con rinnovata efficacia e con continuità, al fine di produrre risultati apprezzabili e vantaggiosi per tutti.

Questo dinamismo intrinseco d’ogni società provoca continui movimenti per il riconoscimento di nuovi diritti richiesti per la soddisfazione di  nuovi bisogni o di singoli o di gruppi. E non è un’operazione sempre facile e indolore. Talora, infatti, è un processo che richiede la demolizione di modelli culturali saldamente consolidati oppure esige l’ammissione almeno giuridica di istituti, che contrastano col senso comune dominante. In questo caso c’è bisogno di una prudente negoziazione socio-culturale, con cui si armonizzi gradualmente l’esistente con il nuovo, giustificando ragionevolmente e adattando cautamente le rispettive categorie mentali e morali.

E’ l’odierno caso italiano del riconoscimento dei diritti delle cosiddette unioni civili, che coinvolgono la visione degli istituti della famiglia e del matrimonio, oltretutto già acquisiti nostra Carta costituzionale del 1946 con i mutamenti sostanziali e rivoluzionari per quei tempi. Infatti, con il dettato dell’articolo 29, concordato dopo un lungo confronto e serrate discussioni tra i costituenti, fu eliminato il ruolo assolutamente maschilista ed egemone del padre di famiglia e riconosciuta la pari dignità morale e giuridica della madre di famiglia, rendendo la comune genitorialità unica responsabile del rispetto verso l’eventuale figliolanza. Ovviamente l’istituto del matrimonio e la concezione di famiglia  ne rimasero talmente coinvolti e trasformati che tuttora non è agevole stabilire chi e che cosa ne fondano la legittimità: se la filiazione legittima o la fedeltà reciproca o l’indissolubilità del legame o gli aspetti patrimoniali, considerato che l’adozione del divorzio e della separazione dei beni hanno svuotato il contenuto di queste categorie. Da ciò consegue chiaramente che l’istituto socio-giuridico del matrimonio non corrisponde più a una categoria ben definita, per cui non è impossibile, ma si può e si deve trovare la soluzione giusta ed equilibrata che consenta anche la legittimazione giuridica d’un legame socio-affettivo tra due persone, che ne facciano richiesta, nel rispetto del dettato dell’articolo 3 della Costituzionale, cioè nel rispetto della “pari dignità sociale e l’uguaglianza di tutti i cittadini davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”.


domenica 6 marzo 2016

“LEZIONE” DAL PASSATO PER UN “RIFORMISMO NON IDEOLOGICO”


Un antichissimo adagio recita: la storia è maestra di vita. Qualcuno, per esperienza o per burla, lo traduce: la storia  ha insegnato e insegna che gli uomini da essa non hanno imparato e non vogliono imparare mai nulla. Considerando, infatti, come viene considerato, giudicato e rispettato il passato, sia nei suoi aspetti negativi che nei suoi apporti positivi, non si può negare che la storia, da scrigno prezioso di saggezza e di esperienza, è trattata spesso come vecchio ripostiglio ingombro di oggetti inutili e spesso di ostacolo. Si valutano, pertanto, e si esaltano progetti futuribili belli e accattivanti, ma che sembrano spesso sradicati dalla realtà concreta, più volatili delle radici aeree. Progetti, tuttavia, che, se validamente sostenuti da  responsabile disponibilità a fruire - come si sostiene nell’articolo allegato -  di “ competenze che ci sono e attingendo al capitale inestimabile dell’esperienza in casa e fuori”, sarebbero veramente conquiste di valori umani e di traguardi di sviluppo sociale.

Nel “Domenicale” de Il Sole24Ore di qualche settimana fa è apparso uno scambio di corrispondenza tra Adolfo Battaglia e Roberto Napoletano dal titolo “La lezione italiana di un riformismo non ideologico”. I toni eloquentemente pacati, i contenuti esposti con sintesi magistrale, il suggerimento a riflettere e a nutrire una qualche pur timida speranza, fanno dello scritto qualcosa che merita d’essere letto,. E soprattutto d’accettarne la “lezione”

Lettera di Adolfo Battaglia

Caro Direttore,
la sua nota sul senso e l’importanza dello schema Vanoni pubblicata nello scorso Domenicale ha il raro merito di puntualizzare la trama politico-culturale che la nostra storiografia normalmente trascura e che è invece uno dei pochi pilastri solidi su cui si è retto lo Stato repubblicano per alcuni decenni. Nella concretezza del riformismo italiano stanno certamente uomini e forze dalle posizioni per tanti altri versi differenti. E accanto a De Gasperi, Einaudi, Vanoni, Saraceno, Ugo La Malfa, Ciampi vengono anche i Menichella, i Siglienti, i Cosciani, i De Gennaro, i Visentini, i Giordani; e perfino, in tempi differenti e per obiettivi differenziati, Fanfani e Moro, che realizzeranno in verità i due soli governi realmente riformatori avutisi in cinquant’anni (in ambedue, vedi caso, aveva un peso La Malfa).

Quella linea richiama senza dubbio alla dirigenza dell’IRI e della Banca d’Italia negli anni ’30-60; ma anche al grande turmoil keynesiano, generatore delle esperienze riformatrici americane e nord-europea. In Italia, occorrerebbe ripensare a Beneduce, al Nitti di inizio secolo, alla comprensione della struttura economico sociale moderna che fu nel ’24-26 dell’ultimo Amendola, fino al “Socialismo liberale” di Rosselli. La storiografia ha difficoltà a compiere un salto che implica la visione di una linea del riformismo italiano a prescindere da posizioni e da ideologie dei partiti. È un fatto invece che quella linea esiste ed è esistita nella concretezza delle opere di governo, come il portato di un sentimento democratico, e di una cultura economica largamente comune, aldilà di ogni teoria generale. Ed è sull’aggiornamento e sulla innovazione di quella trama riformatrice che le presidenze di Carlo Ciampi e di Giorgio Napolitano sono riuscite a salvare il Paese. Pensa che sarebbe male se oggi l’opera di governo si ispirasse di più a una tradizione così ricca? Adolfo Battaglia

Risposta di Roberto Napoletano


Adolfo Battaglia rivela i segni della sua storia politica repubblicana, dimentica qualcuno tra gli uomini del fare del miracolo economico italiano, penso a Gabriele Pescatore, e loda a ragione come riformatori i governi Fanfani e Moro di “impronta lamalfiana”, ben distanziati tra di loro, ma dimentica ciò che di buono è venuto ancora un bel po’ dopo: la stagione della politica dei redditi dell’esecutivo Ciampi e il primo governo Prodi che vinse la battaglia dell’euro, entrambi vanno di diritto considerati dentro quell’alveo di riformismo non ideologico che ha dimostrato di saper coniugare visione politica e buona amministrazione, di fare le cose, custodendo negli anni i cromosomi delle persone perbene e lo spirito forte della Nota aggiuntiva di Ugo La Malfa.

Soprattutto Battaglia ha ragione da vendere quando chiede al governo Renzi, che dimostra coraggio politico e capacità di azione ma eccede a volte in semplicismi e sicurezze di risultato, di attingere al capitale di valori della tradizione di governo più bella e ricca del Paese. Negli anni della ricostruzione e del miracolo economico italiano intelligenza tecnica, riformismo cattolico e cultura laica si seppero intrecciare positivamente e riuscirono a trasformare un Paese agricolo di secondo livello prima in un’economia industrializzata poi in una potenza economica mondiale. I De Gasperi, i Fanfani nell’età dell’oro italiana non rinunciarono mai al capitale della esperienza e della competenza, vollero intorno a sé uomini del fare del calibro di un Menichella, che come governatore della Banca d’Italia fece vincere alla lira l’oscar mondiale delle monete, e di un Pescatore, chiamato alla guida della prima Cassa del Mezzogiorno organizzata come un’agenzia americana di sviluppo, che tennero sempre fuori la politica dalle scelte di gestione, unirono le due Italie con gli acquedotti, le dighe e le strade, riuscirono a portare in casa i primi soldi esteri fino ad arrivare a raddoppiare il prestito Marshall. Per capire di che pasta erano questi uomini è sufficiente ricordare che quando andarono in America a raccogliere risorse per l’Italia, impresa che riuscì alla grande, si imposero di consumare un solo pranzo frugale al giorno perché nessuno potesse nemmeno pensare che erano andati a fare baldoria con i dollari che avrebbero dovuto raccogliere per contribuire a ridare una casa e un lavoro agli italiani.

Che cosa dire, poi, dei discorsi parlamentari di Ugo La Malfa quando metteva in guardia dai rischi di un eccesso di regionalismo che avrebbe moltiplicato i capi di gabinetto, i direttori di divisione e di sezione, avrebbe elevato al cubo le clientele e smarrito, di fatto, la capacità realizzativa, cioè, la qualità di fare le cose giuste con la velocità giusta? Quella storia di malaffare, profeticamente paventata dal “realismo visionario” di La Malfa, si verificò puntualmente, determinò quasi sempre la paralisi e si intrecciò, spesso, rovinosamente con un capitalismo lazzaronesco-feudale e una politica corrotta. Le macerie di questa storia di immobilismo e di clientele sono arrivate fino ai nostri giorni: a decidere di fare un tentativo serio di rimuoverle, per la prima volta, è stato proprio il governo Renzi riformando il Titolo V con il suo carico di distorsioni e di corruzione. Ancora una volta la scelta compiuta è quella giusta, e ne va reso merito, ma perché si traduca poi in atti concludenti ci vogliono ancora un paio di passaggi e proprio lo spirito e l’orgoglio di quegli uomini che hanno scritto la trama politico-culturale del miracolo economico italiano, la stessa fame di fare e cambiare le cose e la stessa, identica, voglia di affrontare e risolvere i problemi senza un approccio ideologico, puntando a unire non a dividere, seguendo le competenze che ci sono e attingendo al capitale inestimabile dell’esperienza in casa e fuori.


giovedì 3 marzo 2016

SENZA PARTITI (VERI) NON C’E’ POLITICA DEMOCRATICA (VERA)

Pubblicato su Affaritaliani il  23 febbraio 2016

Lo spettacolo che sta dando il mondo della politica italiana non è certo dei più esaltanti, anzi è di livello talmente deludente che spinge a riflessioni attente, per poter valutare oggettivamente e con responsabilità ogni circostanza. Infatti, sembra che regnino – sia nelle strutture partitiche sia negli organismi istituzionali legislativi e di governo – uno smarrimento generale e un’incontrollata frettosa premura di salvaguardare gli interessi di parte, probabilmente anche legittimi, ma certamente avulsi dalle reali esigenze del bene comune. 

Certo, come tutte le organizzazioni sociali, anche i partiti attraversano momenti di floridezza e momenti di fiacchezza, determinati o da infondate interpretazioni dei disagi della società o da inadeguatezza dei leader del momento oppure da comportamenti suggeriti più da tattica partitica che da strategia politica. Il malessere e il disagio aumentano, poi, allorquando i partiti giungono a occupare spazi pubblici non propri, fino a impadronirsi delle istituzioni e abusarne. Allora ne consegue la loro delegittimazione, smarrendo sempre di più il contatto vitale con i cittadini, i quali, non vedendone l’utilità, nutrono e accrescono i latenti sentimenti di antipolitica, fino al qualunquismo e all’assenteismo. S’impone, allora, l’urgenza di riannodare il legame società-politica-istituzioni, ricollocando ciascuno nell’alveo del proprio spazio, secondo le funzioni e i ruoli propri. Il problema non si risolve, però, riconoscendo e denunciando lo scollamento tra politica e base popolare. Devono, invece e in primo luogo, rinnovarsi i partiti, riconquistando la loro natura originaria, servendosi d’ogni mezzo nuovo messo a disposizione dall’evoluzione e dal progresso: cioè devono tornare ad essere aggiornati e validi strumenti di partecipazione dei cittadini e non costruzione di classi a loro ostili.


E i partiti politici, pur nella loro molteplicità talora eccessiva, sono insostituibili per una politica veramente democratica. Il popolo d’un Paese libero si munisce sempre di forme associative, mediante le quali vive e agisce nella vita politica da soggetto responsabile e attivo; così come è ovvio che ogni governo, che voglia essere democratico, esercita il potere nel rispetto morale e con l’ausilio delle rappresentanze sociali territoriali, prime fra tutte i partiti politici e le organizzazioni sindacali. Indubbiamente non mancano vie alternative per una partecipazione politica, ma i corpi territoriali intermedi, liberamente organizzati e abilmente diretti, garantiscono con maggiore efficacia molte opportunità, tra cui due veramente fondamentali: quella d’individuare decisioni concrete e pertinenti al bene comune e quella di preparare il ricambio della classe politica con soggetti validi e capaci. 


Questo è confermato dalla storia e sostenuto da studiosi esperti. Alla fine del primo conflitto mondiale, per esempio, il giurista James Bryce sostenne categoricamente: “Nessun grande paese libero è stato senza i partiti. Nessuno ha mostrato come un governo rappresentativo possa operare senza di essi. Essi creano l’ordine dal caos di una moltitudine di elettori”. E dopo le sciagure della seconda guerra mondiale, i nostri Padri Costituenti hanno stabilito concordemente: “L'Italia è una Repubblica democratica” (art, 1), per cui, dovendo “riconoscere e garantire i diritti inviolabili dell'uomo, sia come singolo, sia nelle formazioni sociali” (art. 2), hanno riconosciuto ai cittadini il “diritto di associarsi liberamente, senza autorizzazione, per fini che non sono vietati ai singoli dalla legge penale” (art. 18), concludendo con l’articolo 49, in cui hanno indicato i partiti politici come il luogo naturale dove i cittadini si riuniscono e si confrontano liberamente, “per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale”. 

E’ nei partiti, quindi, che i cittadini elaborano liberamente idee proprie, lontani dal rischio di rimanere ostacolati o addirittura fuorviati da pericolosi giochi politici. Non pare, quindi, sia stato un gesto di pura formalità il richiamo che il Presidente Mattarella ha rivolto al Parlamento nel suo discorso d’insediamento: “La strada maestra di un Paese unito è quella che indica la nostra Costituzione, quando sottolinea il ruolo delle formazioni sociali, corollario di una piena partecipazione alla vita pubblica”. E, manifestando preoccupata attenzione al mutamento dei tempi, annotava che “la crisi di rappresentanza ha reso deboli o inefficaci gli strumenti tradizionali della partecipazione”, divenuti ormai un forte ostacolo per il dispiegarsi delle energie del paese, per cui s’impone una riconsiderazione e una ristrutturazione delle rappresentane sociali e soprattutto dei partiti e delle forze sindacali.


E’ evidente che in Italia i partiti politici  attraversano ormai da qualche decennio una profonda crisi, mostrando sempre di più d’aver smarrito la ragion d’essere assegnata loro dalla Costituzione.  Da organizzazioni libere di cittadini liberi sono diventati associazioni d’interesse privato, sia elettorale sia economico e sia di potere; non operano più come laboratori di progetti d’interesse generale, ma come fucina di personalismi decisionisti; non vivono più come presidio di dialogo aperto tra cittadini benpensanti, ma come colonia di leader da ascoltare e ubbidire. Faticano a riconoscere e denunciare che la causa profonda della loro crisi è ancora più drammatica: è la loro intrinseca incapacità di darsi un ordinamento interno e un metodo di interconnessione reciproca, causata dalla sempre più massiccia personalizzazione del potere, incarnata nel leader del momento.


La personalizzazione dei partiti s’è rivelata ancor più incisiva, da quando il medesimo leader occupa la guida d’un partito (che ha compiti di progettazione e di programmazione) e nello stesso tempo presiede la massima istituzione del potere esecutivo (ovviamente controllandola). Con la legge 400 del 1988 l’Italia s’è dotata d’un Presidente del Consiglio dei Ministri con prerogative e competenze adeguate ai suoi poteri esecutivi; gradualmente, con successivi procedimenti di riforme sostanziali, la Presidenza del Consiglio è divenuto di fatto il fulcro operativo dell’attività dell’intero governo, sul piano sia organizzativo e sia legislativo. E’ utile ricordare, inoltre, che il rafforzamento dei poteri del Primo Ministro italiano ha coinciso con il progressivo spostamento di una vasta serie di funzioni normative dal Parlamento all’Esecutivo. E tutto ciò è avvenuto nei tempi della grave crisi dei partiti tradizionali, offrendo, così, ai Presidenti del Consiglio l’opportunità di servirsi d’ogni occasione per consolidare il partito d’appartenenza o di formarsene uno proprio. Ma il tempo scorre, e tutto o cambia o viene travolto: ogni assetto sociale, politico, istituzionale. La divisione dei poteri, la separazione tra governanti e governati, la diversità controllori e controllati non sono invenzioni astratte, ma insegnamenti concreti che la storia millenaria dell’umanità consegna ai nuovi tempi. Alla saggezza e all’onestà degli uomini farne buon uso.