Il Tempo, in sé fluire di momenti transeunti che vanno accolti, si apre a un "oltre" custode Eterno di valori trascendenti che vanno abitati. Vicende e realtà tendono alla suprema fusione nell'infinita Totalità, anima di ogni Speranza.

sabato 8 novembre 2014

L’EPISTOLARIO ABELARDO-ELOISA . MESSAGGI DI FILOSOFIA INTEGRALE

2014-1164. Ricorre l’850° anniversario della morte di Eloisa, la fanciulla diciassettenne, che s’innamorò, amandolo poi per tutta la vita, del suo maestro Abelardo, il filosofo trentasettenne già famoso per la novità del pensiero creativo, l’originalità del metodo d’indagine e l’efficacia della retorica. In una lettera Eloisa confesserà d’essere rimasta affascinata sin dall’inizio dalla cultura e dalla fama del maestro: “Tutti si precipitavano a vederti, quando apparivi in pubblico (…). Avevi due cose in particolare, che ti rendevano subito caro: la grazia della tua poesia e il fascino delle tue canzoni, talenti davvero rari per un filosofo quale tu sei”. Amore, quindi, fondato sulla stima, sbocciato tra i libri e la filosofia, consolidato dagli ostacoli superati: “La mia anima – gli confiderà – non era con me, ma con te”. Nell’Epistolario di Abelardo è conservata memoria di questa vicenda amorosa tra le più belle e tragiche che la storia ricordi; forse per questo rimane un libro che ha occupato e occupa la scena culturale sin dalla seconda metà del 1200. Ha già ispirato, infatti, celebri poeti, come Hofmann von Hofmannwaldau (con Heldenbriefe del 1673), Alexander Pope (con Eloise to Abelard del 1717) J.J. Rousseau (con Joulie ou la nouvelle Héloïse del 1761). E ancora oggi è molto letto dagli studiosi impegnati a discuterne l’autenticità, ma spesso anche mossi dal desiderio di comprendere l’esperienza più intima di vita di due personalità, unite da legame indissolubile, nonostante traversie, allontanamenti imposti dall’ambiente sociale e la separazione definitiva accettata a forza.

Non si può nascondere, in verità, un senso di fastidio per la letteratura di questo genere; l’Epistolario di Abelardo, però, pur avendo come oggetto l’amore, contengono anche importanti riferimenti storico-culturali e utili indicazioni per la ricerca filosofica e teologica. Abelardo, infatti, nelle sue prese di posizione mostra una singolare arditezza, avvalendosi, oltre che della logica razionale, anche dell’apporto di sentimenti umani pre-razionali e a-razionali, per i quali veniva osservato con sospetto, ma di cui c’era e c’è sempre bisogno per una filosofia, che voglia essere completa, capace di preparare l’uomo a morire dignitosamente, ma soprattutto d’aiutarlo a vivere in pienezza e felicità. La filosofia è “amore della sapienza” e nello stesso tempo – sulle orme di Platone e sant’Agostino – “sapienza dell’amore”, per cui si pone come il tessuto compatto realizzato con l’intreccio dei fili della trama della razionale con l’ordito dei fili delle altre capacità dell’essere umano. Così essa diventa fonte di risposte alle domande umane ed energia alimentatrice del vivere umano autentico e libero. Interessanti a questo riguardo risultano i contributi dati, in confronto costruttivo col pensiero di Paul-Michel Foucault, dal filosofo Remo Bodei, il quale sostiene: “Malgrado i ripetuti annunci, è certo che la filosofia, al pari dell’arte, non è affatto ‘morta’. Essa rivive anzi a ogni stagione, perché corrisponde a bisogni di senso, che vengono continuamente – e spesso inconsapevolmente – riformulati. A tali domande, mute o esplicite, la filosofia cerca risposte, misurando ed esplorando la deriva, la conformazione e le faglie di quei continenti simbolici, su cui poggia il nostro comune pensare e agire”.

Potrebbe essere azzardato sostenere che Abelardo – uno dei massimi maestri del suo tempo, il più seguito dagli intellettuali a lui contemporanei - abbia colto le sue intuizioni in filosofia e abbia formulato le sue tesi in teologia grazie allo stato amoroso con Eloisa; è certo, tuttavia, che senza quell’esperienza non avrebbe sostenuto così audacemente le sue dottrine, tanto ardite per quei secoli medievali d’attirarsi invidie, ricatti, persecuzioni e persino attentati alla vita. Del resto è lo stesso Abelardo che confessa che, senza il fascino dell’amore, “il maestro di filosofia si appiattisce in uno sterile ripetitore”; e di se stesso non ha difficoltà a rivelare: “Nelle lezioni diventai freddo e meccanico: tutto mi usciva di bocca per abitudine. Non ero ormai che il ripetitore delle dottrine che avevo creato; se qualcosa mi veniva fatto di creare, questo non era dottrina, era canto d’amore”. Come la “luce” della fede religiosa, quindi, rafforza la capacità conoscitiva umana, rivelandole verità diversamente ignote, così la “luce” dell’amore irrobustisce l’intero essere umano, svelandogli realtà altrimenti non sperimentabili.

Nel pensiero di Abelardo emergono almeno due posizioni allora innovative e oggi di grande attualità: il valore degli “universali” (o idee) e l’etica dell’intenzione. Nel 1200 lo studio della filosofia era inchiodato all’autoritarismo dell'aristotelismo, e la ricerca in teologia era bloccata dall’interpretazione dell’autorità ecclesiastica; persino la scienza doveva fare i conti con l’astratta metafisica: erano davvero molto lontani i Machiavelli, i Keplero, i Galilei, i Cartesio. Dominava assoluto il teocentrismo, usato per controllare le menti e per soggiogare i popoli. Abelardo, però, svincolò il valore dell’idea dall’astrattezza del nominalismo (attirandosi l’ira del filosofo francese Roscellino, suo antico maestro, dal quale fu accusato d’eresia) e la liberò, d’altra parte, anche dalle angustie del piatto realismo (propugnato da sant’Anselmo e da Guglielmo di Champeaux). Abelardo, così, precorre di circa sei secoli Immanuel Kant, rivendicando la “funzione regolativa” d’ogni idea, in quanto essa costituisce l’ideale, che deve avere sempre un fondamento nella realtà e deve tendere a creare altre possibili realtà future, oggetto di speranza sostenuta da forte fede razionale.

Veramente temeraria è, poi, la proposta della morale dell’intenzione, fondata su un robusto antropocentrismo. L’uomo – argomenta Abelardo - è dotato di ragione; questa, però, pur essendo una facoltà straordinaria, che distingue e nobilita la natura umana, resta tuttavia una facoltà limitata, imperfetta e fallibile, proprio perché umana. E’ necessario, di conseguenza, che essa muova sempre dal dubbio, unico fondamento solido, per costruire una ricerca valida e veritiera. Il “credere”, in ogni ambito, dev’essere un atto di comprensione e un gesto di vitalità umana: si deve capire ciò che si crede e perché lo si crede. “E’ ponendo domande che impariamo la verità”, afferma apertamente Abelardo, precisando che non si crede a una cosa perché Dio l’ha detta, ma si ammette ch’egli l’abbia detta, perché razionalmente la cosa è vera. Affermazioni pericolose; ma Abelardo continuò a insegnare senza remore che “Dio tiene conto non delle cose che si fanno, ma dell’animo con cui si fanno; e il merito e il valore di chi agisce non consistono nell’azione, ma nell’intenzione”. E preciserà ancora: “Gli uomini giudicano di quel che appare, non tanto di quello che è nascosto (…). Solamente Dio, che guarda allo spirito con cui si fanno le cose, valuta secondo verità la consapevolezza della nostra intenzione”.

La statura culturale di Abelardo va compresa certamente mediante la profondità del suo pensiero e il coraggio mostrato nella vita “esteriore”, ma anche attraverso l’esperienza della sua “vita intima”: in filosofia non sono mai scindibili le due cose. Abelardo è stato interpretato come il filosofo spregiudicato e intemperante; così come Eloisa è stata additata come esempio d’amore libero e moralmente deplorevole. Esaminando, però, senza pregiudizio alcuni comportamenti dei due, si rivela diversa la realtà. E’ vero che Eloisa, infatti, dopo la nascita del figlio Astrolabio, si oppose al matrimonio, ma solo perché sarebbe stato “infamante” e “oneroso sotto ogni aspetto” per il marito: “Quante lacrime verserebbero – scrisse - coloro che amano la filosofia a causa del matrimonio”. Ma quando capì la decisione di Abelardo, concluse con angoscia: “Resta una sola cosa; la certezza che non soffriremo meno di quanto ci siamo amati”. E dopo il matrimonio e l’evirazione di Abelardo, quando si decise di prendere entrambi la vita monastica, Abelardo si chiuse nel silenzio del tormento, per non accrescere la sofferenza d’Eloisa. Lui entrò nel monastero a Saint-Gildas de Rhuys, e mandò lei nel monastero di Argenteuil. Le strade si separano e i due non si rivedranno mai più.

Successivamente, quando per caso ebbe tra le mani una lettera di Eloisa, in cui ella confidava la sofferenza per l’amore ancora vivo, Abelardo ne rimase molto turbato: aveva sperato che il tempo avrebbe almeno attenuato tormenti della sua donna. Repressa, allora, la sua angoscia, le si rivolse con fare volutamente freddo e distaccato, ricordandole i nuovi doveri di badessa. Lei gli ricordò alquanto risentita il fervore del passato; Abelardo, sempre con fare distaccato, le scrisse: “Io adesso sono circondato anche nell’anima”; Eloisa, allora, gli pose la straziante domanda finale: “Perché la sublimazione si dovrebbe raggiungere soltanto annichilendo i sensi e il sentimento d’amore che si prova verso un’altra persona?”. Abelardo, allora, chiuso in un silenzio degno d’un martire, non risponderà mai esplicitamente; poco prima di morire, però, l’ammonì: “Ricordati che io ti appartengo”. Abelardo muore nel 1142, Eloisa nel 1164. Sepolti in uno stesso loculo, secondo la volontà di Eloisa, i loro resti giacciono in una cappella nel cimitero del Pére Lachaise a Parigi. Ai piedi della tomba c’è la scultura raffigurante un cane, simbolo di fedeltà.

domenica 12 ottobre 2014

FERMARE LA GUERRA

Pubblicato da "Affari Italiani" Domenica, 14 settembre 2014 - 11:34:00

Il Papa: “Fermare la guerra”. L'analisi del filosofo Scarcella

Il Papa: la guerra distrugge, è follia. E il filosofo Cosimo Scarcella sceglie Affaritaliani.it per commentare le parole del pontefice: "La novità terrificante dell’ultimo intervento è stata la sua aperta e chiara accusa che la guerra è scelta e decisa dalla libera volontà di alcuni uomini. Le guerre sono possibili – ha detto – “perché oggi dietro le quinte ci sono interessi, piani geopolitici, avidità di denaro e di potere". La storia del passato e le esperienze del presente documentano, infatti, che le guerre sono generate o dal fondamentalismo religioso o dalla brama di potere economico e politico, ma..."

La pace sembra essere la chimera degli ottimisti utopici; la guerra la realtà tragica, ma necessaria e inevitabile. “Fermare la guerra” aveva già gridato il papa qualche giorno fa; e, con lo sguardo rivolto sulle tombe dei caduti in guerra, ha ripetuto: “Dopo il secondo fallimento di un’altra guerra mondiale si si può parlare di una terza guerra combattuta ‘a pezzi’, con crimini, massacri, distruzioni”. La novità terrificante dell’ultimo intervento è stata la sua aperta e Chiara accusa che la guerra è scelta e decisa dalla libera volontà di alcuni uomini: le guerre sono possibili – ha detto – “perché oggi dietro le quinte ci sono interessi, piani geopolitici, avidità di denaro e di potere, c’è l’industria delle armi, che sembra essere tanto importante!”. La storia del passato e le esperienze del presente documentano, infatti, che le guerre sono generate o dal fondamentalismo religioso o dalla brama di potere economico e politico. Negli ultimi tempi in campo religioso abbiamo assistito a numerose concrete iniziative di dialogo e di riavvicinamento. Non si può dire la medesima cosa nel campo politico, in cui indubbiamente anche i “grandi” si riuniscono, ma per trovare equilibri di dominio e di ricchezza, Il loro dialogo si fonda sul compromesso politico e sul ricatto economico; unico argomento da discutere è sempre quale profitto si possa trarre dal diniego o dall’accettazione di una proposta. Ed è terrificante leggere che si è giunti persino alla conclusione (condivisa) di promuovere delle guerre per spegnerne delle altre e addirittura dell’opportunità di “inviare armi per vendicare stragi”. Non a caso lo stesso pontefice alcuni giorni prima aveva dovuto sottolineare: “Ho detto ‘fermare’ e non ‘bombardare’ la guerra!”. Sono gli uomini a decidere la guerra e la pace: quindi possono scegliere di perseverare o cambiare rotta.

Molto significativo è stato l’aver puntato il dito sulla “industria delle armi, che sembra essere tanto importante!”. Affermazione questa, che ci rimanda a circa settanta anni fa, quando Pio XII, sfidando la “follia” del nazismo e del fascismo, leggeva e trasmetteva i radiomessaggi natalizi degli anni 1940-1942, che rappresentarono – secondo il giudizio dell’ambasciatore tedesco di allora, Von Weizsäcker, "un manuale completo per il ritorno alla ragione internazionale". Rivolgendosi direttamente ai responsabili della guerra, il pontefice, elenca i principi su cui doveva nascere dalle macerie della guerra il nuovo ordine: vincere l’odio serpeggiante tra i popoli, ridare dignità al diritto internazionale, eliminare la priorità dell’utilitarismo, controllando le divergenze in economia mondiale, eliminare lo squilibrio tra un esagerato armamento degli Stati potenti e il deficiente armamento dei deboli, scendere a un ampio e proporzionato limite nella fabbricazione e nel possesso di armi offensive; nel messaggio del 1942, infine, il papa si spinse oltre, concentrandosi soprattutto sui principi sociali e morali che dovevano essere "il sostrato e il fondamento di norme e leggi immutabili per costruzioni sociali di interna solida consistenza".

Quei messaggi allora non furono accolti benevolmente da parte di tutti. Il sacerdote modernista Ernesto Bonaiuti, per esempio, notò che il Natale, occasione propizia per riflettere sui lutti dell’umanità, serviva al papa per “ammannire dalla radio vaticana una lezione di diritto internazionale”; il cattolico fascista Giovanni Papini giunse a scrivere: “Il papa somiglia a uno che dinanzi a una metropoli in fiamme faccia saggi discorsi, per dimostrare che ai bambini non vanno affidate le scatole di fiammiferi". Ed è risaputo il sarcasmo di Benito Mussolini: “Il Vicario di Dio – disse - non dovrebbe mai parlare: dovrebbe restare tra le nuvole".

Oggi tutti si augurano che I responsabili del governo dei popoli e delle nazioni diano ascolto al dolore del papa, che avverte: “E’ proprio dei saggi riconoscere gli errori, provarne dolore, pentirsi, chiedere perdono e piangere”. Sperano che a questo Papa, che si appresta a parlare nell’aula dell’Unione Europea, non accada ciò che accadde con papa Giovanni XXIII, che nella crisi di Cuba, grazie anche a queste precedenti posizioni della chiesa cattolica, poté rivolgersi alle due massime potenze, che minacciavano di far precipitare il mondo nel baratro di un conflitto nucleare: “Noi supplichiamo – disse - tutti i governanti a non restare sordi a questo grido dell'umanità. Che facciano tutto quello che è in loro potere per salvare la pace”. Fu ascoltato. Ma fa riflettere ciò che il russo Anatoly Krasikov riferisce nella biografia di Giovanni XXIII: "Resta curioso il fatto che negli Stati cattolici non si riesca a trovare traccia di una reazione ufficiale positiva, all'appello papale alla pace, mentre l'ateo Kruscev non ebbe il più piccolo momento di esitazione per ringraziare il papa e per sottolineare il suo ruolo primario per la risoluzione di questa crisi che aveva portato il mondo sull'orlo dell’abisso".

martedì 16 settembre 2014

L'uomo e il cielo stellato


Pubblicato da Affari Italiani (affaritaliani.it) mercoledì, 30 luglio 2014 - 15:10:00

Il filosofo Scarcella alza lo sguardo dai "deliri del mondo" e regala ad Affari le sue riflessioni

Disastri aerei, complotti che minacciano gli equilibri mondiali. In Libia l'esplosione di un razzo ha devastato la capitale e il conflitto di Gaza fa sentire in tutto il mondo l'odore del sangue. Anche seguendo le piccole, ma per noi tanto grandi, vicende italiane si ha la sensazione che il mondo non dia tregua. Non lasci più tempo per riflettere, osservare, magari sperare. C'è invece chi, proprio partendo dallo sguardo disincantato di quello che accade, si ferma un momento e contemplando il cielo, da sempre musa di idee e scoperte per l'animo umano, si lascia andare alla riflessione più libera e pura, profonda e a tratti poetica. Si tratta di un filosofo, Cosimo Scarcella (http://cosimoscarcella.blogspot.it/), esperto di Condorcet e studioso di dottrine politiche e filosofiche applicate alle concrete situazioni storiche, che "regala" ai lettori di Affaritaliani.it due pagine che riportano l'attenzione sul pensiero, quell'attività oggi quasi dimenticata.


Il mese d'agosto è ormai alle porte e gli occhi degli uomini si voltano più spesso a guardare in alto verso il cielo, per intercettare (per ricerche scientifiche o per curiosità o anche solo per superstizione) l'improvviso luccichio di qualche "stella cadente". Nelle notti, soprattutto in alcuni momenti, sembra davvero di assistere a una pioggia di stelle: da alcuni interpretata come malinconico pianto di partecipazione alle cupe calamità terrestri, da altri vissuta come presagio di luce e di fiducia. "C'è chi si fissa a vedere solo il buio. Io - confida Victor Hugo - preferisco contemplare le stelle". La contemplazione del cielo - in qualunque stagione dell'anno, di giorno o di notte, terso o nuvoloso, sereno o tempestoso - invita alla riflessione, genera commozione, nutre speranza. La riflessione è esigenza della razionalità, la commozione è frutto dell'umana sensibilità, la speranza è figlia della verità. La verità che rende liberi: non la verità voluta e difesa come unica e assoluta, ma quella consentita alle umane capacità. La smisurata volta celeste, però, è icona anche di verità che l'uomo vorrebbe raggiungere, ma invano. "L'ultimo passo della ragione - ammonisce prudentemente Pascal - è il riconoscere che ci sono un'infinità di cose che la sorpassano"; e il grande matematico suggerisce: "I movimenti degli astri sono un canto ininterrotto per molte voci, percepito non dall'orecchio, ma dalla mente; una melodia figurata, che traccia dei punti di riferimento nell'incommensurabile fluire del tempo".

Punti di riferimento L'uomo guarda e interroga il cielo: non sa chi lo abbia messo al mondo, né che cosa sia il mondo, né che cosa sia lui stesso. Si sente invaso da un'ignoranza spaventosa. Vede quegl'infiniti spazi celesti e si smarrisce: si sente rinchiuso in un piccolissimo angolo, e non sa nè perché né per quanto tempo vi rimarrà nell'eternità che l'ha preceduto e che lo seguirà. L'uomo! Essere germinato dalla Terra o disceso dal Cielo? Inerte frammento d'una zolla di terra governata dall'assurdo gioco di movimenti atomici, oppure splendido ritaglio di luce inviato dalle stelle e destinato ad essere riassorbita nello splendore dell'energia dell'eterna vita cosmica?

Rilegge nel Testo Sacro la promessa di Javè ad Abramo: i suoi discendenti sarebbero stati numerosi come le stelle. Il cielo stellato, allora, non resta al di sopra dell'uomo, ma gli sta a fianco; non è indifferente alle vicende degli uomini, ma ne partecipa, vivendo insieme a loro. L'uomo e il cielo stellato non sono coinquilini estranei in un cosmo ignoto, e nemmeno reciproci accompagnatori ipocritamente disponibili. Sono fatti l'uno per l'altro. Uomini e stelle sono in tensione reciproca: uomini che si rivolgono e dialogano con le stelle, e stelle che sorridono e rispondono agli uomini, con un silenzio profondo che sa di sacro. Sempre il medesimo cielo guardato perennemente dai medesimi figli dell'uomo, i quali pudicamente gli confidano dubbi e ansie, gioie e dolori, progetti e delusioni, sperando senza stanchezza un qualche svelamento d'arcani misteri. Nasce, allora, e cresce a poco a poco, un intimo puro totale amplesso dell'uomo con il cielo: amplesso che sublima, emoziona, commuove, penetra, permea le profondità dell'animo. Attimi eterni, come quelli vissuti dal Leopardi, quando confida: "E quando miro in cielo arder le stelle, dico fra me pensando: a che tante facelle? Che fa l'aria infinita? E quel profondo infinito sereno? Che vuol dir questa solitudine immensa? Ed io che sono?".

All'uomo superficiale, che è certo di tutto e a tutto ha pronta la risposta, Montale, straordinario interprete dei recessi dell'animo umano, svela: "Forse un mattino … vedrò compirsi il miracolo … Ma sarà troppo tardi: ed io me ne andrò zitto, tra gli uomini che non si voltano, col mio segreto". Rispettiamo il segreto del poeta, ma per l'uomo responsabile e pensoso non è difficile indovinare alcune gravi e serie domande. Si vorrebbe comprendere le reali motivazioni e le vere aspirazioni di tante scelte libere o condizionate; si vorrebbe afferrare il senso di tante vicende personali. Se la vita degl'individui, dell'umanità, del cosmo - si dicono uomo e cielo - non è frutto del caso, ma risultato di una qualche Ragione ordinatrice, perché l'ordine che si manifesta nelle leggi fisiche non è presente pure nella vita dell'Uomo e dell'Umanità, dominata dalla paura e dalla violenza? Perché dilagano disordine morale e sociale, confusione individuale e ingiustizia generale? Perché dominano egoismi e disonestà, perché divampano guerre e si commettono massacri? Di fronte a fatti veramente incredibili, l'uomo, anche lontano da sensibilità religiosa e vicino a convinto agnosticismo, talora invoca e addirittura, quasi per un impulso innato, attende un qualche intervento del cielo; anzi giunge a meravigliarsi del non intervento del cielo. Certo potrebbe essere impudente presunzione dell'uomo credersi centro del cosmo, intorno al quale dovrebbe ruotare tutto; ma è "umano" attendere un qualcosa di straordinario, quasi un miracolo. Basti pensare che lo stesso Kant, noto per il suo rigorismo razionale, ritiene che non si può escludere un evento straordinario; sicuramente è un atteggiamento "unphilosophisch" (antifilosofico), ma tuttavia dettato da profondo "sentimento umano". Certo - avverte il filosofo tedesco - non bisogna contare su quest'interventi sovrumani; è sempre preferibile attenersi all'ordine razionale, che impone di vivere senza mai sacrificare "la diligenza e l'onestà" alla speranza d'un aiuto superiore: cioè, si deve vivere secondo la legge della nostra coscienza, sede vivente del "divino" che è nell'uomo. Nel contemplare la volta celeste, allora, l'animo dell'uomo si allarga fino ad abbracciare gli estremi confini dell'universo e si concede, con meravigliosa donazione illimitata, all'armonia vivente del Cosmo. Anche il cielo, allora, corrisponde e abbraccia la terra e i suoi abitatori. Sembra che esso di giorno voglia nascondere e salvaguardare il suo prezioso manto stellato, per poi svelarlo e offrirlo la notte agli occhi e all'animo dell'uomo, che lo aspetta con gioiosa fedeltà, per potergli confidare i segreti sigillati nell'inaccessibile scrigno del proprio animo. E tutto ciò in estrema misteriosa fusione, in totale sovrumano silenzio: perché "il piacere di amare senza osare dirlo - annota Pascal - ha i suoi tormenti, ma anche le sue dolcezze".

Queste riflessioni potrebbero apparire solitarie meditazioni poetiche: belle, ma poco utili per la comprensione e la soluzione dei problemi reali degli uomini, che debbono guardare attentamente per terra, per non cadere in qualche pericoloso fosso come accadde a Talete. Oggi molta scienza pretende di conoscere ogni cosa attraverso le sempre aggiornate acquisizioni scientifiche e il vertiginoso progresso tecnologico; molte teologie formulano questioni anche importanti, deducendone, però, conclusioni indiscutibili; molta "classe politica" si vanta di trovare "regole" sempre nuove, confondendo spesso novità per validità vera e a dimensione d'uomo; molti reggitori di popoli e di nazioni sfoggiano forza militare e ostentano potere economico, per perseguire giustizia e pace. Uno sguardo alla storia, però, farebbe dubitare molto e inviterebbe alla prudenza. Giovanni Keplero giunse alla scoperta delle leggi dell'astronomia fisica, contemplando la "Armonia del Mondo"; in quel periodo la teologia del latitudinarismo irenico sanò molte piaghe causate dalle trentennali guerre di religione; Marco Aurelio consolidò e pose ordine all'impero romano, mettendo in pratica gl'insegnamenti della filosofia stoica; più vicino a noi, il Mahatma Gandhi conquistò l'indipendenza della sua nazione e ottenne numerosi diritti civili e politici, conducendo una vita semplice e umile, convinto che "non aveva nulla di nuovo da insegnare al mondo, in quanto la verità e la nonviolenza sono antiche come le montagne". Figure eloquenti, per smitizzare la pretesa di alcuni di poter indirizzare secondo le proprie opinioni la natura, la realtà e persino tutta la storia degli uomini. Guardando il cielo è facile osservare come ciascuna stella è solo una minuscola parte, sempre identica a se stessa e diversa da tutte le altre; la Totalità armonica delle loro infinite diverse individualità crea e garantisce ordine e felicità.

mercoledì 5 marzo 2014

DEMOCRAZIA, PARTITI POLITICI, SOVRANITA’ POPOLARE

Il quadro ideologico e il panorama della situazione politica italiana non sono certo rassicuranti; lo scenario presentato dalle condizioni sociali ed economiche dei cittadini è davvero preoccupante. Le offerte formative e le pianificazioni operative della maggior parte degli attori politici appaiono piuttosto deboli e inadeguate, attente per lo più a questioni settoriali e di breve respiro, pur nella loro indiscutibile intrinseca importanza; anche la vita interna dei partiti politici non invia messaggi confortanti di responsabilità collettiva né fornisce esempi di atteggiamenti costruttivi; la libertà dei cittadini risulta sostanzialmente limitata, povera, talora perfino negata nella vita reale. Vacillano fondamenti importanti della vita privata e pubblica, anche se ben consolidati dalla tradizione. Il ritmo delle richieste di trasformazioni è divenuto così frenetico e caotico da impossessarsi dell’animo dei cittadini, i quali, di conseguenza, discutono acriticamente e frettolosamente tutto, senza prendersi il tempo giusto per riflettere, valutare e scegliere. In tale situazione caotica, perciò, mancano le condizioni necessarie per una chiara visione complessiva dei problemi, idonea a trovarne soluzioni assennate e utili. In simili momenti difficili vengono meno il controllo delle volontà (con cui solamente si preserva il senso della concretezza() e il dominio sugli istinti dell’egoismo e del rancore (con cui solamente si salvaguarda la lucidità della razionalità). In questi ultimi anni, invece, le menti dei cittadini sono offuscate e le loro coscienze sono smarrite, poiché assistono, al posto del dialogo civile e del confronto politico, a scontri passionali e a lotte funeste: come, la dissennata denigrazione delle autorità statuali, i furiosi tentativi di delegittimazione degli istituti governativi, l’assalto impulsivo al potere legislativo del Parlamento, denunciato di dilettantismo e da qualche parte minacciato apertamente di inevitabile estinzione per la presunta sua inconcludente inefficienza.

Per un futuro auspicabile per il nostro Paese s’impone la necessità d’una pausa di riflessione pacata e positiva, al fine di restaurare l’unità degli spiriti e ripristinare le difese naturali della rettitudine morale, della libertà sociale e dell’etica politica. Qualità, queste, garantite soltanto dalla libertà di pensiero e dall’autonomia di giudizio morale critico. Quando, infatti, lo spirito partitico arriva a prevalere su questi punti, emerge allora cupo e minaccioso il fanatismo dei singoli e dei gruppi, con tutte le sue nefaste conseguenze. La crescita della vita delle società e degli Stati è, ovviamente, il risultato anche del progresso sociale e dell’avanzamento culturale dei popoli, i quali non vanno guidati faziosamente e, peggio, violentemente fomentati, ma tempestivamente educati e saggiamente formati, affinchè diventino un insieme di cittadini operosi, corresponsabili e coerenti, cioè un ‘popolo’. Questo compito formativo è affidato a tutte le agenzie formative: dalla famiglia alla scuola, dall’associazionismo laico e religioso ai partiti politici, dagli Enti Locali a tutte le Autorità governative e statuali.

Nel perseguimento di quest’opera di formazione sociale e politica del popolo è sempre sottesa una concezione generale di uomo, di società e di stato. Ora, da tempo ormai non si possono più invocare strutture sociali e ordinamenti statuali ispirati esclusivamente alle dottrine d’un collettivismo acritico, astratto e per certi aspetti irrealizzabile: ne deriverebbero inevitabilmente l’assolutizzazione della società e dello Stato, l’immolazione della concretezza delle individualità singole e degli organismi sociali intermedi, premessa rischiosa di svolgimenti pubblici ambigui e d’imprevedibili esiti totalitari. Ma non sono ugualmente i tempi delle altrettanto teoriche rivendicazioni delle dottrine liberali e dell’ottimistico dominio dell’economia liberista: l’entusiastica idolatria del mito del libero mercato, profeta invocato di benessere individuale e collettivo, ha già generato gravi situazioni d’ingiustizia sociale disumana e d’intollerante assoggettamento culturale.

Il cittadino delle democrazie contemporanee, di fatto, non è né il ‘socialista’ devotamente sottomesso, né il ‘liberale’ osservante senza riserve, e nemmeno il testimone d’una presunta ‘democrazia popolare’. L’odierno cittadino democratico, in realtà, è un individuo indifferente al valore delle virtù umane, sordo al richiamo degli ideali etici, insensibile alle istanze dei doveri sociali e politici. L’uomo democratico, con cui bisogna fare i conti oggi, in concreto, è sorretto e motivato unicamente dalla categoria del tornaconto privato, da raggiungere esclusivamente mediante l’astuto calcolo dell’interesse personale, prevedibile con certezza nello scambio da proporre o da valutare o da accettare. Del resto, già Alexis de Tocqueville aveva tratteggiato i connotati di questo moderno cittadino: insofferente d’ogni regola e disciplina; convinto sostenitore della spontaneità della natura e soprattutto dell’umanità; ottimistico profeta dell’autosoluzione d’ogni congiuntura; paladino eroico della singolarità d’ogni uomo, ritenuta unica titolare d’ogni diritto senza alcun corrispettivo dovere. E’ necessario, pertanto, indagare la possibilità d’una concezione, che conduca a una democrazia autentica e umana, che superi, cioè, da una parte l’idolatria dello stato e, dall’altra parte, il calcolo combinato di interessi privatistici. Si tratta di ricercare una cultura, che concili in armonia le diversità, evitando le opposte pericolose soluzioni dell’omologazione e dell’esclusione, in un contesto di condivisa solidarietà.

Il ‘popolo’ italiano, tutto considerato, potrebbe essere già ben incamminato per questa strada, grazie alla visione dell’uomo, su cui è fondata la Costituzione Repubblicana, nella quale il cittadino è valutato come persona integrale in sé e solidale con gli altri. Siccome in questi ultimi decenni essa è stata dimenticata, talora anche svilita, spesso chiamata in causa solo reclamarne la revisione e addirittura la riscrittura, forse sarebbe utile approfondirne almeno alcuni valori e principi sottesi, tenendo nella giusta considerazione che essi sono il risultato della collaborazione delle tre grandi anime culturali, che hanno contribuito alla ricostruzione fisica e morale dell’Italia dopo la guerra: l’anima socialista, quella liberale e quella cattolica. Si tratta di alcuni articoli, in cui si statuiscono in primo luogo la centralità della persona umana nell’organizzazione dello Stato in tutte le sue attività e, in secondo luogo, un sistema di partecipazione sociale ed economica ispirato a solidarietà nazionale e internazionale.

Per quest’ultimo aspetto, basta rileggere e ripensare i vari ambiti, in cui sono chiamati i cittadini a operare come singoli e come popolo. In primo luogo, il lavoro, fondamento della Repubblica Democratica Italiana, considerato sì come rapporto economico, ma rivendicato anche e soprattutto come valore umano e sociale; quindi, non come criterio di appartenenza a una delle classi sociali, ma come diritto di realizzare la propria vita personale (artt. 1 e 4) e di ottemperare, come cittadini, ai “doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale” nell’ambito della nazione (art. 2) e nel contesto internazionale (art. 10). La solidarietà viene estesa, poi, a orizzonti sempre più vasti, fino a farli coincidere con i confini del mondo: l’Italia, “in condizioni di parità con gli altri Stati, consente alle limitazioni di sovranità necessarie” per realizzare “la pace e la giustizia fra le Nazioni” (art. 11). D’importanza non meno rilevante è, ancora, il riferimento al principio di solidarietà, richiesto proprio dalla dignità dell’uomo, a proposito della tutela della salute, dichiarata “diritto fondamentale dell’individuo e interesse della collettività” (art. 32) e, infine, nella dichiarazione del diritto di una “scuola aperta a tutti” (art. 34).

Il rispetto della persona umana, a sua volta, dev’essere esteso a tutti i cittadini, in quanto “hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali” (art. 3). Essi, inoltre, come unitario popolo italiano, sono gli unici titolari della sovranità nazionale. E’ importante, allora, ripensare – specialmente in questi ultimi tempi - le motivazioni e le finalità inerenti agli articoli 49 e 67, in cui è sancita con chiarezza la forma di democrazia, che i Padri Costituenti hanno progettato: in Italia la democrazia non poteva essere né doveva divenire oligarchia, ma rimanere sempre e comunque “governo del popolo”, che andava posto nelle condizioni concrete di esercitare la propria sovranità in modo continuativo e in ogni occasione, e non soltanto il giorno del voto; si stabilì, allora, la norma del voto libero, uguale, personale e segreto, grazie al quale ogni cittadino, in possesso dei diritti richiesti, in condizione di libertà e di uguaglianza, può (e deve) eleggere il suo rappresentante, che legifererà per delega in ogni situazione particolare, ma sempre nella prospettiva dell’interesse dell’intera Nazione. In concreto i Costituenti immaginarono e stabilirono la libera formazione e la responsabile operosità dei partiti politici. Il combinato disposto degli articoli 49 e 67, pertanto, potrebbe costituire la chiave di lettura di tutto il tessuto strutturale della democrazia italiana: “Tutti i cittadini – è scritto nell’articolo 49 - hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale”; ovviamente mediante il proprio eletto, il quale, sancisce l’articolo 67, “rappresenta la Nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato”, essendo il suo mandato di natura esclusivamente politica.

Il partito politico, quindi, nelle intenzioni dei Costituenti, è la struttura politica realizzabile in ogni luogo dell’intero territorio nazionale, in cui i cittadini partecipano e discutono idee, proposte, iniziative, per formulare progetti di scelte politiche. Da ciò scaturiscono gli elementi costitutivi del partito politico, cioè: libertà di associazione, pluralità di associazione, adozione del metodo democratico nella vita organizzativa interna d’ogni partito e nei rapporti tra di loro e nei confronti con tutti i cittadini, libero contributo di ciascun partito per determinare la politica nazionale. La ragion d’essere dei partiti è la formazione della coscienza politica dei cittadini, che dovranno scegliere tra i più meritevoli i propri “rappresentanti”. In concreto tutto ciò è affidato alle disposizioni delle leggi ordinarie e particolarmente a quelle che disciplinano le competizioni elettorali. Se questo modello costituzionale fosse attuato, si creerebbero situazioni, in cui i dibattiti di idee e le proposte d’iniziative operative fra tutti i cittadini porterebbero sicuramente al “libero concorso” di tutti nella formazione delle scelte politiche nelle diverse istituzioni della Repubblica nell’ossequio dei tre poteri “sovrani”: legislativo, esecutivo, giudiziario. Nella realtà odierna ciò non succede. Ed è facile comprendere che, se i partiti non vivono nell’alveo delle regole democratiche, ma si trasformano in comitati d’interessi particolari, se non addirittura personali, allora, tradendo la Carta Costituzionale, diventano organizzazioni oligarchiche, guidate (e talora dominate) da gruppi dirigenti preoccupati di conservare la propria posizione egemonica. Sarà inevitabile, allora, che siano i dirigenti di partito a controllare l’accesso di nuovi ‘tesserati’, ovviamente non sempre veramente degni e capaci Ma questo è la negazione della democrazia popolare, perché si spezza l’anello che lega la sovranità popolare alla democrazia dei partiti e questa alla democrazia delle istituzioni pubbliche. E’ il trionfo della partitocrazia, corruzione pessima della democrazia. La situazione della democrazia italiana oggi è sotto gli occhi di tutti. Aldo Moro nel 69, nel pieno di un grave sconvolgimento del sistema politico, avvertiva: “Questa crisi va fronteggiata, rendendo acuta la sensibilità dei partiti, aperta la loro azione, ricco di riflessione e di adesione il loro modo di essere nella realtà sociale. Non si tratta, dunque, di annullare i partiti, ma di renderli consapevoli del limite che scaturisce da una più grande ricchezza e vivezza della vita sociale. Riconosciuto, però, il limite, nel quale del resto è implicita una straordinaria occasione di arricchimento e di umanizzazione, dev'essere fermamente riconfermata la ragion d'essere dei partiti, il loro naturale pluralismo, la dialettica democratica della quale essi sono parte, la loro distinzione, la loro polemica, il loro convergere come il loro contrastare".

Non è compito della filosofia prevedere se e quando si possano superare e vincere errori e distorsioni. La filosofia può solo additarli e indicare la via meno incerta della verità politica. Ma tutto presuppone una trasformazione culturale radicale e un audace ritorno alle fonti vere dello spirito anche della Carta Costituzionale. Il compito tocca tutti indistintamente, come uomini e come cittadini: nessuno può sottrarsi alle proprie responsabilità, che richiedono coraggio, azione e lotta, ripudio d’ogni forma di neutralità e accettazione di una parte da sostenere.

venerdì 21 febbraio 2014

FARE ASSOCIAZIONE PER SERVIRE GLI ALTRI

In ogni comunità nascono e operano associazioni di varia natura: sportive, ricreative, assistenziali, culturali, religiose, politiche. Il far parte d’una associazione è determinato, pertanto, da motivi personali, rispondenti a interessi individuali indubbiamente apprezzabili: come, trascorrere del tempo in buona compagnia, ritrovarsi per lo scambio di esperienze, confidarsi impressioni, comunicarsi preoccupazioni.

Di natura particolare sono le associazioni a carattere umanitario, tanto sociale che religioso, nelle quali gli aderenti mettono il proprio tempo e le proprie competenze al servizio degli altri in modo disinteressato, volontario, e sempre con discrezione e riservatezza: il centro dell'attenzione, cioè, è l'altro, con le sue necessità, le sue difficoltà, i suoi problemi. Ovviamente, non tutte le associazioni fanno volontariato, così come non tutto il volontariato è affidato alle associazioni. Le cose stanno così, però, in astratto. Osservando la realtà, invece, queste associazioni qualche volta sono percepite diversamente dalla comunità: si sente affermare, infatti, che si tratta di associazioni, alle quali prende parte chi non ha voglia di lavorare, chi non sa come riempire la giornata, chi vuole mettersi in mostra e chi si dedica a opere caritative e assistenziali, perché ha bisogno di lavarsi la coscienza. Si è convinti che si tratta di perdite di tempo, che viene sottratto al lavoro e al dovere; e, comunque, è meglio starsene a casa propria e non impicciarsi di cose altrui.

Giudizi ingenerosi, superficiali e senza fondamento. Tuttavia, non si può negare che, in qualche caso, siano provocati dal comportamento di qualcuno, che, pur impegnandosi lodevolmente all’interno di un gruppo, rimane talora chiuso in se stesso, non partecipando agli altri il proprio lavoro, condannato, perciò, a rimanere sterile e improduttivo. In questo modo si priva tutta la comunità di importanti benefici morali e sociali. D’altra parte, però, anche alcuni cittadini stanno a guardare cosa facciano gli altri, e non sempre con buone intenzioni, anzi pronti a puntare il dito e a commentare con saccenteria ogni attività. Nei due casi prevale la mania di protagonismo sia dei singoli sia dei gruppi, oggi purtroppo tanto diffusa; essere al centro dell'attenzione sembra essere persino un bisogno, forse perché la nostra società ama premiare chi si mette in mostra, senza considerare valore e meriti reali. Per questo l’espressione “bene comune” spesso è usata senza la più pallida idea di che cosa significhi. L’individualismo ha eroso in maniera consistente quello stato d’animo di appartenenza sociale, costituito da un insieme di valori, per il quale si può e si deve prendere parte a una realtà sociale e comunitaria.

E’ necessario riflettere e cambiare. E alla base del cambiamento c’è l’assunzione di responsabilità, che obbliga a rimboccarsi le maniche. Il primo passo per cambiare concretamente, quindi, è mettersi in mezzo agli altri e in sintonia con gli altri, evitando la prima causa dei conflitti: l’eccesso d’egoismo e la sfiducia negli altri. Ecco, allora, l’auspicio che dev’essere formulato: che ogni associazione sia un luogo, in cui si promuova concretamente vero spirito d’altruismo, in cui si realizzi la formazione di cittadini sensibili ai problemi della comunità e dedicati al bene comune, rendendosi disponibili a uscire dal proprio privato e a impegnarsi nel servizio degli altri, pronti ad affrontarne le difficoltà e a superarne eventuali ostacoli, mantenendosi fedeli ai principi della morale e dell’etica, noncuranti degli umori dei disimpegnati, indifferenti davanti ai giudizi dei faziosi, perseveranti nonostante il sarcasmo di chi, affossato nell’insignificanza e nell’inerzia, sa solo osservare e commentare, per disapprovare.

mercoledì 19 febbraio 2014

PER UNA POLITICA AL SERVIZIO DEL BENE COMUNE

Il cammino, che percorre la vita dei singoli e delle nazioni, è sempre determinato dagli orientamenti decisi di volta in volta dalle libere scelte degl’individui e dalle responsabili gestioni da parte dei governanti chiamati o comunque posti a guida dei popoli. Certo, non si possono svalutare e men che mai misconoscere gl’indirizzi di pensiero, che sostengono la dottrina del fatalismo o la concezione del determinismo; sembra, però, forse più consono alla dimensione razionale propria dell’uomo attribuire l’accadere degli eventi anche al libero e responsabile intervento degli uomini. Si tratterà indubbiamente d’interventi storicamente condizionati e, comunque, sempre commisurati alla facoltà volitiva dei singoli, alla capacità decisionale dei reggitori degli Stati e, non ultimo, supportati dal grado di maturità morale e di autonomia politica di ciascun popolo. Ogni tempo, pertanto, è tempo fatto di scelte alternative, tutte ugualmente legittime e possibili, ma fatte – ci si augura - con valutazione seria e prudente delle necessità reali, delle possibilità concrete di realizzazione e delle utilità ipotizzabili. Da qui la necessità d’una visione complessiva dei problemi politici, che permetta scelte in grado di garantire il destino dei popoli. E non solo dell’Occidente. Oggi, infatti, tempo della globalizzazione anche dei doveri e dei diritti, ricade su tutti la responsabilità di rinvenire e condividere una concezione antropologica ed etica, su cui edificare progetti validi di vita comunitaria, indubbiamente diversificati, ma sempre e comunque garanti e salvaguardia della dignità dell’uomo d’ogni cultura e d’ogni angolo dell’universo.

Questa esigenza non pare, però, sia avvertita da tutti e nel modo più adeguato. Si constata spesso, infatti, come da molte parti, anche da esponenti del mondo dell’economia, della politica e della stessa cultura, si faccia quasi a gara a individuare e denunciare le cause presunte dei disordini, che serpeggiano nelle varie nazioni e nei diversi settori della vita sociale; quasi sempre, tuttavia, sembra prevalere in loro la preoccupazione di valutare ed evidenziare le manifestazioni esteriori delle crisi indagate, senza almeno considerare prima di tutto le radici vere di tali sintomi. Sviati, pertanto, da questo fraintendimento, ricercano e suggeriscono come rimedio interventi di natura pragmatica, funzionali a situazioni particolari e settoriali, che toccano soprattutto il governo politico e l’equilibrio economico. Il complesso delle attività umane d’un popolo, però, non è fatto da una molteplicità di attività separate e giustapposte, ma è costituito in sistema unitario e organico, nel quale ogni attività s’accorda e si armonizza nella totalità del corpo sociale, secondo la gradualità del valore intrinseco di ciascuna. E’ questa totalità organica che nel suo insieme unitario deve tendere verso un unico sommo scopo: il bene comune. La vita d’una società, infatti, è simile a quella d’un organismo vivente, per cui il mal funzionamento d’un solo organo compromette la sanità dell’intero organismo. Nelle odierne situazioni di crisi sociali globali non è in causa il pervertimento di organi della società e di funzioni dello Stato, ma prima di tutto il deterioramento dell’intero tessuto sociale e politico, che determina e alimenta comportamenti dannosi. La diagnosi e la terapia, di conseguenza, debbono essere condotte secondo criteri di giudizio richiesti dal male da curare e non proposti e azzardati alla luce d’interpretazioni personali più o meno fondate o interessate; e debbono riguardare l’intero organismo sociale in ciò che esso contiene di più essenziale ed intimo, e non solo qualche settore più o meno evidente. E’ urgente, pertanto, ritrovare una visione culturale e politica integrale, che offra un’antropologia universale, nel senso che nessuna creatura pensante ne sia esclusa.

Gli uomini, però, nonostante ricerchino continuamente quale sia la loro vera dimensione esistenziale, tuttavia trovano raramente risposte veramente appaganti; forse perché non si ha il coraggio di prendere atto e di accettare la realtà sociale e politica per quello che essa è e si mostra oggettivamente. Ma solo in questo modo può concepirsi fondatamente e perseguire fattivamente il progetto d’una decorosa convivenza di uomini tra uomini, capaci di costruirsi la città: cioè, di fare politica ciascuno secondo le proprie risorse e capacità. Questa responsabilità etica verso il futuro anche degli altri non può essere, ovviamente, né affidata agli umori dei singoli governanti né lasciata in balia degli interessi dei diversi popoli e nemmeno delegata all’arbitrio di eventuali dirigenti non sempre animati da principi validi e nobili. Si rischierebbero molti pericoli. Per evitarli, è necessario provvedere un adeguato ordine giuridico, che determini il fine verso cui indirizzare ogni iniziativa e ne definisca tempi e modalità d’attuazione. Le leggi – secondo un’utile convinzione già del Rousseau – salvaguardano dall’eventuale volubilità del governante di turno, in quanto è autorità propria delle leggi e dell’intero ordine giuridico indicare l’ideale, cioè il vero regno delle finalità, cui gli uomini possono ragionevolmente e debbono moralmente aspirare. Le leggi, pertanto, salvaguardano e concretizzano libertà e doveri dei singoli, moralità ed eticità degli Stati. Diritti e doveri, dunque, non risultano stabiliti, concordati o elargiti dall’esterno della natura umana e della storia, ma sono insiti in esse. Lo stesso Giovanni Gentile, trascendendo il rigore logico del suo attualismo, ha scritto arditamente che “la società è dentro l’uomo”.

Ecco, allora, il legame, che unisce diritto ed etica; legame affidato, nella realtà, alla responsabilità di tutti, ma in primo luogo di chi sceglie o accetta di farsi carico del governo della cosa pubblica. Il nesso politica-diritto-morale è stato ed è essenziale in ogni tempo e in ogni situazione, ma s’impone con maggiore forza in tempi, in cui nelle scelte e negli orientamenti delle nazioni, l’affannosa ricerca dell’interesse privato e dei gruppi particolari prevale talmente che il sentimento dell’altruismo e la coscienza delle comuni responsabilità restano sovrastati e talora addirittura annichiliti. Non sembra fuor di luogo, pertanto, l’opportunità di ripensare le proposte antropologiche e socio-politiche avanzate da dottrine ”integrali “ del passato e del presente e di diversa matrice culturale, quali il pensiero umanistico di Erasmo da Rotterdam, gli sforzi dei movimenti ispirati al latitudinarismo e all’irenismo in generale e del XVII secolo in particolare, i messaggi dell’induismo di Mahatma Gandhi aperto al buddismo e al cristianesimo, il personalismo cristiano e in particolare cattolico soprattutto di Emmanuel Mounier e di Jacques Maritain, il principio di responsabilità altruistica degli ebrei Huns Jonas e Emmanuel Lévinas, ovviamente senza disattendere le esigenze espresse e proposte anche da teorie contemporanee della filosofia sia continentale che analitica. Questi pensatori - ciascuno con specificità proprie e nel contesto storico d’appartenenza – intuiscono e ammoniscono sostanzialmente che la politica reale, cioè il costruire fattivamente la città, non è assemblare attività staccate, ma strutturare un intero integrale di attività all'altezza di veicolare l’orizzonte di universalità in ciascuna società, in modo da consentire il graduale superamento dei limiti economici ed individualistici. Dal momento che la società è un organismo eminentemente etico, consegue che lo Stato dev’essere affidato in primo luogo a uomini testimoni e difensori della dignità integrale dell’uomo e del cittadino, e non gestito soltanto da professionisti dell’arte del governo e da tecnici esperti dei meccanismi economici e sociologici. Non si può, infatti, ritenere (come sembrano fare alcune concezioni di democrazia, già rappresentate in modo esemplare nella figura di “homo democraticus” da Alexis de Tocqueville in “La democrazia in America”), da una parte di esaltare la singolarità della natura umana, come pretenderebbe il liberalismo o, dall’altra parte, di sopravvalutarne la dimensione sociale, secondo il dettato del sociologismo sulle tracce del pensiero, tra gli altri, di Auguste Comte, Karl Marx, Emile Durkeim. Tanto l’irripetibilità dell’individuo quanto la sua dimensione sociale vanno sottratte ugualmente alla glorificazione dell’assoluta libertà del singolo, alla boria d’orgogli nazionali e, soprattutto, alle spesso dissennate richieste di mercato. La creazione e il mantenimento della società vanno restituiti al gesto libero e consapevole dell’uomo. Non si tratta di capovolgere le possibilità di relazioni singolo-società, ma solo di reinterpretarle in maniera che si salvino sempre e contemporaneamente la singolarità d’ogni cittadino e le indiscutibili esigenze di convivenza. Bisogna in ogni caso riscattare il responsabile intervento del cittadino nella società: egli, non una volta per tutte, ma momento per momento, quando e se lo vuole, deve poter decidere e lavorare per la costruzione della società, cui sceglie di partecipare.

L’obiettivo finale cui aspirare, pertanto, è di ritrovare le motivazioni etiche prima che giuridiche, capaci di offrire vitalità sempre nuova alla convivenza pacifica e costruttiva tra gli uomini, in una crescente visione del dovere civile e morale dell’impegno anche politico. Il quadro spesso davvero desolato del mondo contemporaneo, però, denuncia la carenza di queste istanze, poiché talora si preferisce ubbidire a qualcuno e sottomettersi a qualcosa piuttosto che affrontare le difficoltà per conquistare la propria formazione umana totale e, quindi, anche politica. L’attuale scena politica fa assistere a “politici di professione”, che all’occorrenza si fanno affiancare anche da “tecnici” per la soluzione di particolari situazioni sociali ed economiche. Questa collaborazione è lodevole ed esemplare. Però, a considerare bene i fatti, nascono dubbi e perplessità, quando si analizzano più a fondo le motivazioni, che determinano le scelte dei tecnici e dei politici di professione. Entrambe le figure operano senza dubbio legittimamente entro la propria logica professionale e politica; ma non si sa quanto integralmente umana. Non si sa, insomma, quanto la loro azione sia ispirata a motivazioni umane generali e non dettata, invece, da contingenze particolari.

Ecco, a questo punto, l’opportunità di affiancare al politico e al tecnico una generazione di “politici di solo servizio alla politica”, che possano collaborare, nella reciproca stima, con i primi. Si tratterebbe di persone dedite ordinariamente ad un mestiere o a una professione, che danno la propria disponibilità per un loro impegno nella politica attiva e, qualora ne sia il caso, anche di assumere impegni, in cui porre a disposizione le proprie competenze ed esperienze, sempre con la pubblica e vincolante promessa di una partecipazione solo a tempo e a titolo di gratuità. Cosa forse non facile. Queste persone, infatti, hanno non pochi motivi per tenersi distanti dalla vita politica. Le ambizioni di molti, nella realtà, renderebbero vana la loro opera; e il modo di pensare comune, convalidato dal corso dei fatti, attesta che il successo spesso premia l’andazzo ed emargina nell’indifferenza e nel silenzio chiunque s’opponga. Certo, questa proposta potrebbe suonare come una nostalgica aspirazione suggerita da rimpianti d’un passatismo mesto e sterile. E’ difficile a dirsi, quindi, se possa essere obiettivo realizzabile o chimera destinata a restare nel mondo degli ideali, come sogno bello o utopia vana. E’ un dubbio, comunque, che aveva assillato già Immanuel Kant, il quale, però, senza assumere alcuna aria di sufficienza ma speranzoso nell’umana ragione, si rispondeva che importante non è che l’ideale si realizzi, ma che l’uomo viva come se lo fosse; e ai suoi contemporanei, che deridevano le idee platoniche da lui riproposte, ribatteva che se, anziché deriderle, si dedicassero al loro possibile raggiungimento, tutto il mondo sarebbe andato certamente meglio.

Non c’è bisogno, allora, di una serie di soluzioni, ma di una soluzione unica e globale, cioè perseguire una politica, che si proponga di esprimere i valori propri della persona umana, riprendendo serie indicazioni d’elevato spessore etico, tali che innalzino il livello del confronto politico, spostandolo dalla mortificante combinazione di interessi parziali a una più vasta visione di obiettivi di portata generale. Per questo è opportuno il coinvolgimento di personalità d’indiscussa esperienza, ma anche in grado di individuare gli interessi generali. E’ un progetto certamente lungo e faticoso; ma forse è l’unico capace di ridare senso alla partecipazione politica del cittadino. E’ un progetto che richiede principalmente fiducia e speranza: si tratta, infatti, di gestire il presente, ma senza rimanere oppressi dalla logica dell’immediato, soprattutto se si considera la vera essenza della democrazia, che è una visione globale dell’uomo e del mondo e uno stile di vita privata e pubblica prima e più che una forma o una tecnica di governo. Essa, se inadeguatamente intesa e perseguita, corre il rischio di rimanere seriamente tradita nella sua stessa ragion d’essere di “governo del popolo, da parte del popolo, per il bene del popolo”, e può diventare dominio del numero più grande (non necessariamente sempre dei migliori) sul numero minore di cittadini (non necessariamente sempre dei meno buoni). E questo vale soprattutto nei nostri giorni, quando la crisi dell'etica pubblica è sotto gli occhi di tutti.