Il Tempo, in sé fluire di momenti transeunti che vanno accolti, si apre a un "oltre" custode Eterno di valori trascendenti che vanno abitati. Vicende e realtà tendono alla suprema fusione nell'infinita Totalità, anima di ogni Speranza.

mercoledì 30 dicembre 2009

PERCHE’ IL DOLORE E LA MORTE?

Vi sono molte discussioni e si propongono non poche argomentazioni convincenti sulle risposte che sono state avanzate e che tuttora si vanno ricercando sulle tristi realtà del dolore e della morte. Tornerebbe, però, forse più utile, e comunque più “umano”, tentare di penetrare le motivazioni vere e profonde che spingono gli “esseri razionali” a porsi la domanda stessa più che a trovarne la risposta. Infatti, è dentro il perché della domanda che sono custoditi i segreti della drammaticità di questo problema, che ogni singolo essere umano vive nell’intimità inconfessabile del suo animo, il quale – si deve riconoscere per onestà intellettuale - non è nutrito e guidato da certezze oggettive incontestabili, bensì alimentato e sorretto dagli orientamenti unici, che scaturiscono dalla particolare visione del mondo, che l’irripetibile storia personale propone a ciascuno come la più valida e la più credibile.
L’essere umano non tende, per sua necessità naturale, alla felicità; e, pertanto, non si chiede che cos’è la felicità, né la rincorre in sè e per sè. Seguendo i bisogni della propria natura, l’essere umano vorrebbe solo non soffrire, cioè, vorrebbe solo godere di un corso esistenziale biologico, spirituale e morale ordinato secondo i limiti e le finalità della sua realtà; e, per questo, si chiede cos’è il dolore in ogni sua manifestazione, fino alla sua ultima rivelazione che è la morte. Il dolore, infatti, è presente e domina ogni forma di esistenza; e la morte, conclusione ineluttabile d’ogni corso esistenziale, è l’unico evento certo, che accomuna ogni genere vivente, compreso quello umano. L’essere umano, però, è dotato non solo di sensibilità e di ragione, ma anche di sentimento, di emotività e forse soprattutto di libertà; in quanto tale, è disponibile ad accettare e sopportare qualunque evento che, però, non sia assurdo. Ma il dolore rimane un assurdo, perché contrario a ogni principio di ragionevole comprensione. Esso, infatti, sfugge a ogni tentativo di farsi conoscere, anzi si ostina a rimanere serrato nell’impenetrabile dominio dell’incomprensibile, che va al di là d’ogni limite anche dello stesso mistero. Il mistero, infatti, è un’esigenza della ragione umana protesa certamente anche verso l’ignoto, ma che sia razionalmente fondato, cioè, verso quell’ignoto che propone conoscenze e realtà superiori alle capacità cognitive umane, ma che sono supportate da elementi non irrazionali. Il dolore, purtroppo, non ha un simile fondamento, per cui rimane un assurdo, almeno fino a quando non si manifestino alla mente umana suoi eventuali aspetti “ragionevoli”.
Allora – ci si chiede – qual è il significato della sofferenza, quali sono le sue radici, che “valore” porta o aggiunge alla natura umana e alla storia della sua evoluzione? Quale ruolo storico svolge nell’inesorabile scorrere dell’esistenza dei singoli e dell’umanità? Insomma, che rapporto c’è tra sofferenza e realtà dell’essere umano (e dell’intero cosmo)? L’esistenza umana consiste in una ben determinata durata di tempo, di cui ciascuno dispone, non importa se già necessariamente programmata in ogni suo accadimento o con margini di possibile intervento umano; anche se tutti dobbiamo prendere atto almeno che la nostra nascita non è stato frutto di una scelta consapevole o inconscia. “Vivere” questo segmento esistenziale può essere o pensato e realizzato come un riempire e un concretizzare un qualche progetto “sensato” (per usare il linguaggio del Popper) oppure concepito e vissuto come un esaurire e un consumare un qualcosa, che ci è dato in uso, di cui, quindi, è consentito disporre provvisoriamente e rapidamente, perché è destinato a passare inesorabilmente. L’esistenza umana, allora, è una realtà o “sensata” ma necessitata, oppure “insensata” ed effimera. O vi è qualche altra possibile visione?
L’intero arco della vita presenta momenti propizi e momenti avversi, stati di felicità e stati di dolore. A questi modi di essere non si vuole attribuire alcun giudizio valutativo; si vuole soltanto indicarne la presenza certa e ricercarne un significato plausibile. Appare razionalmente appagante ma umanamente insoddisfacente, la convinzione, secondo cui ogni “essere” è sempre e comunque positività e valore (buono, vero, bello, giusto, ecc.), per cui ogni negatività e disvalore devono ricondursi a una qualche carenza di essere, dovuta alla natura stessa d’ogni essere finito e contingente. Tuttavia - a prescindere che non è del tutto agevole accettare la presunta compresenza di essere e di non-essere - questa non è una risposta al perché sia proprio “l’essere finito e contingente” a interrogarsi sul proprio dolore e sulla propria morte; mentre è quest’ultima la domanda, dentro la quale si cela l’arcano della drammaticità del senso dell’umana esistenza e alla quale si vuole trovare una possibile soluzione.
E’ una partita, questa, che ciascun essere umano si trova a dover giocare sempre da solo. Infatti, non si può delegare ad altri la propria sofferenza né ci si può fare sostituire nella propria morte. E sofferenza e morte sono sempre collegati durante tutta l’esistenza, anzi sono tali che l’una richiama sempre l’altra. Infatti, il dolore fisico e morale è, in sostanza, sottrazione di vitalità, per cui è preannuncio della morte, che giunge come assenza totale di vita. Per l’ineluttabilità di questo destino - individuale ma universale, in quanto accumuna tutti nella medesima sorte - l’essere umano, finito e contingente, proprio in quanto tale, vive costantemente in compagnia del suo progressivo “estinguersi”.
Per andare verso quale meta? Ogni realtà – si afferma spesso e da molti – ha, anzi deve avere, in se stessa la ragione del suo esistere. La teleologia universale è veramente una connotazione reale oppure risponde a un’esigenza soltanto dello spirito umano? Che nel cosmo ogni cosa tenda alla realizzazione di un immenso e ordinato progetto armonico, all’interno del quale si assume senso e significato, è una realtà oppure concretizza solo l’anelito dell’animo ad abbracciarsi a un qualcosa che mitighi il suo smarrimento e calmi la sua ansia esistenziale?
Una realtà, comunque, s’impone in tutta la sua asprezza: non c’è alcuno che non senta l’acuto morso della domanda: qual è il senso della sofferenza che accompagna ogni attimo dell’esistenza umana, che ha l’inizio in modalità sconosciuta e la conclusione biologicamente necessitata. Certo essa può essere esaudita – come di fatto è avvenuto – in tanti modi, da quello assolutamente pessimistico a quello assolutamente ottimistico; ma ci si trova quasi sempre di fronte o a costruzioni fondate su argomentazioni logiche (stringenti ma inappaganti) oppure su intime intuizioni spontanee (intime e segrete e, quindi, incomunicabili). Risposte “credute razionalmente” o “accolte umanamente”, ma sempre minate dal dubbio e dalla nostalgia della certezza, cui anela ogni inquietudine umana. Costruzioni solide ed esigenze profondissime, dietro le quali si cela solo la tenace volontà di “credere” in qualcosa, che salvi l’animo umano dal precipitare nel baratro dell’insignificanza e del non-senso. Conclusioni temporanee, però, smentite quasi sempre dall’avventura esistenziale di ciascuno. Audacia, comunque, di non rifugiarsi acriticamente in soluzioni fideistiche o in negazioni irrazionali. Coraggio, sempre, di assumersi, umilmente ma totalmente, ogni responsabilità delle proprie scelte e della propria coerenza.

venerdì 18 dicembre 2009

Un volume di Hans Jonas: LIBERTA’ E’ DUBITARE DELL’ASSOLUTEZZA

In questi giorni è stato pubblicato, in traduzione italiana, il volume “Problemi di libertà” di Hans Jonas. In esso sono raccolte le lezioni, finora inedite, che il filosofo tenne nel 1970 a New York, e la cui lettura sollecita alcune riflessioni, che appaiono particolarmente urgenti.
Non si sa quanta fondatezza storica abbia la tradizione che tramanderebbe una relazione culturale – dialettica ma quasi amicale – tra il filosofo romano stoico Seneca e l’ebreo Paolo convertitosi alla sequela del Cristo e divenuto ‘apostolo delle genti’. E’ certo, però, che sul problema e sulla concezione della libertà li troviamo su posizioni assolutamente opposte. Ora, grazie al volume di Jonas, ritornano quanto mai attuali il confronto e la discussione delle due dottrine.
Per Seneca – e per lo stoicismo in generale – la libertà è la possibilità è di disporre di se stessi in assoluta autonomia e con piena responsabilità: cioè, la capacità personale di pensare, di volere, di sentire, di agire secondo le indicazioni della totalità del proprio essere, i suggerimenti della propria ragione, le urgenze del proprio sentimento. Lo stesso Kant, del resto, identifica la libertà con la capacità soggettiva di dare ascolto sempre e solo alla voce della propria ragione e di conformarsi ad essa; per il filosofo tedesco non c'è alcun dubbio: qualunque elemento esterno all’umana razionalità - sia esso di natura nobile o ignobile, ovvero scaturisca da fonti superiori e addirittura divine - la rende sottomessa e, quindi, non libera e non degna della natura umana. L’essere umano è anche razionale; ma la razionalità umana non coincide con la sola “ragione” intesa come facoltà di formulare pensieri astratti logicamente connessi secondo schemi linguistici e particolari convenzioni filologiche. La razionalità umana è una realtà composita e ordinata: prima e, oltre che capacità astrattiva, essa è capacità intuitiva e creativa di molteplici forme simboliche, grazie alle quali soltanto nascono le armonie della musica, le drammatizzazioni del teatro, le policrome combinazioni della pittura, le sublimi trasfigurazioni della poesia, le fantasiose costruzioni del romanzo ed anche le ricostruzioni documentarie della storia.
Invece, per san Paolo - e, quindi, per il cristianesimo - questa autosufficienza dell’uomo decreta la negazione stessa di Dio, dal quale soltanto deriva quella Legge unica, eterna e assoluta, che permette all’uomo di realizzare le sue reali dimensioni umane. Dal momento, poi, che tale Legge non solo prescrive i comportamenti esteriori, ma comanda anche i pensieri e giudica i desideri che possono e debbono albergare nell’arcano segreto dei cuori (comanda, infatti,non solo di "non commettere" adulterio, ma anche di "non desiderare" la donna di altri), essa decide il retto movimento anche delle anime. Non ci troviamo, allora, davanti a un essere umano assolutamente assoggettato a una Legge suprema, cui deve adeguarsi sempre e comunque l’essere umano?
Hans Jonas, uno dei massimi rappresentanti dell'umanesimo del secolo passato, in questo suo lavoro ci conduce, attraverso un itinerario storico e teoretico, verso l'esplorazione della rivoluzionaria idea cristiana di libertà. L'essere umano, se è libero, deve poter disporre di se stesso. Tuttavia, si trova immerso e condizionato da tutta una fitta rete di pulsioni personali, di di diritti altrui e di obblighi sociali. Il cristianesimo, da parte sua, pone sotto assedio anche quella dimensione interiore, in cui il singolo poteva credere di essere padrone, se non del mondo, almeno di se stesso. E Jonas - con arguta osservazione storica - annota: "Questo punto di vista cristiano fu formulato per la prima volta nei modi della 'Epistola ai Romani' piuttosto che in quelli di un'affermazione teoretica o come una dottrina generale".
A questo punto - accompagnati dal lucido e appassionato argomentare di Jonas - è lecito chiedersi se per il cristiano ci sia posto per una libera iniziativa dell’uomo e quale sia il ruolo della sua responsabilità nella costruzione della storia dell’umanità e del cosmo. E la domanda si mostra in tutta la sua vera valenza, quando si tenta di scoprire e capire anche quale sia veramente la fonte di questa Legge assoluta e indiscutibile, che, aldilà d’ogni tortuosità e bizantinismo possibili, di fatto governerebbe ogni forma di vita e ogni accadimento naturale e cosmico.
Si potrebbe, allora, indagare coraggiosamente, ed eventualmente riconoscere e accogliere con estrema disponibilità, la possibile esistenza d'un'autonomia umana non superficiale e di facciata, bensì sostanziata di reali dimensioni e protesa verso l'apertura alla complessità della vita esistenziale e dell'intera vicenda del mondo.

mercoledì 9 dicembre 2009

HANS KÜNG, “IN COSA CREDO”:non si crede senza capire

In Germania è stato pubblicato – con il titolo “Was ich glaube” - l’ultimo libro di Hans Küng, il celebre studioso svizzero; in Italia ne è prevista la diffusione con i caratteri Rizzoli e con il titolo “In cosa credo”. Il volume si pone come la logica conclusione di tutto il pensiero e dell’intera vita del Küng. Egli, infatti, è stato (e continua ad essere tuttora) talmente coerente con la propria mente e con la propria anima da aver saputo accettare tutte le difficoltà e aver voluto superare tutte le avversità, che ha incontrato durante il corso della sua vita: anche quando, nel 1978, dopo aver pubblicato il suo “Dio esiste”, gli fu revocata l’autorizzazione all’insegnamento della teologia cattolica. Fu un passaggio molto penoso, che, comunque, non ha mai indebolito il suo impegno di meditazione teologica, di riflessione filosofica e di interesse nei confronti anche delle scienze sperimentali, da lui sempre stimate e rispettate nei loro metodi e nelle loro conquiste.
La preoccupazione dominante e l’intento ultimo dell’intera attività speculativa – teologica e filosofica - di Hans Küng sono stati il ricercare la possibilità concreta d’un’etica universale fondata sulla comprensione sincera e sul rispetto reale degli “altri”, i quali vengono considerati e trattati effettivamente come tali, quando sono considerati e trattati concretamente nella loro individuale dignità di singola persona umana: l’altro, quindi, è ciascun essere umano, qualunque differenza etnica e morale egli presenti, qualunque pensiero filosofico condivida, a qualunque fede religiosa aderisca (non esclusi l’agnosticismo e l’ateismo).
“La mia spiritualità – dichiara Hans Küng in questo suo ultimo libro – ha sempre avuto a che fare più con la razionalità che con la sensibilità. Non ho mai voluto semplicemente ‘credere’, ma anche ‘capire’. Come teologo mi sono sempre ritenuto anche filosofo, ho studiato filosofia e l’ho praticata”. Ed esprime pacatamente, con umile semplicità ma anche con sostenuta convinzione, la sua certezza d’aver contribuito a colmare una grave lacuna che presenta l’attuale pensiero filosofico, da ormai lungo tempo impoverito di quella ricchezza, che è apportata dalla riflessione sui problemi della metafisica: “Forse che con la mia teologia – scrive con fiducioso ottimismo – io riesca a porre rimedio a quella dimenticanza di Dio sopravvenuto nella filosofia e a quella dimenticanza della filosofia avvenuta nella teologia?”. E animato proprio da questa fiducia ha voluto (e saputo) unire al metodo del razionalismo cartesiano l’incessante e pressante “voce del cuore” invocata da Pascal: l’essere umano - secondo Hans Küng - non è solo ragione, ma possiede tutto un complesso e ricco patrimonio di umanità profonda, costituita anche da emozioni e intuizioni: “Ci sono tanti fenomeni specificamente umani, come l’arte, la musica, l’umore, il riso, e certo il dolore, l’amore, la fede e la speranza, che non si lasciano cogliere in maniera critico-razionale nelle loro varie dimensioni, bensì che è possibile avvertire solamente nella loro pienezza”.
La totalità dell’essere umano richiede analisi ardite e risposte approfondite. Non ci si può fermare all’approssimazione e alla superficialità: “Come filosofo e teologo – afferma Hans Küng – non posso accontentarmi della problematicità superficiale del nostro mondo secolarizzato e ridotto solo a razionalità e funzionalità, bensì debbo cercare di penetrare nella sua dimensione più profonda. Come si può altrimenti trovare una risposta alla domanda sul fondamento della vita?”.
La lettura di questo scritto “autobiografico” di Hans Küng sembra essere particolarmente adatta per la nostra umanità, specialmente in questo periodo, in cui essa appare essere dominata dal pragmatismo e dall’utilitarismo, imperanti ormai in ogni campo della vita individuale e degli assetti sociali. Convincimenti e atteggiamenti, questi, che pretendono di tutto giustificare e tutto rendere “normale”, condannando al progressivo decadimento intellettuale le menti e alla lenta insensibilità morale i cuori dell’essere umano.

venerdì 30 ottobre 2009

IDEALITA' E REALTA' ovvero SOLITUDINE E TOTALITA’

Mondo delle idealità e mondo delle realtà, confini della spiritualità e confini della concretezza, sfera della progettualità e sfera della realizzabilità: sembrerebbero due mondi distinti, forse anche contrastanti e inconciliabili, per cui sarebbe assurdo anche ipotizzare la possibilità di una loro interazione. Sembra opportuno, tuttavia, indagare se possano esserci – o se ci sono con certezza – rapporti tra il mondo “interiore” proprio dello spirito umano individuale e il mondo “esteriore” proprio della vita che si svolge nelle società umane e nel mondo della realtà. Il primo è il mondo, che ognuno concepisce negli intimi recessi del suo spirito, feconda nell'arcano calore del suo sentimento, alimenta nella segreta intimità del proprio animo (è il mondo, quindi, fatto di interiorità, di risevatezza, di segretezza, di “nessi logici” umani, ma incomunicabili); il secondo è il mondo della vita reale, quel mondo che ciascun uomo deve progettare nelle maglie spesso ingovernabili dei rapporti interindividuali, deve vivere nell'intreccio imprevedibile dei rapporti tra gruppi e tra società, deve realizzare durante il tempo che passa inesorabilmente, e dentro gli spazi quasi sempre imposti dalle situazioni storiche oggettive e contingenti (è il mondo, quindi, fatto di esteriorità, di verificabilità, di ostentazione, di “nessi logici” umani comunicabili, che si traducono, per lo più, secondo l'espressione di Ipponatte, nelle “ipocrisie della vita”).
Ciascun uomo, esistenzialmente, nasce “situato” in un luogo e in un tempo definito, del tutto indipendentemente da ogni sua scelta, consapevole o inconsapevole; si viene a dover stare, quindi, in un contesto sociale, economico e culturale ben stabilito; e da questo contesto, di cui è “figlio”, gli derivano i fondamentali caratteri specifici che lo “segneranno”, cioè lo definiranno, lo condizioneranno, lo determineranno per l'intero corso della sua esistenza, investendone non solo i suoi aspetti corporei e le sue connotazioni psichiche, ma anche le modalità essenziali del suo pensiero e del suo comportamento. Sotto questo aspetto, perciò, ciascun uomo è “segnato” biologicamente e culturalmente; cioè, è un soggetto che “deve” pensare e agire nell'alveo di tradizioni consolidate, di valori comuni, di doveri e diritti sociali concordati e sanciti. Diversamente diventerà un apolide, “asociale” e “incivile”: rimarrà estraneo e rigettato da tutti, cioè non avrà una propria identità sociale e culturale storica. E così ridotto, sarà considerato e trattato come un povero “idiota” da sopportare e da commiserare: sempre, comunque, inutile, se non addirittura nocivo, perchè di peso e di ostacolo al cosidetto vivere civile.
Nello stesso tempo, però, ciascun uomo, esistenzialmente, nasce “dotato” di un proprio mondo interiore, tutto e solo suo, dentro il quale egli cova, feconda e alimenta sentimenti spontanei suoi e sue emozioni involontarie, affetti liberi suoi e sue speranze inaspettate, desideri impensati suoi e sue paure improvvise, incertezze incontrollate sue e suoi progetti accarezzati, suoi sogni sempre bramati e mai abbandonati: cioè, tutto quel mondo interiore, che costituisce la sostanza più vera della singola vita umana; quella sostanza che dà l'audacia delle proprie visioni totali e delle scelte vere, radicali e definitive, che niente e nessuno, nemmeno la morte, potrà mai mutare e nemmeno soltanto scalfire. La realtà storica, tuttavia, condizionerà le idealità e addirittura determinerà le modalità della realizzazione delle scelte; il mondo reale imporrà tempi e spazi d'azione e di comportamento, richiederà coraggio estremo, causerà dolori sovrumani, infliggerà tormenti strazianti. Però, rimarrà intatta, sempre e comunque, l'essenza reale del mondo ideale d'ognuno, cioè dell'unico mondo veramente pieno, perchè popolato dalle scelte autentiche, perchè scelte libere, estreme, “ideali”, totali, che l'uomo, dovendo vivere concretamente negli angusti confini della storia terrena, momentaneamente realizza solo nelle dimensiomi della speranza e dell'attesa, ma che che è sicuro di realizzare nella piena totalità della loro entità nell'eternità dell'Infinito. Il mondo delle idealità è il mondo che ognuno vive nel proprio animo: e lo gestisce liberamente, lo custodisce gelosamente, lo difende tenacemente. Ecco perchè abbiamo definito l'animo umano come “lo scrigno più prezioso, più sicuro, più impenetrabile, più sacro che è dato in dote a ciascun uomo”. E la dimensione dell'animo umano è così importante che l'abbiamo considerato “l’essere sostanziale d’ogni individuo, la sua vera essenza esistente e vivente in sé e per sé, nella sua singolarità totale, che rende l’esistente umano (che in sé e per sé è individuale e contingente) partecipe della Totalità somma dell’unico Essere infinito: quell’Essere che tutto comprende e tutto accoglie; che tutto realizza e tutto esprime; che tutto verifica nell’assoluta trasparenza immediata della verità immortale (…); che mai viene meno, mai dubita, mai tradisce; quell’Essere totale che nessuno e nulla può ingannare”.
Ecco la drammacità della situazione esistenziale dell'uomo. Da una parte, egli è un essere storico, che “deve” vivere in tempi storici ben definiti e dentro spazi geografici ben circoscritti, per cui è “parte” di una ben determinata cultura, dentro la quale “deve” realizzare la sua esistenza. Si trova immerso, quindi, in un mondo storico, che s'impone per la concretezza degli elementi che lo costituiscono: cioè, successo, benessere, ricchezza, potere, piacere, salute... E' un mondo che forma un insieme ben compatto di solidi elementi che interagiscono tra di loro, condizionandosi e determinandosi, creando, così, “situazioni oggettive” concrete e inoppugnabili, che governano sostanzialmente la vita storica degli uomini. Dall'altra parte, però, l'uomo, in quanto dotato anche di animo, di mente, di cuore, di sentimento, è pure un essere che vive – anche se in un mondo fatto di tempo e di spazio - un'esistenza “senza tempo e senza spazio”, un essere incondizionato, “libero”, tendente all'infinito. Come tale, l'uomo è ”cittadino” del mondo “ideale” (non meno reale del primo): quel mondo che vogliamo indicare come il “mondo ideale dei sogni”, che, sgorgando e sviluppandosi nella profonda intimità dell'animo umano, abita totalmente nel pensiero e vive pienamente nei cuori degli uomini.
I due mondi, quello delle idealità e quello delle realtà storiche, si trovano spesso in disaccordo e in contrasto tra di loro e generano, perciò, dissidi interiori e tormenti esistenziali. Molti pensatori hanno rappresentato esemplarmente questo stato umano: poeti, artisti, filosofi. La sofferenza maggiore deriva dall'impotenza umana di dare pieno sviluppo a tutti gli aneliti dell'animo, mortificati dalla necessità che domina la contingenza dei fatti umani. Il divario tra realtà e idealità è troppo grande e, storicamente durante questa vita, a dominare è la tirannia della realtà. Però, quanto maggiore è il dominio del mondo reale tanto più si rinforza la “fede razionale” nelle idealità, che accrescono sempre di più la loro consistenza e la la loro urgenza. Addirittura, si assiste al paradosso per cui quanto più vuole prevalere la realtà, tanto maggiore diventa la forza dell'ideale, vincendo ogni ostacolo e superando ogni difficoltà. L'animo umano, allora, si slarga gradualmente e incessantemente, sentendo sempre più urgente il bisogno dell'infinitudine, tanto da desiderare sempre di più di liberarsi dai suoi limiti esistenziali e sciogliersi nella Totalità dell'Essere, dove albergano solo certezze e regnano solo scelte estreme, definitive ed eterne.
Questo mondo ideale – si chiedeva, tra gli altri, Kant - raggiungerà mai la sua piena realizzazione, o è condannato a rimanere un'aspirazione dell'animo e un anelito dello spirito umano? Mondo ideale e mondo reale, pur essendo in dissonanza e talora anche in contrasto, tuttavia interagiscono; anzi, è proprio la loro interazione che tesse la trama concreta dello svolgersi dell'esistenza umana. E, mentre il mondo della storia à destinato a passare, il mondo delle idealità è destinato all'eternità, dove c'è solo vita perenne e indistruttibile. Per cui la realtà più solida è quella delle idealità, che costituiscono la vera forza motrice dell'esistenza umana: sono le idealità che dànno impulso al vivere umano. L'uomo vive in questo mondo, ma non è di questo mondo: la sua avventura esistenziale è un perenne tendere e un progressivo avanzare verso i cieli dell'immortalità e dell'eternità. Vive incatenato ai ceppi della contingenza e del transeunte, ma “sogna” e tende all'assoluto, per il quale è fatto, per il quale vive e a cui aspira. Tutto ciò può sembrare piuttosto astratto, se non poco sensato; e non a caso è lo stesso Kant che, prevenendo tale osservazione, ammonisce gli uomini: se, anziché deridere le “idee” platoniche, essi si impegnassero e si dedicassero a realizzarle nella storia del mondo, il mondo sarebbe certamante meno ingiusto e più a dimensione d'uomo.
Felice, allora, chi può pregustare, già durante la sua esistenza storica, le gioie del mondo “ideale”. Egli vivrà sicuramente momenti anche di strazio e di sofferenza, ma si sentirà sempre più puro e sempre più vicino all'Assoluto: si vivrà sempre più estraneo al mondo reale e sempre più partecipe del mondo ideale, dove sa che diverrà Unità indissolubile. L'animo umano, allora, s'espande fino a bramare di contenere in sé l'Universale e l'Infinito, anche se nelle sole dimensioni della speranza e dell'attesa. Paradosso: solo così l'animo umano “finito” supera le limitazioni e le angustie della realtà storica e si slarga sempre più fino a contenere in sé lo stesso “infinito” perennemente bramato e sempre più intensamente agognato. Nello stesso tempo l'Infinito accoglie e scioglie in sé l'animo dell'uomo, che ha coltivato idee rette e sublimi.Tutto ciò, mentre scorre il tempo, fatto di frammenti che svaniscono, perdendosi nel nulla del passato; mentre il dominio dell'Eterno Infinito s'accresce.
Questo percorso conduce all'isolamento dell'individuo, sfocia nel solipsismo, condanna al nichilismo? No, si risponde con l'autorevolezza dello stesso Platone, prima che lo facesse Kant. In questa avventura esistenziale si autocondanna all'isolamento e al nichilismo solo chi si pasce del suo miope egoismo e si chiude grettamente a ogni forma di gratuita generosità. Ma chi ama l'Umanità e la Realtà, chi ricerca l'Infinito e la Totalità, chi si vota sinceramente al culto della Verità non sarà mai solo, ma possederà una vita colma di senso, a patto però che nutra il bisogno sincero di ricercare l'afflato dell'Amore Totale e senza riserve, che coltivi il coraggio d'intuirne la presenza viva, d'ascoltarne con disponibilità tutte le richieste, d'accoglierne tutte le esigenze con audacia e fino all'estremo, rimanendovi fedele, sempre e comunque, fino a essere pronto al supremo sacrificio del proprio io, se sarà necessario, perchè vi rimanga fedele per l'eternità. Quest'afflato universale, che unisce e sublima, storicamente non è un'astratta aspirazione, né si concretizza solo nel solitario quotidiano operare dell'individuo; ma, perchè sia autentico e vivificante, ha bisogno - come direbbe Jonas - d'incontrarsi con qualche “Altro” dotato di uguale sensibilità e capace di simili eroiche scelte. Solo chi ha la bella ventura d'incontrare sulla sua strada, nel corso della vita, altra anima assetata d'Amore Universale e di senso della Totalità dell'Infinito, vive veramente la pienezza dell'esistenza e realizza tutto il senso della vita umana. Nell'incontro di queste due esistenze s'incarnerà e durerà imperituro l'Amore Universale: quell'Amore che rimarrà l'unico vero Angelo che annuncia l'Aurora di giornate sempre radiose, anche quando saranno momentaneamente turbate dal rumore di qualche tuono, brutto nunzio d'ingiustizia e d'assurdità: ma niente scuoterà l'unità ormai indissolubile dei due esseri, i quali, votatisi insieme alla sublime purezza della generosa gratuità e della fiduciosa libertà, vinceranno tutto il mondo storico, rimarranno in mirabile intima fusione e attenderanno, con fiducia ed entusiasmo, di realizzare le idealità, per le quali sono vissuti, nella loro pienezza totale. Felice chi già in questo mondo incontra, conosce, sceglie, accoglie l'altro, donandosi, a sua volta, senza alcuna riserva e preoccupandosi solo di non venir mai meno alle promesse giurate. Vivrà non nell'isolamento, ma nella “suprema solitudine” piena d'ogni scelta imperitura che condurrà all'assoluta Totalità: eterno evento cosmico retto da arcane ragioni, ignote a noi, che forse conosceremo, quando esse vorranno svelarsi. Mistero di oggi, che sarà verità chiara di domani: così sente l'animo umano, che crede e vive il mondo delle idealità.
Solo nell'intimità dell'animo umano, cioè nel segreto dello “scrigno più prezioso, più sicuro, più impenetrabile, più sacro che è dato in dote a ciascun uomo”, si intuisce il senso dell'avventura esistenziale dell'uomo. Sarebbe molto facile scegliere di riconoscere solo uno dei due mondi (il mondo delle idealità o il mondo delle realtà), sarebbe comodo decidere di rimanere entro i confini o della sola spiritualità o della sola concretezza, sarebbe agevole accogliere la sfera o della sola progettualità o della sola realizzabilità: ma sarebbe solo debolezza e ipocrisia. L'uomo integrale è fatto di molte dimensioni; e, se vuole portare a termine tutto il suo compito e realizzare l'intero senso del suo esistere, deve avere la forza di realizzare l'intera armonia del suo essere e la totalità della sua natura. Negare una qualunque dimensione della natura umana significa rinnegare il proprio ruolo nella sorte dell'intera Umanità, lasciandola carente e imperfetta; intuire e rispettare, invece, la complessa e sublime Armonia della Totalità significa essere consapevoli del proprio ruolo e realizzare il senso del proprio esistere. E non è impresa facile capire sempre il giusto posto da assegnare a ogni elemento che costituisce l'Armonia Universale, la quale talora richiede estremi sacrifici, talora veramente duri ad accettare e a portare fino in fondo: ma l'Amore vince tutto! Felice chi saprà affrontare e superare ogni prova fino in fondo, rimanendo sempre affascinato dal mondo delle idealità, dove tutto è trasparenza e certezza definitive.

mercoledì 15 aprile 2009

QUANDO NULLA E’ VERO …

Una riflessione sulla sensibilità del paradosso di Nietzsche

Nella storia dell’umanità restano confermati tutti gli sforzi compiuti dall’uomo, per tentare di trovare una risposta convincente e condivisibile all’inesplicabile, perenne, misteriosa domanda: cos’è vero?
C’imbattiamo in immensi sforzi veramente encomiabili, che sono rimasti, però, sempre e inesorabilmente senza alcun concreto risultato positivo. Le stesse vicende storiche delle numerose chiese e le traversie delle innumerevoli dottrine religiose testimoniano il fallimento d’ogni speranza da parte dell’uomo di conquistare qualche scaturigine feconda di certezze umane attendibili; e la delusione si acuisce, quando a naufragare sono dottrine, che si propongono nelle vesti di depositarie uniche e autentiche di messaggi trascendenti ogni umana capacità. Da parte loro, nemmeno le vicende della ricerca scientifica hanno prodotto migliori punti d'arrivo.
Dove cercare, allora, una qualche garanzia di una verità che possa, se non appagare, almeno sorreggere lo spirito dell’uomo, che aspiri a incamminarsi verso mete suggerite da motivazioni ragionevoli? Tendere alla conoscenza della verità è un’eccelsa connaturata aspirazione umana, che però viene puntualmente delusa nella realtà: ecco il conflitto esistenziale tra ideale e reale, tra aspirazione e realtà, tra essere e dover essere, di cui già Kant aveva sottolineato la drammaticità e nello stesso tempo l’elevatezza. In ogni uomo, che viva in totale pienezza il senso della propria vita, convivono l’insopprimibile aspirazione a mete impossibili e la realtà che inesorabilmente la nega. Gli esiti di questo contrasto possono essere diversi: o di avvilente depressione rinunciataria o di straordinaria vivacità creativa.
E questo è il risultato del pensiero e della vita di Nietzsche. Sembra, infatti, che, per approdare a una qualche certezza solida, sia necessario armarsi dell’audacia di macerarsi eroicamente negli intrichi d’un intimo radicale scetticismo: sembra, cioè, che, per conquistare qualche punto fermo non resti altro che la riflessione filosofica, da perseguire con perseveranza e con l’unico strumento di cui dispone realmente l’essere umano, ossia la propria ragione. E l’umana ragione è ben consapevole di poter contare solo su stessa e sulle qualità che la costituiscono: cioè, il suo limite, che la esorta a non cedere a false smanie; la sua fallibilità, che le rammenta di non congetturare mai l’indiscusso; la sua provvisorietà, che le suggerisce di non contare mai d’aver toccato il definitivo, ma solo qualche breve momento, che presto sarà oltrepassato. La filosofia, quindi, resta l’unica fonte, dalla quale gli esseri razionali possono attingere ciò che dà lucida stabilità all’uomo che vuole decidere liberamente del proprio destino, soprattutto quando gli vengono meno le certezze delle religioni e delle scienze. E la filosofia assolve a questo compito proprio perché è la sentinella della razionalità e della libertà, grazie alla quale si può coltivare la speranza del ritrovamento di verità. E’ la filosofia, infatti, che affissa lo sguardo anche sull’irrazionalità di molti aspetti della vita individuale e collettiva anche dei nostri tempi: e ne scruta argutamente la frammentazione e il paradosso, ne comprende amorevolmente le contraddizioni, ne esamina impietosamente persino le assurdità.
La ragione filosofica, però, vive già con se stessa un rapporto di paradosso e di contraddizione: è, infatti, un rapporto di fiducia in se stessa e nell’altro, e conseguentemente anche di libertà dall’altro e persino da se stessa. Un rapporto, quindi, d’intimo contrasto doloroso, ma costitutivo della totalità concreta dell’essere umano. Infatti, i sentimenti di fiducia e di libertà (certamente autentici, sinceri, validi, provati e reali) s’accompagnano a stati d’animo spontanei (ugualmente autentici, sinceri e reali) di cupo turbamento: turbamento talora pungente e momentaneo, talora profondo e duraturo, talora diffuso e insopprimibile; turbamento che diviene in alcuni momenti straziante spasimo, che straccia l’anima e sfibra lo spirito. Difficile distinguere, allora, i confini di fiducia e di diffidenza, di libertà e di zelo, di amore e di egoismo. Ma è un turbamento, comunque, che domina tutto l’essere umano e che, mettendo sottosopra tutta l’anima confusa, si ostina fino a togliere ogni forza fisica e morale, facendo precipitare l’animo in profondi abissi di buio e di disordine.
Abissi profondi ed estremi, che conducono la ragione dell’uomo quasi a uno sfinimento totale, che sembra annunciare la rassegnazione definitiva e la rinuncia assoluta. Ma ecco il disvelarsi della straordinaria grandezza della ragione umana: proprio in virtù dell’immenso carico dei suoi patimenti subìti, essa supera i successivi tormenti esistenziali, risvegliando nuova vitalità e nuova speranza: non rinuncia, infatti, pavidamente agli ulteriori sforzi che l’attendono, né si rassegna alla presunta ineluttabilità del destino; ma, arricchitasi di nuove rare sensibilità, si apre più largamente al dialogo con la vita, con l’umanità e con il mondo, fecondando nuove verità, mentre continua a rispettare verità vecchie.
Nonostante, anzi proprio grazie a questo connaturato paradosso, la filosofia ha il compito di studiare l’uomo: l’uomo in generale quale partecipe dei destini del genere che lo comprende, e l’uomo singolo quale unico responsabile d’una propria irripetibile storia. In questa prospettiva la ricerca filosofica apre una preziosa finestra, ricca d’intuizioni e di rivelazioni, sull’orizzonte dell’esistenza, la quale non si fa possedere mai sino in fondo, in quanto resta irriducibile a una parola esauriente. L’esistenza umana, infatti, è terreno della libertà; e, come tale, non si fa comprimere; soprattutto quando si tratta della “mia esistenza”, storicamente identificata, inconfondibile e singolare. Nessuno, infatti, è copia di un altro; per cui scoprirsi è la più grande conquista personale, che ci permette sia d’entrare nel territorio del significato e del senso, e sia di comunicare i nostri valori agli altri. L’uomo che si conosce consegna un sapere prezioso, che arricchisce ciascuno e collabora alla trama della storia; anche se bisogna guardarsi da eventuali distorsioni o travisamenti del pensiero, che alterano gli sviluppi, producono malintesi e inquinano i rapporti con la realtà e con la sua interpretazione.

mercoledì 25 febbraio 2009

LA DISUGUAGLIANZA PSICHICA E MORALE

Si rivendicano di solito – e a giusta ragione - le varie forme di “uguaglianza” sociale, economica, civile, giuridica. E lo si fa sempre – correttamente - in nome dell’uguale dignità d’ogni persona umana. Per queste rivendicazioni spesso si fa appello a una “natura comune” a tutti gli esseri umani; talora s’invoca anche un “destino ultraterreno comune” a tutti gli uomini, sia esso sperato sulla base di razionali convincimenti filosofici oppure sia esso conquistato con l’accoglimento di particolari credo religiosi. Tutti atteggiamenti, questi, degni e legittimi; anzi, tutte espressioni importanti e determinanti tanto per i singoli uomini quanto per comunità e popoli interi.
Desta, però, non poca perplessità il fatto che frequentemente rimane trascurata una forma di disuguaglianza, che a nostro avviso costituisce una minaccia terribilmente pericolosa per la vera e reale uguaglianza tra gli uomini: si tratta della minaccia rappresentata dalla disuguaglianza, che noi vorremmo denominare “psichica e morale”. Con questo non si vuole affermare che tutti gli uomini siano “naturalmente” dotati d’un’uguale personalità e d’uno stesso sentimento morale; anche perché sull’opinione di una natura umana predefinita, intesa quale fonte primaria ed immutabile di diritti e doveri, sarebbe necessario soffermarsi, per vagliarne l’autorità e la validità. Si vuole solo sostenere che nella realtà anche quotidiana si consumano forme disumane e brutali di disuguaglianza, che si alimentano e si sviluppano nel segreto dell’intimità del proprio animo, tanto irrilevanti per gli altri quanto lancinanti per chi ne è succube.
E questo accade nella concretezza dell’esistenza reale d’ogni singola persona: ed è solo ponendoci all’interno di questa realtà concreta, e non già proiettando su di essa le nostre preferenze ideali e morali, che possiamo individuare gli elementi che determinano simili drammatiche situazioni di estrema frustrazione esistenziale e morale.
Qualunque forma di disuguaglianza “esteriore”, infatti, ha forti ripercussioni e strascichi nell’animo umano: chi ne rimane intimamente offeso, soffre in penoso silenzio forme di triste isolamento, trovando difesa solo nella solitudine più intensa nell’intimità della sua anima, dove solo può raccogliere tutto il suo spirito.
Si tratta di situazioni che segnano profondamente l’animo dell’uomo sin dalla sua più tenera età e fino alla conclusione della sua vita. Bambini che, durante le visite formali di amici e parenti, sono costretti a confrontarsi con amichetti meglio vestiti e più curati. A quell’età nessun bambino ha meriti o colpe: il più abbiente non s’accorge d’essere origine di atroci sensi d’inferiorità, che costringono il meno favorito dalla sorte a “viversi” inferiore! Quest’ultimo, però, ne rimane marchiato, e sarà condannato a forme sottili d’impotenza sociale e d’inferiorità morale. Si sentirà sempre “meno” d’ogni altro, si vivrà sempre come incapace d’altro…; lotterà contro il mondo, che lui sentirà sempre più come qualcosa di superiore e più forte, contro il quale pensa gli sia impossibile lottare, perché lui è stato “destinato” a essere “secondo” o addirittura “ultimo”, e comunque sempre “inferiore”.
E, nell’ambito più strettamente familiare, quanta pungente sofferenza causano certe “battute”, ironiche o scherzose, da parte di alcuni maldestri genitori, che con indifferente leggerezza e disarmante superficialità valutano e giudicano i figli, ponendoli in fastidioso e irritante paragone tra di loro! Come se ogni persona umana, anche se della medesima famiglia, non fosse una realtà del tutto autonoma e irripetibile, segnata da una storia che solo essa può e deve decidere e realizzare, seguendo i dettami della sua imperscrutabile coscienza.
E, nell’ambito della scuola, quante “frecciate” incancellabili vengono lanciate da chi deve essere educatore, ma che talora si fa vincere da sentimenti di malevolenza verso i meno dotati e di nociva predilezione verso chi è (ma spesso appare soltanto) meglio dotato e più incline allo studio.
Queste ed altre sono tutte situazioni, che per lo più sfuggono alla normale osservazione della vita quotidiana, ma che lasciano segni indelebili, causando ferite che rimarranno sempre aperte e condizioneranno la stessa qualità della vita d’ogni uomo. Sino a coinvolgere ogni sua scelta di vita: dalle meno importanti alle più incisive e determinati. E tra queste non vanno escluse le modalità d’intendere e di vivere i rapporti interpersonali, compresi quelli da instaurare con la persona, con la quale si vorrebbe condividere totalmente la propria esistenza almeno terrena.
La disuguaglianza “psichica e morale”, quindi, assume un ruolo di estrema importanza nella vita dell’uomo: fortunato chi non sarà condannato a esserne vittima, e fortunato anche chi non dovrà mai rimproverasi di esserne stato causa!
Quanta inutile dolorosa fatica e quanto inutile spreco di energie per il mondo stesso! Fatica ed energie del tutto negative: senza quella fatica, infatti, si espanderebbero tante energie creative e costruttive; e senza quello dispendio di vitalità il mondo sarebbe più ricco e più pieno.
Disuguaglianza psichica e morale, che tormenta gli spiriti più pensosi e le anime più sensibili per l’intero corso della loro vita, con esiti talora imprevedibili. Certo. Perché gli altri o sono superiori o tali si stimano, e come tali si comportano, gettando fumi di frivolezze e di superficialità. Quindi, è proprio nelle persone psicologicamente e moralmente disuguali che si nascondono spesso doti rare di sensibilità, d’intelligenza, di sentimento, d’intuizione. E spesso, nella vita reale, sono proprio queste persone “perennemente frustrate” che risultano i veri vincitori, che, invidiabili, trionfano su tutto e su tutti, grazie proprio alla solitudine della loro esistenza: esse s’imponendosi – con riservatezza ma anche con risolutezza - nei vari campi della produzione autenticamente culturale: della letteratura, quale espressione genuina di sentimenti talora ignoti ai più; della musica, quale creazione di armonie profondamente umane; del teatro, quale estrinsecazione delle più recondite problematiche dell’uomo; della filosofia, quale ricerca di verità sempre più vaste e più nuove; della definizione di diritti sempre nuovi, quale processo doloroso di autocorrezione, grazie al quale si realizzano la massima concentrazione e la massima diffusione della dignità della persona.
C’è da rimanere stupiti di fronte a tanti e stupendi frutti, che vengono generosamente donati dalla sofferenza dell’uomo, che, vittima spesso dei propri simili, vive sempre e solo preoccupandosi di rendere più “bella” l’intera famiglia umana. Ma – ci chiediamo pure - è del tutto inevitabile questa forma di disuguaglianza?