Il Tempo, in sé fluire di momenti transeunti che vanno accolti, si apre a un "oltre" custode Eterno di valori trascendenti che vanno abitati. Vicende e realtà tendono alla suprema fusione nell'infinita Totalità, anima di ogni Speranza.

sabato 13 dicembre 2008

L’ANIMO UMANO. L’INTIMITA’ CHE TUTTO REALIZZA E TUTTO SALVA

L’animo umano, nella sua più profonda intimità, è lo scrigno più prezioso, più sicuro, più impenetrabile, più sacro che è dato in dote a ciascun uomo. Esso non è ciò che chiamiamo coscienza, e che spesso riduciamo a burbero censore o a scomodo contenitore di comandi e di veti. E non è nemmeno ciò che chiamiamo “anima”, e che spesso intendiamo come un supplemento aggiunto alla natura propria dell’essere umano, che così diverrebbe prodigiosamente partecipe di realtà superiori destinate a vite più eccelse senza tempo e senza spazio. L’animo umano è l’essere sostanziale d’ogni individuo, la sua vera essenza esistente e vivente in sé e per sé, nella sua singolarità totale. E’ l’animo che rende l’esistente umano (che in sé e per sé è individuale e contingente) partecipe della Totalità somma dell’unico Essere infinito: quell’Essere che tutto comprende e tutto accoglie; che tutto realizza e tutto esprime; che tutto verifica nell’assoluta trasparenza immediata della verità immortale; che da nessuno e da nulla può essere contraddetto, perché è esso stesso la verità; che mai viene meno, mai dubita, mai tradisce; quell’Essere totale che nessuno e nulla può ingannare. Quell’Essere, la cui partecipazione appaga l’uomo, la cui comunione ne lenisce le sofferenze esistenziali, la cui unione gli dona i primordiali impulsi di speranza nel futuro e di tensione verso le dimensioni vere della realtà, fatte di pienezza massima e di sintonia perfetta.
L’intimità dell’animo umano, poi, è il tabernacolo sacro, nel quale rimangono scolpiti indelebilmente tutti i pensieri, tutti i desideri, tutti i sentimenti, tutti gli eventi che scandiscono l’intero itinerario dell’esistenza di ciascun individuo. Solo nell’intimità dell’animo umano si conservano, quindi, tutti i segreti veri, che nessun altro essere conoscerà mai; sono quei segreti intimi, che tali rimarranno in eterno: molti presumeranno di indurne cause ed effetti, altri presupporranno di intuirne la natura, ma nessuno ne conoscerà veramente la vera natura.
E’ qui, in questo sacro scrigno, che ci si deve rifugiare, se si vuole veramente stare al riparo da indiscrezioni invadenti e da curiosità interessate; e soprattutto se si vuole vivere davvero la totalità della propria anima. Nell’intimità dell’animo umano gli ”altri” saranno sempre degli estranei molesti, ai quali sarà negata qualunque condivisione e per i quali rimarrà serrato qualunque spiraglio: in essa trova sicuro rifugio la totalità dell’uomo, che avverte il rischio di perdersi nel caos delle attività quotidiane e nel ginepraio delle relazioni sociali. Nell’intimità dell’animo il singolo io raccoglie tutto il proprio spirito, autopossedendosi e vivendosi in tutta la sua totalità e, soprattutto, nella sincera totale trasparenza di sé a se stesso.
In quest’intima meditata conversazione con se stessi cessa ogni equivoco, si dilegua ogni dubbio; non ha ragion d’essere alcun mediatore, alcun traduttore. Si fuga ogni resistenza: tutto lo spirito si scioglie in se stesso e s’abbraccia, comprendendosi.
Solo allora l’uomo si ama davvero, perché solo allora conosce la vera essenza del suo pensiero, del suo agire, del suo sperare, del suo angosciarsi, del suo odiare, del suo stesso amare e amarsi. Allora si pacifica con se stesso, con tutto se stesso: possiede la pace che nessuno può turbare, gode dell’appagamento che nessuno può intaccare, riconquista la purezza originaria che nessuno può più contaminare né tanto meno dissacrare.
E allora, diventa sopportabile anche il mondo degli altri, benché fatto di banalità, di ipocrisie, di invidie, di cattiverie. E il mondo diventa sopportabile, anche perché esso diventa e si rivela più banale e più vuoto.
Custodire l’intimità del proprio animo vuol dire salvare la propria vita: salvarla dalla dissipazione, dalle frivolezze, dalle contese, dal pettegolezzo. Tutte queste negatività ci saranno e continueranno a esserci e a farsi sentire; ma per chi conserva e coltiva l’intimità del suo animo, proteggendola fino al sommo sacrificio di abnegazione e di generosa empatia, è come se esse non ci fossero, perché non penetrano né penetreranno nello scrigno ben custodito della propria anima.

lunedì 10 novembre 2008

EDUCAZIONE ALL’ INVECCHIAMENTO

La “geragogia” (termine usato per la prima volta nel 1973 da Angiolo Sordi) oggi non è solo un’autonoma scienza teorica con un proprio oggetto di ricerca, ma è anche una forte esigenza reclamata dalla dignità della vita dell’uomo tanto nella limitata dimensione del singolo individuo quanto nelle più vaste relazioni della società umana. La geragogia, infatti, è la branca della gerontologia, che si propone di trovare, studiare e proporre un insieme organico d’insegnamenti volti al perseguimento d’un’organica educazione all’invecchiamento, quale preparazione per una vecchiaia attiva e vitale.
Si sa che nel futuro (che in alcuni aspetti si sta già vivendo) vi sarà un numero sempre maggiore di persone, che invecchieranno in maniera migliore sia dal punto di vista fisico che psichico; e tuttavia, però, con la sola triste previsione di vivere da “pensionati” per un numero considerevole di anni, talora notevolmente maggiore che nel passato.
Ora, non è concepibile che questi “nuovi anziani” siano destinati a vivere un periodo ragguardevole di vita senza un proprio ruolo sociale ben definito e connotato da idoneità reali. Non solo non è concepibile, ma è addirittura disumano e funesto, perché un uomo senza un ruolo autonomo di valori veri è necessariamente destinato all’emarginazione e, quindi, all’isolamento. E’compito primario della geragogia, quindi, chiedersi quale ruolo o funzione possa e debba avere l’anziano di oggi nelle strutture della società contemporanea, che cambia con ritmi vertiginosi, provocando numerosi meccanismi emarginanti.
Le trasformazioni degli ultimi decenni, infatti, hanno certamente generato non pochi benefici, ma hanno anche causato situazioni sfavorevoli, che hanno interessato i più deboli e in primo luogo gli anziani. L’industrializzazione del lavoro non ha bisogno più della creatività del singolo, perché si basa esclusivamente su lavori meccanizzati, ripetitivi e legati alla produttività e all’efficienza (quando non alla carriera): l’obiettivo primario è maggiore ricchezza e maggiore prestigio sociale; e quello che serve è una conoscenza operativa, bisognosa sempre e solo di nuovi aggiornamenti tecnici e metodologici. Non c’è alcun posto per l’esperienza acquisita (magari nel corso d’un’intera vita) anche come patrimonio di valori. Quell’esperienza propria che detiene l’anziano.
Anche il modello di famiglia “nucleare” è incapace di proteggere e valorizzare le potenzialità degli anziani, in quanto – data, appunto, la struttura del lavoro industrializzato – non ha la possibilità di accoglierli nel suo interno e tanto meno di garantire loro una qualche forma di assistenza.
L’età della pensione coincide con l’inizio di un ruolo improduttivo dal punto di vista economico e sociale: lo stabiliscono norme giuridiche, anche se a decidere (liberamente?) il passaggio dalla produttività all’improduttività è ciascun individuo.
Volendo esprimere questa realtà con espressione forse brutale, ma vera, si potrebbe dire: la vecchiaia, un tempo età di saggezza venerata e tenuta in gran conto per le sue potenzialità “produttive” in termini di guida, ora è sostanzialmente età d’attesa che la vita finisca, cessando di essere un peso per gli altri e un tormento per se stessi, condannati all’isolamento e all’emarginazione.
La geragogia si faccia carico di questi aspetti umani e, affrontando indagini impietose sulla realtà effettiva del vecchio oggi, fornisca indicazioni “oggettive” per un’adeguata educazione all’invecchiamento degno dell’uomo.

domenica 26 ottobre 2008

LA VITA E’ UN “LUNGO SOGNO”

Arturo Schopenhauer, seguendo il pensiero di Kant, sostiene che la “realtà”, rimanendo sempre inconoscibile in sé, si rivela solo come rappresentazione del soggetto. Per questo diventa molto difficile distinguerla dal sogno. Scrive, infatti:

“Noi abbiamo sogni; non è forse tutta la vita un sogno? – o più precisamente: esiste un criterio sicuro per distinguere sogno e realtà, fantasmi ed oggetti reali? – L’addurre la minor vivacità e chiarezza dell’immagine sognata rispetto a quella reale non merita alcuna considerazione; dato che nessuno ancora ha avuto presenti contemporaneamente l’uno e l’altro per confrontarli, ma si poteva confrontare soltanto il ricordo del sogno con la realtà presente. Kant risolve cosí il problema: “Il rapporto delle rappresentazioni fra di loro secondo la legge della causalità distingue la vita dal sogno”. Ma anche nel sogno ciascun particolare dipende parimenti in tutte le sue forme dal principio di ragione, e questo si rompe soltanto fra la vita e il sogno e fra i singoli sogni. La risposta di Kant potrebbe, quindi, essere formulata cosí: il lungo sogno (la vita) ha in sé connessioni costanti secondo il principio di ragione, ma non le ha coi sogni brevi; sebbene ciascuno di questi abbia in sé la stessa connessione: fra questi e quello è dunque rotto il ponte, e in base a ciò si distinguono tra loro.
(...) L’unico criterio sicuro per distinguere il sogno dalla realtà è in effetti quello affatto empirico del risveglio, col quale in verità il nesso causale fra le circostanze sognate e quelle della vita cosciente viene espressamente e sensibilmente rotto.
(...) Calderon infine era preso cosí profondamente da questo pensiero, che cercò di esprimerlo in un dramma, che in un certo modo è metafisico: La vita è sogno.
Dopo tutti questi passi di poeti sarà concesso anche a me di esprimermi con una similitudine. La vita e il sogno sono le pagine di uno stesso libro. La lettura continuata si chiama la vita reale. Ma quando l’ora abituale della lettura (il giorno) è terminata e giunge il tempo del riposo, allora noi spesso seguitiamo ancora pigramente, senza ordine e connessione, a sfogliare ora qua ora là una pagina: ora è una pagina già letta, ora una ancora sconosciuta, ma sempre dello stesso libro. Una pagina letta cosí isolatamente è, invero, senza connessione con la lettura ordinata: tuttavia non rimane molto indietro a questa, se si pensa che anche il complesso della lettura ordinata comincia e finisce parimenti all’improvviso, e si deve, quindi, considerare solo come un’unica pagina piú lunga.
Anche se, dunque, i singoli sogni sono distinti dalla vita reale in quanto non entrano in quella connessione dell’esperienza, che costantemente continua per tutta la vita; anche se il risveglio rivela questa differenza; tuttavia è proprio quella connessione dell’esperienza che già appartiene, come sua forma, alla vita reale ed il sogno stesso mostra anch’esso una connessione, che si trova a sua volta in se stesso. Se, dunque, per giudicare scegliamo un punto di riferimento esterno ad entrambi, non troviamo nella loro essenza nessuna distinzione precisa e siamo, così, costretti a concedere ai poeti che la vita è un lungo sogno”. (A. Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione, I, 5).

Cos’è la realtà? Cos’è il sogno? Cos’è la vita? Tre domande che resteranno sempre senza una risposta certa. Ciascuno vede – e lo fa con estrema lealtà – la “sua” realtà e, se non intende oltrepassare i limiti dell’onestà intellettuale, non ne formula ipotesi interpretative, senza dubbio rispettabili, ma comunque prive di fondamento valido. Ciascuno elabora i “suoi” sogni, che, a differenza dei progetti, che sono qualcosa di inesistente che si vuol portare alla realtà (e, si solito, vengono partecipati ad altri senza alcuna remora), sono elaborazione positiva del proprio esistere (e, di solito, vengono tutelati all’ombra pudica del proprio lato intimo).
La vita, allora, è l’unione di realtà e sogno, cioè di razionalità umana (realtà) e di umanità integrale (sogno): la prima non deve soffocare la seconda, perché ne resterebbe annichilita la vita intera; la seconda non deve misconoscere la prima, perché ne uscirebbe gravemente mutilata la totalità dell’essere umano. Tutto – reale e sognato - è proiezione del singolo soggetto; ogni pretesa di possedere qualcosa come “reale oggettivo” è debolezza umana incapace di accettare e rimanere nei limiti umani; ogni tentativo o desiderio d’imporre ad altri il proprio modo di vedere è presunzione pericolosa, che oltraggia la libertà e la dignità della coscienza altrui.
I poeti definiscono la vita un “lungo sogno”. Parafrasando Schopenhauer, noi diremo che la vita è un libro unico, più o meno voluminoso, composto da tante pagine, sulle quali vengono scritte tante vicende “reali” e “sognate”: belle e brutte, felici e tristi, volute e fortuite. Le pagine, se lette isolate, perdono il proprio senso vero, autentico e compiuto; ma acquistano tutto il loro significato nell’ essere lette e intuite nel loro insieme. Così è la vita umana: è realtà d’ogni momento programmato e vissuto, ed è, insieme, sogno d’ogni istante covato e protetto. Il loro intrecciarsi tessono la vita d’ogni uomo, che sappia e voglia leggere l’intero volume della sua esistenza, con coraggio e senza paura di riconoscere e abbracciare l’intera sua scrittura.

mercoledì 22 ottobre 2008

L’UOMO E IL TEMPO: RAPPORTO DIALETTICO O SINCRONICO

Il tempo scorre, o meglio, fluisce. Ma non passa. Ora, lo scorrere e il fluire del tempo sono evidenze così forti che non necessitano di alcuna dimostrazione e, del resto, s’impongono come realtà così solide che non possono essere mai oggetto né di dubbio né di contestazione. Tuttavia, tentare di definire che cos’è il tempo (che non passa, ma che, comunque, scorre e fluisce) sembra impresa non solo difficile, ma addirittura impossibile. Lo stesso Agostino d’Ippona confessò di sapere molto bene cosa fosse il tempo, ma di essere assolutamente incapace di spiegarlo, appena ne fosse richiesto.
In una prospettiva negativa, si potrebbe dire che il tempo è l’insieme delle tre dimensioni del ”non-esserci” o, se si vuole, del “nulla”, cioè del passato, del presente e del futuro. Il passato, infatti, non c’è più; il futuro non c’è ancora; e il presente è l’attimo fuggente, nel quale il futuro “scorre” o “fluisce” nel passato. Il presente, quindi, è il passaggio - cioè, lo “scorrere”, che noi definiremmo meglio l’inarrestabile precipitare - della dimensione del “desiderio” nella buia voragine della dimensione della “memoria”. Una prospettiva negativa, questa, che apre le porte all’angoscia e alla disperazione; ma una prospettiva comunque razionale, che, consapevolmente o meno, viene teoreticamente accolta da non pochi pensatori, e viene praticamente fatta propria da numerosi uomini di età anche piuttosto giovane.
In una prospettiva positiva, il tempo è la solida realtà costruita e strutturata dall’operosa razionalità degli uomini. Ciò nonostante, anzi proprio per questo, il tempo chiede e pretende sommo rispetto da parte degli uomini. E’ l’uomo, infatti, che intesse e struttura la sostanziale realtà del tempo; ma, se egli, simultaneamente, non lo rispetta nel suo inarrestabile scorrere, perde inesorabilmente la propria battaglia. L’uomo, allora, non avanza e non cresce, anche se, paradossalmente, s’illude che questa sua non-crescita siano prudenza fruttuosa e saggezza pratica, grazie alle quali egli ritiene di dominare e governare il tempo. E non s’accorge, invece, – o non vuole riconoscere e accettare – che il tempo scorre e fluisce sempre e comunque, e che è lui che ne rimane schiacciato e annichilito. Senza sincronia con il tempo l’uomo rimane ombra senza significato, che o girovaga nei meandri d’un passato che ormai non incide per nulla nella storia, oppure volteggia nelle sfere eteree d’un futuro sempre vagheggiato come oggetto di pura speranza. In entrambi i casi egli non è che un leggero fuscello passivamente trascinato dalla corrente d’un fiume ora calmo ora irruente, ma in continuo movimento. E va avanti così, vivendo nella perenne illusione di condurre un’esistenza viva, valida e potente. L’uomo autentico, invece, vive rimanendo nel tempo, anche se non si riduce mai a un momento del tempo.
Il tempo – e Immanuel Kant ne è uno dei sommi cantori – non è un qualcosa di esterno all’uomo, in cui egli deve vivere e operare, ma è la struttura costitutiva dell’esistenza stessa dell’uomo. La vita umana, quindi, è tempo; la vita di ciascun uomo coincide con il “suo” tempo: e la vita è sempre il presente, che simultaneamente vivifica anche il passato e porta in vita il futuro. Se la vita è presente, non è, però, attimo destinato a “passare”, bensì momento, che s’estende in quel perenne fluire, che comprende ogni dimensione reale: il tempo è estensione illimitata e profonda e, nello stesso tempo, profondità che s’estende sino ai confini dell’infinito. Il tempo è vita, così come la vita è tempo: simultaneità d’ogni dimensione esistenziale.
Non è di particolare interesse – dal nostro punto di vista - conoscere o verificare se il tempo abbia una dimensione oggettiva, che, comunque, non sembra fuori posto accogliere come ipotesi interpretativa o come opportunità pratica. E’ indiscutibile, ad esempio, che, quando due o più persone cominciano a vivere insieme, sorge la necessità di un mezzo convenzionale di misurare il tempo, che permetta a ogni individuo di partecipare con razionalità e coerenza alla vita sociale del gruppo; senza una misura ‘oggettiva’ di tempo, quindi, nemmeno la società umana può esistere; ma senza la società umana non esiste civiltà; la misura oggettiva del tempo, allora, condiziona lo sviluppo stesso di una civiltà.
E’ da tutti condivisibile, però, che il tempo è un’impressione soggettiva e personale, per cui l’uomo ha coscienza del tempo. In questa prospettiva, pertanto, il senso della vita umana e il tempo coincidono: il segmento d’ogni esistenza umana, cioè, comprende un ben delimitato periodo di tempo, che “fluisce” nell’indeterminato “scorrere” del divenire cosmico. Incessante perfetta autonoma sincronia, che concretizza e compie l’essere di tutta l’umanità e di tutto il mondo: Il divenire della vitalità del cosmo, l’evoluzione dell’intero regno dei vegetali e degli esseri senzienti, il lento modificarsi biologico del corpo umano, la maturazione della coscienza degli uomini grazie all’esperienza individuale e collettiva, l’arricchimento e la crescita globale della qualità d’ogni forma di vita fino all’approssimarsi della consumazione del tempo. Evoluzioni, maturazioni, crescite che scorrono e fluiscono, ma non passano. Basta estendere a tutta la realtà la bella immagine, con la quale Francesco Bacone raffigura la realtà del cammino della scienza: ogni segmento temporale è un minuscolo nano seduto sulle spalle di un gigante.
Ci sembra questa l’essenza della contemporaneità autentica: non il vivere nello stesso periodo di tempo, bensì il pulsare simultaneo la medesima totalità della realtà dell’uomo e del mondo. Contemporaneità significa identità in empatia di idee, di pensieri, di sentimenti, di nostalgie, di speranze, di progetti, di sogni. Insomma, di desideri. Il ritorno al fascino del desiderio è uno degli elementi chiave della felicità, poiché il desiderio è ciò che ci attrae oltre a noi stessi; è voler ottenere qualcosa che non abbiamo, voler conoscere cose ancora sconosciute, entrare in relazione con l’inedito della vita. Il desiderio è aspirazione a un crescere illimitato: cioè, è fluire e scorrere della vita vivente.
Popoli ‘contemporanei’ sono, dunque, quelli sospinti dalla medesima sincronia di valori e di finalità; e civiltà ‘contemporanee’ sono quelle animate dai medesimi pensieri e dal comune sentire. Anche per la vita dei popoli e delle civiltà, contemporaneità è condivisione sincronica in perfetta empatia.
Massima espressione e realizzazione di questa “sincronia totale” è insita nelle scelte vere di “amore” tra gli uomini, e tra gli uomini e la natura. Sincronia d’amore significa assoluta assenza d’ogni elemento anche di egoismo e di altruismo. Egoismo e altruismo sono situazioni contaminate da estraneità e da dualità; sincronia, invece, è identità che intona e canta inni di sublime intimità umana. Nell’egoismo e nell’altruismo si nascondono (o possono nascondersi) secondi fini spesso camuffati da sollecitudine e generosità; nella sincronia c’è solo fusione totale, che, se raggiunta, niente e nessuno potrà mai più né deturpare né scindere, poiché è fusione reciproca, che coinvolge il complesso essere umano: corpo, sentimenti, parole, pensieri. Per questo dovrebbe stare alla base d’ogni relazione anche della società.
Il tempo, inteso e vissuto secondo queste dimensioni, consente all’uomo di penetrare e intuire il mistero dell’animo umano sia come individuo singolo sia nelle relazioni interpersonali. La dimensione più intima dell’uomo è inattingibile; ma non quando l’uomo è capace di raggomitolarsi su se stesso in profonda intensa penetrazione del suo esistere. Allora vivrà la sincronia con il Tutto: assaporerà (forse) l’acre sapore dell’amara sofferenza sempre mista alla dolce essenza di felicità nascosta. E’ una profonda comunicazione silenziosa, ma totale, di sé a se stessi. E’ il vero tempo esistenziale: momento in cui si pensa solo a se stessi, in cui si vive il proprio passato e il proprio futuro, ma nell’attimo del presente. Infatti, ciò che è stato fatto rimane integro e reale nel presente, e ciò che si progetta per il futuro è il contenuto del desiderio. Il tempo sincronico è, quindi, tempo di pieno autopossesso concreto: non c'è spazio per estraneità e nemmeno per dualità; c’è posto solo per le dimensioni dell’amore vero, cioè per ogni realtà che s’è fusa in unità inscindibile, sempre inviolata da qualunque forma di distinzione egoistica o di sublimazione altruistica. Nel rapporto sincronico con il tempo non ci sono realtà che s’oppongono e si superano, come accade nel rapporto dialettico, ma realtà che s’uniscono e si fondono in dimensioni di mistero intuibili solo dalle anime coraggiose e coerenti. Nel rapporto sincronico con il tempo l’uomo compie salti contro ogni ragione, ma secondo la totalità del cuore; decide scelte contro ogni buon senso, ma secondo l’integra totalità dell’animo. Salti audaci e felici, scelte avventate e fortunate, speranze senza confine e talismano sincero.
Il tempo, allora, è un’impressione soggettiva e personale; la sincronia è empatia totale e incondizionata. Il rapporto sincronico dell’uomo con il tempo è il rapporto che realizza il senso dell’esistenza e dà ragione al fluire dell’intero cosmo.

martedì 7 ottobre 2008

C'è FUTURO PER LA RIVOLUZIONE PROMESSA? QUARANT'ANNI DOPO IL '68.

Sta per concludersi l’anno 2008: anno che ha visto pubblicazioni, dibattiti, forum e persino “festival del pensiero” sul significato e l’eredità dell’ormai piuttosto lontano 1968, di cui s’è voluto “commemorare” la ricorrenza del quarantesimo anniversario.
Si rimane alquanto impressionati dal fatto che i maggiori e più assidui protagonisti di tutto questo fermento di opinioni e discussioni – talora fondate e ben articolate, talora suggestive ed astratte, talora fuorviate da preconcetti e ideologie – siano stati donne e uomini ora ultrasessantenni, e allora, quindi, più o meno ventenni. Sembra anche particolarmente significativo il fatto che quasi tutti questi protagonisti dei mezzi di comunicazione occupino attualmente posti di rilievo nei campi della politica, dell’economia, dell’accademia: insomma quelli che in genere sono considerati posti di comando e di governo: destinati, cioè, a imprimere la direzione alla storia dell’uomo e a irrompere nel corso della stessa natura biologica e fisica. Posti di governo, ovviamente, e non di potere! Almeno così s’affannano a puntualizzare. Cioè, posti di servizio verso l’uomo e la natura e non di dominio e di sfruttamento, di spirito di solidarietà umana e sociale e non di tatticismo di gestione aziendale e finanziaria.
Si tralascia di avanzare considerazioni nei confronti del mondo delle religioni: voluminosi compendi di articoli di fede proposti e più spesso imposti; strutture granitiche di chiese saldamente organizzate spesso in atteggiamento di autodifesa; dialogo da tutte ostentato, ma da quasi nessuna desiderato e tanto meno realizzato; connubi ibridi con i vari poteri dominanti, ovviamente - almeno a loro dire - al fine di “salvaguardarli” dall’errore e “guidarli” per la strada giusta. Tutto, certamente, nella fedeltà allo spirito della loro specifica vocazione e della loro peculiare missione, ma anche in conformità alla concretezza quotidiana imposta loro dalla necessità di agire nel tempo e nella storia; anche se non sempre, forse, hanno difeso, garantito e testimoniato le priorità vere dell’integralità delle dimensioni della persona umana. Si tralascia questo discorso, in quanto si oltrepasserebbero i limiti dell’antropologia e della sociologia e si sfonderebbe nel labirintico terreno della teologia e dell’etica. E il nostro interesse, invece, rimane sul più modesto e concreto campo dell’uomo storicamente vivente nelle proprie particolari irripetibili dimensioni individuali, che sono – almeno per noi - la più pressante urgenza per l’esistenza dell’uomo.
A questo livello il movimento del ’68 è stato l’intrecciarsi di almeno tre rivoluzioni: della coscienza, dell’economia e della politica. Il loro insieme ha determinato un vasto e profondo mutamento culturale: si eliminano alcune umilianti differenze tra esseri umani partecipi della stessa natura. Le donne, infatti, possono disporre della propria intelligenza e del proprio corpo, ponendoli al servizio delle finalità oggettivamente assegnate loro anche dalla natura e dalla storia; i lavoratori, poi, possono aprire bocca e rivolgere la parola al “padrone” non solo per il dovuto servile ossequio, ma anche per esprimere la propria idea e rivendicare alcuni loro diritti fondamentali; tutti i cittadini, inoltre, ottengono l’esercizio del diritto alla salute del proprio corpo e della propria mente, passando dal ruolo di “pazienti” ubbidienti al ruolo di soggetti attivi, degni d’essere informati e capaci anche di decidere secondo la propria scienza e coscienza sul destino reale della propria vita.
La parola magica, poi, fu: “I segni dei tempi”. Anche le culture più conservatrici si piccavano d’ostentare la loro capacità d’interpretare i segni dei tempi e di muoversi secondo le nuove esigenze storiche da essi dettate. Il tempo e la storia, intessuti dall’azione dell’uomo, erano ora realtà che l’azione dello stesso uomo poteva e doveva orientare con ragionevolezza. Non erano, quindi, la morsa che attanagliava l’uomo e lo determinava in ogni suo pensiero e in ogni sua azione, né d’altra parte l’uomo era il titano che abbaiava meschinamente alla luna delle necessità storiche. Nasceva il dialogo tra la storia e la libera scelta dell’uomo, che doveva decidere, all’interno delle concrete proposte della storia, quale itinerario intraprendere e quali ulteriori obiettivi raggiungere, sia a livello individuale e sia anche collettivo, essendo egli attore del suo destino e coattore delle vicende dell’intera umanità.
Il ’68, quindi, voleva scardinare i rapporti, su cui si fondavano le strutture sociali, economiche e morali della vita borghese del tempo. Anche se poi, nella realtà dei fatti, ci fu una sostanziale restaurazione del vecchio in ogni parte, tanto in ovest che ad est. Non è difficile riscontrare ed elencare nomi di persone, che divennero poi uomini di governo. Ma non è nemmeno difficile riscontrare ed elencare nomi di persone, che divennero uomini di potere, spesso contro i diritti conquistati proprio dal movimento culturale del ’68. E che contribuirono a ricreare una “situazione di guerra”, polemizzando contro tutto e contro tutti indiscriminatamente. Essere polemico, infatti, significa andare contro qualunque cosa o persona s’incroci nella propria strada o si presenti nella propria vita, e che rivendichi - con legittima e doverosa esigenza personale - una propria identità. Il polemico non riconosce e non accetta qualunque diversità, perché la vede un pericolo mortale contro la sua smania di omologazione, che diventa spesso mania d’onnipotenza. Chi fa sempre polemica, in sostanza, è un “idiota”: capace di vedere solo se stesso e tutto ciò che gli somiglia, e incapace di riconoscere le infinite diversità, che, se accettate, lo farebbero non solo più ricco e più bello, ma soprattutto più uomo. La natura dell’uomo, infatti, sembra essere aperta all’indefinito, per cui non possono esserci realtà, per quanto diverse, che potrebbero impoverirlo e limitarlo. Chi si apre alla diversità accresce se stesso e tutti gli altri.
Intristisce l’animo, poi, il vedere come la negazione delle diversità e il perseguimento dell’omologazione a tutti costi – cioè esattamente il contrario della rivoluzione tentata e iniziata dal movimento del ’68 - vengano fatti in nome d’un diritto e d’un’etica sociali fondati sulla “democrazia” e sulla “economia” d’ultima generazione: quelle, cioè, che riconoscono come unico valore reale il libero mercato per le concentrazioni economiche e l’accumulo di capitali. Nascono le società, allora, nelle quali tutto ha un prezzo, ma nessun valore. E la persona umana perde ogni dimensione di reale dignità, divenendo un pezzo di una struttura produttiva, vero fine e senso del vivere dell’umanità. Alla massa si sostituisce l’individuo: ed è difficile stabilire quale delle due ideologie sia più nemica dell’uomo.
Ecco, allora, la domanda che ci poniamo: c’è un futuro per la rivoluzione promessa? E non sembra estemporaneo ricorrere alla fiducia razionale che affonda le sue radici nel messaggio morale ed etico di Immanuel Kant: l’ideale, in quanto ideale, non potrà mai trovare ospitalità nella vita reale, perché il suo senso è di rimanere nel cielo del possibile raggiungibile; la realtà, d’altro canto, non può affidarsi al gioco di presunte mani invisibili, ma deve mirare a realizzare consapevolmente e il più possibile il senso dell’ideale, che indica la direzione della giustizia e della libertà.
Fuori da questa speranza fondata sull’umana ragione, è molto difficile trovare fiducia per un futuro che voglia dirsi ed essere degno della dignità dell’uomo.

sabato 31 maggio 2008

SPIRITUALITA' FRANCESCANA NELL'ESPERIENZA EREMITICA DI DON QUINTINO SICURO

SOMMARIO
1. Premessa
2. La spiritualità francescana è “postmoderna”
3. Don Quintino e la spiritualità francescana
4. Il francescanesimo di Don Quintino affascina, interroga, orienta


1. Premessa

Papa Giovanni Paolo II, nel 1982, in occasione della celebrazione della memoria dell'ottavo centenario della nascita di san Francesco d’Assisi, inviò al mondo una sua lettera pastorale, che pensò bene di aprire con le parole con cui Tommaso da Celano (primo biografo del poverello d’Assisi) aveva presentato il Santo:
“Splendeva come stella fulgida nel buio della notte e come luce mattutina diffusa sulle tenebre”
Proseguendo un suo precedente discorso del 1981, inviato per radio ai numerosi membri delle quattro famiglie francescane, alle religiose e a quanti altri seguivano le orme del padre serafico, il Sommo Pontefice mise in luce alcuni punti particolarmente significativi della spiritualità francescana, esponendo le novità che essa sembrava e sembra ancora offrire agli uomini anche del nostro tempo.
Il Papa, infatti, usando le parole di frate Masseo (uno dei primi compagni del poverello), rivolge al santo la stessa domanda del buon confratello: "Perché a te tutto il mondo viene dietro?", e risponde così:
“gli uomini ammirano e amano il santo d'Assisi, perché vedono realizzate in lui, in maniera esemplare, quelle cose alle quali essi maggiormente anelano, senza tuttavia riuscire spesso a raggiungerle nella propria esistenza, e cioè la gioia, la libertà, la pace, l'armonia e la riconciliazione tra di loro degli uomini e delle cose”
E in ciò la spiritualità francescana ha lasciato un'impronta indelebile, non solo tra i credenti cristiani, ma in tutti gli uomini di buona volontà e in quasi tutte le espressioni della civiltà occidentale, tanto che a ragione si possono applicare allo spirito francescano le parole del vangelo:
"dovunque sarà predicato questo vangelo, nel mondo intero, sarà detto anche ciò che egli ha fatto"
San Francesco d’Assisi è una gloria dell’Italia, che ebbe il privilegio di dargli i natali. Anche Melissano ha avuto il privilegio di donare i natali a Don Quintino Sicuro, il quale rappresenta - e continua ad essere – un inestimabile patrimonio spirituale, culturale e morale del nostro paese: ognuno di noi, quindi, deve sentire il bisogno di conoscere in maniera approfondita la vita, il pensiero e la spiritualità di don Quintino, intuendone i motivi ispiratori e imitandone le ragioni ultime.
Una conoscenza, ovviamente, che non può e non deve né rimanere nel chiuso della nostra cittadina, né tanto meno ridursi a una pura conoscenza sterile di ogni insegnamento pratico: don Quintino è innanzitutto maestro di vita vissuta con estrema totalità ed esempio di testimonianza perseguita e realizzata con indiscutibile coerenza.
San Francesco, dopo le prime esperienze giovanili fatte nell’ambiente socio-culturale dell’Assisi del 1200, non ebbe paura di “delirare”, cioè di uscire fuori dal solco della vita comune dei suoi tempi, e nemmeno di “tradire” le aspettative dei suoi genitori, che pure sognavano per lui un ottimo e brillante futuro. Con l’audacia che solo la forza dell’amore estremo e senza riserve può dare, con la determinazione che solo la convinta lucidità dell’animo appassionato può sostenere, con la gioiosa disponibilità a tutto affrontare e tutto vincere per la realizzazione dei suoi progetti intimamente formulati, San Francesco abbandona la vita “normale”, ripudia genitori e amicizie, rinuncia a ricchezze e benessere, e si dedica tutto e interamente a vivere la sua “pazzia”: si ritira nella solitudine dei monti e, nel profondo silenzio dell’anima e nell’incontaminata sacralità della natura, porge l’orecchio alla voce interiore che gli suggerisce il senso vero del suo esistere e la ragione ultima del suo operare: intuisce di doversi votare alla totalità senza riserve, alla più completa dedizione di tutto se stesso per la riedificazione della “casa” di Dio, che è, poi, la dimora destinata anche a tutti gli uomini. Dà ascolto a questa voce, vuole approfondirne il messaggio più autentico, entra in dialogo sincero con se stesso e con il Tutto. Sceglie con assoluta determinazione di tagliare con i modi di pensare del mondo e di vivere in coerenza con l’infinita Totalità. Esce dal mondo, ma per ritornarvi carico dei suoi convincimenti: li vuole e li deve trasmettere, in gaudio e con pace, a tutti gli uomini, credenti e non, cristiani e non. E’ pronto a tutto, anche alla derisione dei benpensanti e agli sberleffi dei malevoli. Ma la verità trionferà e molti lo seguiranno e continuano a seguirlo ancora ai nostri giorni.
Anche don Quintino Sicuro si presentò allora – e si ripresenta oggi anche a noi - come l’uomo totale che, con lucida persuasione e convinta adesione, scoprì in sé stesso i sensi veri dell’essere umano, valutò con serietà il contesto sociale in cui la storia l’aveva fatto nascere e vivere e, di conseguenza, impresse alla sua vita quelle svolte che, a suo modo di sentire, uniche gli facevano realizzare una vita piena e degna dei suoi intimi convincimenti.
Don Quintino Sicuro, che viveva con impegno nella realtà della Melissano d’allora, siccome non lo soddisfaceva interiormente, decise di cambiare nel tentativo di trovare modi di vita più appaganti, finchè giunse alla svolta radicale: si separò dal mondo e si rifugiò nel silenzio della solitudine, in cui, andando al di là della realtà mondana, trovò la verità. Scelse, quindi, di rimanere e operare nel mondo, ma di non essere più del mondo. Comprese, come san Francesco, che tutte le mostruosità dell’umanità si racchiudono nella smania che l’uomo ha di diventare il centro e il termine della propria esistenza. Egli volle diventare eremita, cioè uno che vive in solitudine ma tra la gente, in modo da ricordare agli uomini che essi valgono non per quello che fanno, ma per quello che sono. E faceva tutto ciò con grande spirito di servizio. La sua solitudine, quindi, serviva a scoprire e vedere la verità, per poi avvicinarsi agli altri e comunicarla loro. Aveva capito che la più grave povertà, di allora come di oggi, è la mancanza di pace, la paura della sofferenza, della morte; aveva compreso che il vero deserto sta nella vita caotica delle città piccole e grandi, per cui era necessario creare oasi di pace e di riconciliazione. E realizzò tutto ciò in atteggiamento costante improntato alla gioia, alla libertà, alla pace e all’armonia tra di loro degli uomini e delle cose. La sua esperienza eremitica diceva allora e continua a dirci anche oggi che c’è bisogno di momenti di solitudine, per saper leggere nell’animo nostro, per divenire capaci di non condividere sempre e comunque i modi di pensare e di agire dei più e della moda del momento.
Un primo motivo, che contraddistingue tanto la spiritualità francescana quanto l’esperienza eremitica di don Quintino Sicuro, è quello di essere, usando termini dei nostri giorni, di “inattualità” o “postmodernità”.

2. La spiritualità francescana è “postmoderna”

Oggi, infatti, per esprimere l’atteggiamento di chi vuole cercare e realizzare modi di pensare e di agire improntati a sincerità e autenticità personali e, comunque, lontani da ogni forma di passivo adeguamento ai sistemi di vita dominanti e alla moda, uno dei termini maggiormente usato è quello di “postmodernità”. Questa parola, però, spesso viene applicata in modo anche improprio e in molti ambiti della vita quotidiana, rimanendo, così, caricato di forti significati che ricadono anche nell’economia, nell'etica, nella filosofia e nella religione. In senso generale, comunque, la postmodernità si pone come l'ultimo momento del “tempo attuale”, in cui la persona più pensosa, vivendosi delusa di se stessa, cerca modi adeguati per correggere il proprio cammino in tutto ciò che scopre di ingannevole e di frustrante. La postmodernità, quindi, costituisce l'altra faccia della modernità, quella che diffida di sè e si autoaccusa, e nello stesso tempo, cerca di superare le contraddizioni culturali e i presupposti di natura anche religiosa, che stanno alla base del modello di vita proprio di quella società “attuale”, che viene percepita come infelice, violenta e talora del tutto disumana.
La postmodernità si erge, allora, a un tribunale vero e proprio, che pone sotto accusa l’intero progetto di un’intera società: e non solo lo critica e lo aggiusta nei confronti dello stile di vita, ma gli intenta un processo implacabile nei confronti della sua stessa concezione e interpretazione della vita e dei suoi presupposti morali e culturali.
Il primo aspetto della società attuale che viene giudicato e criticato è proprio quel mito della razionalità, che viene tanto proclamato e difeso da un numero sempre maggiore di popoli. A causa del crescente dominio di questo mito, la “razionalizzazione” dominante sempre più soprattutto nell'occidente permea tutte le manifestazioni culturali, dalla teologia alla filosofia, dalla politica all’ economia, dalla sociologia all’arte. Questo spirito sistematico, però, si fonda e accresce inevitabilmente un'ansia di dominio, d’imposizione e di sfruttamento, che giunge alla sua massima espressione nella ricerca scientifica, nei progressi tecnologici e nello spirito del capitalismo. Questa mentalità razionalistica, inoltre, si istituzionalizza attraverso i vari sistemi, sino a trasformarsi in puro funzionalismo. A questo punto, l'interesse, la praticità e la funzionalità sostituiscono gradualmente i valori dell'essere e della gratuità, e sfociano in una totale e scontata commercializzazione del mondo intero. Si entra, così, in conflitto cοn la stessa natura, che viene vissuta e trasformata in fonte inesauribile di benefici e, di conseguenza, trattata come un magazzino da svuotare. Anche la stessa modernità che pretende di sostenere, almeno teoricamente, l'autonomia e la dignità del singolo e unο spiccato individualismo, non ha portato né la pace nè l'alleanza tra gli uomini, e tra questi e la natura; anzi, essa è stata fonte permanente di conflitti, tensioni e divisioni, fino a giungere alla dolorosa esperienza del malessere della cultura, quale si manifesta nella crescente coscienza dell’infelicità dell’uomo, nell'aggressività delle persone, nella disillusione generalizzata.
Ιl pensiero postmoderno processa, quindi, l’eccessivo predominio della ragione calcolatrice, e accusa tutte le sue pretese che vogliono occupare ogni campo del pensiero e dell’agire umano. La sfiducia e la critica postmoderne, mentre si levano contro i sistemi globalizzanti della società di oggi, contro i suoi dogmi e le sue promesse, svelano anche tutti i discorsi mascherati di dominio e tutte le grandi fabulazioni sull'emancipazione: e rivendica un gusto particolare per l'antimodello, quale si manifesta in molti settori della vita attuale, nella quale si contrappone spesso l'irrazionale al razionale, l'antisociale al sociale, l'antisanto al santo, l'antievangelico all'evangelico, l'antivirtuoso al virtuoso. Tutti i grandi princìpi e i solenni proclami vengono smascherati in nome di una realtà ben più modesta ma più autentica, meno idealista ma più realista, meno razionalizzata ma più vitale.
Ιn questo processo generalizzato contro gli assoluti e contro i miti, la postmodernità opera anche una purificazione radicale degli idoli di Dio. Anche la religione viene messa in causa profondamente, benchè l'ateismo postmoderno non si presenti con l'aggressività di un Marx e di un Nietzsche, ma con la rassegnazione disperata di un Camus o con la serenità stoica di un Sartre. Dio non è più il contendente dell'uomo; è l'infinito impossibile a cui si deve rinunciare, visto che l'unica esperienza possibile è veramente quella umana, in un mondo che si apre e si offre gradualmente e solo in prospettiva, mai nella sua totalità. La postmodernità, dunque, presenta differenti posizioni umane, riguardo alle quali si deve avere un atteggiamento critico e creativo, per poter dare una risposta adeguata alle sfide di turno.
Cosa sempre possibile se si parte da una fede viva e dalla forza dell'amore disinteressato, quali contiene la spiritualità francescana delle origini e di oggi: con il suo senso del concreto e il suo amore per tutte le realtà, anche apparentemente irrilevanti, offre i presupposti per intavolare un dialogo con il frammentario, una comunicazione con il diverso e un rapporto di dialogo tra individuale e sociale, tra uomo e uomo, tra uomo e natura. Μa per questo si richiede una fede nuova e rinnovata nella vita e una fiducia nella stessa realtà. Ε bisogna pensare in profondità, se non si vuol essere una massa o moltitudine addomesticata. Viviamo in un tempo di scandaloso disimpegno mentale, in un'epoca nella quale i mezzi di comunicazione di massa ci risparmiano dal pensare e dal coraggio di decidere, visto che ogni cosa si trova già perfettamente programmata in un supersistema di interessi previamente orchestrato.
Da ogni parte anche oggi si ricerca un nuovo modello di umanità; ma per raggiungere tale traguardo bisogna arrivare certamente a una civiltà dell'universale ed a un'umanizzazione delle idee fondamentali che governano la vita dei singoli e dei popoli. Μa quest'universo lo si può raggiungere solo attraverso esperienze e incontri civilizzati, reazioni e convivenze civilizzate, cioè attraverso un pensiero civilizzato, che si contrapponga al pensiero terrorista e alla cultura della violenza e della morte. Se
“il futuro dell'uomo dipende dalla cultura”
come spesso ripeteva Giovanni Ρaolo ΙI, dobbiamo produrre una cultura ricca dei migliori ingredienti umani, perché il futuro sia più umano e più felice. Occorre una rivoluzione permanente, basata sul rispetto e sull'amore dell'altro e della natura.
Ιl dinamismo della spiritualità francescana, rivisitata nel 1900 anche dall’esperienza eremitica di don Quintino Sicuro, può prestare un grande servizio alla causa della nuova cultura, di cui c’è bisogno e che dovrebbe essere modellata sulla dottrina del personalismo sviluppato soprattutto in quattro direzioni:
  • a. del personalismo comunitario, in grado di porre le condizioni che rendano possibile il conseguimento del grande affratellamento di tutti gli uomini, mediante una cultura della pace, della convivenza civile e del rispetto reciproco, capace di costruire una società più a dimensione d’uomo;
  • b. della cultura ecologica e universale, in grado di stabilire un inseparabile sistema di reciprocità, capace di trasformare il mondo in dimora veramente degna della dignità dell’uomo;
  • c. della cultura del dialogo, in grado di rispondere, secondo lo spirito del francescanesimo, anche oggi al nobile intento di offrire uno spazio spirituale e umano finalizzato a un dialogo efficace tra le diverse filosofie, le diverse culture e le diverse religioni;
  • d. della cultura della gioia veramente festosa, forse del tutto assente all’uomo di oggi, che è terribilmente serio e privo di gioia vera. Ιl pensiero francescano, testimone eccezionale della gioia vera e piena, può apportare gli elementi necessari per creare una nuova cultura, nella quale l'uomo sappia ridere e comunicare mediante anche la gioia.
Ιl futuro, spazio riservato solo a coloro che sanno offrire speranze legittime, diventerà realtà solo se si sarà generosi con il presente: in questo nostro presente la spiritualità francescana testimoniata dall’esperienza eremitica di don Quintino costituisce un grande contributo – in qualunque ambito penetri ed operi - per la trasformazione della società, perché sia più accogliente e fraterna. Umana.

3. Don Quintino e la spiritualità francescana

Don Quintino, ancora di tenera età, sperimentò la delusione di entrare nella vita religiosa francescana, che pure desiderava intraprendere, ma che gli veniva negata, perché non riuscì, nel 1932, a superare l’esame di ammissione. Ma il suo convincimento di doversi consacrare all’apostolato generoso e incondizionato e di doversi dedicare alla salvezza delle anime in modo esclusivo e totale non solo non s’attenuava, ma cresceva sempre di più:
“Per un clero sacerdotale - scrive alla sorella il 30 marzo 1963 - non v’è altro che l’assillo di dare anime a Dio, perciò, quando si presenta l’occasione, ne è felicissimo”
; e persino durante il viaggio fatto a piedi e in mezzo a ogni difficoltà per giungere a Lourdes a visitare la Vergine da lui ritenuta il vero suo sostegno per il raggiungimento dei suoi ideali alti ma difficili, saluta come intervento diretto di Dio la possibilità di avere, lui “umile Suo sacerdote, la possibilità di esercitare anche il ministero. Infatti, in qualche chiesa – scrive – fui al confessionale: una volta per due ore. Parlai anche ai fedeli e lungo le strade quante anime ho incontrato: gente che si fermava, che voleva sapere, che si mostrava felice di incontrare chi parlava della Madonna e che chiedeva preghiere, partecipando così, con tutto il consenso, seppure con qualche meraviglia, alla mia impresa (Relazione sul viaggio a Lourdes).
Nel maggio 1939, però, sette anni dopo questa sua prima delusione, lasciò il suo paese natale e si arruolò nel Corpo della Guardia di Finanza. Possiamo immaginare che l’abbia fatto, per una insoddisfazione sociale, ma soprattutto personale: l’ambiente contadino e piuttosto chiuso del suo paese poco si confaceva al suo spirito irrequieto e votato alle cose grandi e alle scelte estreme. Da quello che scriverà nel tema di esame per l’ammissione al Corso Allievi Sottufficiali nel 1943 possiamo indurre il suo carattere integrale, la sua volontà determinata, la sua dedizione incondizionata nel sentire e compiere le sue scelte:
"Ogni superiore deve, però, ricordare che esso è posto al comando per il bene della sua Patria e dei suoi dipendenti: che nessun sacrificio è mai troppo grande quando incorre il bene dei soldati. Sacrificarsi per loro è un dovere, ma un onore, perché poi i soldati con quegli esempi sapranno a loro volta dare anche il massimo sacrificio per la Patria”
Ma anche questa vita dedicata alla società civile non lo soddisfaceva intimamente: aveva bisogno della scelta senza confini e senza ritorno. Per otto anni ripensa la sua esistenza nella ricerca del suo senso più autentico; e sente d’essere chiamato alla vita monastica e sacerdotale. Ma chi doveva e poteva aprirgli le porte, gli pone davanti seri e gravi ostacoli. Ma don Quintino, forte nell’umiltà verso gli uomini, ma altrettanto umile nell’obbedienza alla voce della sua anima ispirata da sinceri aneliti, non s’arrende e scrive alla sua guida spirituale:
“Perché ‘la vittima di un falso punto di orgoglio’, quando il mio sentire è veramente alto e santo e non esaltazione momentanea come tanti definiscono? Il mondo non può darmi quella pace spirituale che si gusta all’ombra pia e santa di una casa religiosa e per questo, solo per questo, ho deciso di abbandonare il mio attuale regime di vita, per mettermi sulla giusta strada. Non credo che ‘la bella donzelletta’ delle mie avventure amorose possa ostacolare il santo cammino, in quanto non serbo altro che rimorso di tutto ciò che ho commesso in passato.(…). Una cosa sola mi preoccupa ed è lo studio. Se con l’aiuto del Signore riuscirò a vincere sì grande ostacolo, potrò senz’altro marciare felicemente sino al raggiungimento del santo ideale. E’ vero che è molto difficile donarsi completamente a Dio e servirlo come si deve, dopo averne viste e provate di tutti i colori, però non possiamo escludere la possibilità di riuscire, perché molti più peccatori di me abbandonarono il mondo per darsi a una vita tutta diversa, e il Signore li accolse premiandoli largamente” (Lettera del 18 giugno 1947 a don Luigi Falsina).
E realizza il suo desiderio: abbandona la divisa della Guardia di Finanza e, in spirito di immensa obbedienza verso coloro che riteneva e credeva fossero la voce di Dio, entra nel Convento francescano di Potenza Picena. Sente, però, ancora inappagato il suo sentimento più profondo, chiede nuovamente ai superiori di potersi dedicare alla vita eremitica; però
“Il Padre provinciale concluse che la mia vocazione alla vita eremitica non è altro che una tentazione del demonio, quindi niente eremita, la veste del Poverello d’Assisi, e il 7 settembre facilmente la vestizione. Non ho voluto insistere e siamo rimasti così d’accordo, però ho ottenuto di non andare al noviziato, se non quando avrò completato gli studi generali. Intanto il Signore mi farà conoscere meglio la Sua volontà”. (Lettera del 7 giugno 1949 a don Luigi Falsina)
Ubbidisce e legge anche questi avvenimenti come pianificazione provvidenziale, tanto che nell’ottobre successivo scriverà:
“Ora capisco perché il Signore non mi ha concesso l’eremo. Quanto è buono Gesù! Stupisce la Sua Provvidenza! Ringraziamolo assieme don Luigi, per così grande grazia concessami. Come sto bene adesso spiritualmente. Mi sembra di essere in Paradiso” (Lettera del 5 ottobre 1949 a don Luigi Falsina)
Ma, esattamente un mese dopo, comunicherà al suo “carissimo” don Luigi:
“Quando riceverà la presente sarò già all’eremo. Domani nel Convento dei Frati Minori di Ascoli lascerò il saio e poi coi panni della Provvidenza, da vero sposo di Madonna Povertà, imboccherò il nuovo sentiero. Preghi perché il sacrificio non sia vano. Ai miei non ho ancora scritto, ma scriverò; se non le dispiace si faccia vivo anche lei con una bella letterina. Non si preoccupi se passerà molto tempo prima di ricevere ancora mie nuove, perché senz’altro bene” (Lettera del 5 novembre 1949 a don Luigi Falsina)
Si ritira nella solitudine più totale, lontano da tutto e da tutti, solo con se stesso, in profondo impietoso scandaglio della sua anima, in dialogo serrato e disponibile con il Tutto, con l’Infinito, con l’Amore: quello che ha tutto dato senza chiedere ad alcuno null’altro, se non che gli sia consentito di amare senza alcun ricambio o tornaconto. Don Quintino vive solo nella solitudine della sua anima e nell’unica sacra incontaminata verginità della natura per 35 giorni, quando – come scrive ai suoi familiari il 10 dicembre 1949 - rompe il
“lungo silenzio durante il quale non ho cessato di pregare per voi la Vergine Santissima, perché vi fosse più vicina in così particolare circostanza”
e rompe il silenzio dedicato alla conversazione intima e personale con il Tutto, non per “giustificare il passo fatto” e nemmeno “per pacificarvi del mio nuovo stato di cose”, in quanto ritenuto superfluo; lo fa per dire alla famiglia “semplicemente di aver fatto la volontà di Dio e di star bene, perché sulla sua strada”.
Apparentemente è una fredda comunicazione quasi d’obbligo, dovuta in considerazione dei naturali vincoli parentali; ma è l’espressione della grande umanità di Quintino, che sente – proprio nel dialogo solitario con la sua storia di uomo integrale – tutta la complessità ineluttabile dei suoi sentimenti carnali. Lui sa che la svolta che ha dato alla sua esistenza in realtà è la conclusione meditata e sofferta del lungo itinerario che lo ha condotto alla conclusione da sempre covata, intuita, amata, sperata, ma solo ora realizzata. Quella scelta che lo ha portato gradualmente ma decisamente, lentamente ma pazientemente, dal mondo piccolo all’Infinito sconfinato, dagli uomini terreni all’Umanità mistica, dal tempo che passa all’Eternità imperitura. Lo conferma quello che dirà, quasi sei mesi dopo, con umiltà filiale al suo “amico” spirituale, quando, appunto il 28 maggio dell’anno successivo (1950), pur non essendo ancora finito il periodo del silenzio che si era “proposto all’inizio della nuova santa vita”, vuole dare brevi tranquillizzanti sue notizie; tutto quello che scrive è questo:
“Sto benissimo. Godo la beata solitudine di un eremo santo, nascosto tra il verde degli alberi su un monticello aperto e ventilato. Come è bello vivere interamente abbandonato nel dolce amplesso del Padre!”
Lo stesso giorno scrive una breve lettera anche ai suoi familiari per rassicurarli sulla sua salute e sulle sue condizioni generali, e afferma:
“Non pensate a male, miei cari, perché sto benone (…). E’ impossibile dire le grandi gioie che si gustano quassù al sevizio dell’Amore. Ora sì che posso dirmi veramente ricco, poiché possiedo il tesoro dei tesori, Iddio. Ogni altra cosa è vanità che ben presto si chiude nel passato”
E, siccome non ritiene ancora passato il periodo di silenzio propostosi, li prega di non distrarlo né con visite inutili e nemmeno con lettere dispersive, e li esorta:
“Siate felici, miei cari, come lo sono io, nell’immaginarmi quassù in un Eremo santo nella beata solitudine”
“Siate felici!”. Quanta umanità in quest’augurio rivolto alla sua famiglia, che Quintino sapeva che a Melissano doveva subire commenti e critiche non certo benevoli. Conosceva l’ambiente del suo paese natale: gente sicuramente buona e semplice, ma dal cuore poco sensibile e dalla mente piuttosto chiusa nel misurare le scelte dell’ex finanziere. I più accomodanti e benevoli, mentre compativano “quei poveri genitori” perché era capitata loro la disgrazia di avere quel figlio strano, certamente “giudicavano” con parametri terreni e umani, forse anche giusti umanamente, ma del tutto diversi dalle considerazioni e dai motivi che avevano condotto il loro compaesano a “ridursi a chiedere l’elemosina”. Quintino lo sapeva benissimo. E non caso né involontariamente aveva interrotto il suo silenzio nel dicembre precedente e aveva scritto ai suoi:
“Poco importa se la gente mi dice pazzo. Basta che piaccia all’Amore. E voi, miei cari, non pensatemi ora un semplice mendicante, ma un apostolo sulle orme del Maestro. Sono felice, credetemi! Il Padre, nel dolce amplesso nel quale sono interamente abbandonato, non mi fa mancare nulla”. E’ lo stato d’animo che confermerà nella lettera successiva scritta alla famiglia il 24 agosto: “Son sempre con l’Amore, quindi benone”
In queste espressioni, nelle quali non è difficile scorgere il linguaggio dei grandi mistici, quali Teresa d’Avila e Giovanni della Croce, s’impone con estrema evidenza la spiritualità di San Francesco. La radicalità della scelta, il tormento interiore in cui si macera e si matura l’anima che anela veramente alla verità, l’umanità intera che ricerca il confine estremo da varcare per penetrare nella Realtà vera e concreta. Totalità completa e disponibilità estrema ad acconsentire all’intimità del proprio animo, seguendone la voce interiore, senza alcuna considerazione esclusivamente umana e senza alcun rispetto nei confronti di soluzioni accomodanti e compromissorie. San Francesco è l’apostolo della radicalità estrema: innamorato della umanità autentica e devoto della natura creata dall’Amore, si lascia affascinare dalla Totalità, nella cui prospettiva deve essere riconsiderato ogni aspetto terreno, dal vincolo di famiglia al dovere sociale, dall’impegno nel mondo alla vocazione del mondo, dal senso vero del singolo uomo creato dall’Amore al significato autentico dell’intera storia dell’umanità in cammino faticoso e lento, ma inarrestabile e sicuro verso la Divinità autentica.
Don Quintino Sicuro, inizialmente, valuta le diverse situazioni usando con grande coerenza il metro umano, che la sua formazione adolescenziale e la storia personale gli hanno fornito. Sente che si tratta di un metro di valutazione giusto, ma non del tutto e veramente umano. Con audacia, allora, ripudia questo modo di pensare e di agire e va alla ricerca di altri metri: trova e medita il metodo di Francesco d’Assisi; lo fa suo, lo vaglia, lo pondera fino a condividerlo, non perchè più convincente, ma perché maggiormente confacente agli aneliti nascosti ma urgenti della sua anima. E’ la meta ultima che sente di doversi prefiggere: lo fa con interiore convinzione, che non comunica a nessuno, perché vuole salvaguardarla gelosamente in tutta la sua integrità. Come la mamma custodisce nel suo grembo il frutto dell’amore che l’ha fecondata, così Quintino custodisce e fa crescere nel suo animo il seme che nel silenzio s’è annidato nella sua vita: e vuole fecondarlo sino alla sua maturazione adulta. Prende tempo non per titubanza o prudenza umana, bensì per tutela e garanzia della verità; avanza con lenta oculatezza non per debolezza o dubbio, bensì perché sa che la verità cammina con le voci storiche degli uomini, che rimangono sempre e comunque strumenti, di cui vuole servirsi l’Armonia universale nel comporre la musica della storia. E gli uomini – con l’accettazione e l’approvazione della Regola francescana - consentirono al fraticello d’Assisi di dare vita a quel vasto inarrestabile movimento spirituale, che dal 1200 a oggi è andato sempre più crescendo; l’ubbidienza devota e l’umile fiducia di Quintino nei confronti di tutti gli uomini che dovevano accettare e condividere le sue scelte, hanno reso possibile la realizzazione del suo progetto di vita, fatto nella meditazione solitaria con se stesso e con l’Amore. Al sacerdozio attraverso l’esperienza eremitica.
Ma non c’è passo che fa, senza il consenso degli uomini “delegati” da Dio. Scrive a don Luigi Falsina il 20 novembre 1950, mentre si trova all’Eremo di San Francesco a Corsara di Montegallo: “Leggendo la vita della beata Canosa, sono venuto a conoscenza di un vecchio eremo S. Giovanni in monte Colo’, nei paesi di Lovere. E siccome mi piacerebbe, fra un anno o due, quando il Padre vorrà, portarmi un pochettino lassù (ovunque si può fare un po’ di bene) verrei ad occuparlo, sempre che l’autorità ecclesiastica non fosse contraria ed il posto si potesse abitare. Sappiatemi dire qualche cosa”. Circa tre anni dopo, con la lettera del 20 marzo 1952, comunica ai familiari:
“Sembra che Gesù mi voglia altrove, in un’altra vigna a lavorare, ed io che tutto orecchie ad attendere la chiamata, non posso, quando il Padrone chiama, non rispondere. Abbandoniamoci fiduciosi al divino volere che non ci mancherà il porto sicuro. Gesù prima di ogni altra cosa, che ne ha il diritto! (…) Se mi sarà concesso rilasciare l’Italia…Siamo intanto tranquilli di quella tranquillità che viene da Dio”
Era tutto pronto per la sua partenza per l’Australia. Due mesi dopo sfuma tutto. E, il 30 maggio 1952, Quintino scrive sempre ai suoi familiari:
“Ora sta tutto diversamente. (…) Sappiate che tutto viene dall’Alto, perciò cercate di vincere la spontanea tristezza che vi recherà la presente. Se così è andata, vuol dire che il mio campo di apostolato è in Italia ed io naturalmente sono felicissimo”
Di fronte a qualche reazione umana di qualche suo familiare, ammonisce con la lettera del 23 giugno successivo:
“La notizia fu un po’ sorprendente, ma non mi scompose. Anche a San Filippo Neri gli furono negate le Indie dicendogli che le sue Indie erano Roma. Cosa ne sappiamo noi dei disegni del Signore! L’uomo fa un programma, il Padre traccia quello da svolgersi”
Anche San Francesco aveva fatto la stessa esperienza: tornò dalla terra di missione, perché aveva capito che la sua missione era l’Italia; e dall’Italia avrebbe fatto risuonare la voce forte dei suoi insegnamenti per tutto il mondo e per lunghi secoli.
Il 10 ottobre 1949 si stabilisce all’eremo di Montegallo, e vi rimane ininterrottamente fino al 3 giugno 1954, quando, dopo un breve soggiorno di appena quindici giorni all’eremo della Madonna del Faggio sul Monte Carpegna, si stabilisce all’eremo di sant’Alberico, dove rimarrà fino alla fine dei suoi giorni.
La meta cui anelava gli era costantemente davanti allo spirito: divenire sacerdote, ministro di quel Dio che voleva far conoscere a tutti quelli che avrebbe trovato durante l’intera sua esistenza sulla sua strada; poter stringere fra le sue mani il Gesù Cristo suo, per dispensarlo ogni momento all’umanità per la quale Egli si era fatto uomo sulla terra. Era questo il sogno che nutriva sin da giovanissimo, e che non smetteva di covare con l’intima convinzione che avrebbe potuto superare tutte le difficoltà e sarebbe giunto al traguardo. Già nel 1947, ancor prima di abbandonare la divisa di finanziere, nell’accettare con umile sottomissione le conclusioni delle autorità religiose che per il momento gli sbarravano la strada all’ascesa verso il sacerdozio, concludeva l’esternazione della sua anima alquanto amareggiata, scrivendo con sentimenti di comprensibile e commovente umanità:
“Spesso accade che piantine del vivaio, trapiantate, riprendano vita, ma crescono male; mentre altre, pur già vecchie e di cui non si spera che molto vagamente della riuscita, danno ottimi risultati”
Figlio di contadini, certamente era andato spesso in campagna e aveva osservato con sguardo investigativo i diversi modi della vitalità naturale, che talora sfugge e inganna ogni umano intervento e ogni terrena previsione. Con genuino spirito francescano spera che anche per la storia della sua vita valga quell’imprevedibilità che la storia della natura riserva come nei confronti della vita delle piante: la sua vocazione adulta attecchisse con la solidità delle piante ‘vecchie’. Tutto era contrario alla sua aspirazione al sacerdozio, dall’età al grado di preparazione non solo culturale, ma anche e solamente scolastica. Ma sorella natura aveva rivelato al suo sguardo attento che piante vecchie e senza speranza sono quelle che talora danno migliore riuscita. E conclude la sua lettera all’amico don Luigi Falsina: “E’ così, caro don Luigi! Non si sa mai…”: chiude con puntini di sospensione, volendo conciliare l’ubbidienza leale con la fedeltà totale, cioè da una parte l’ubbidienza alla storia che scrivono gli uomini con i caratteri umani e, dall’altra parte, la lealtà verso la voce intima che si ascolta interiormente nel silenzioso dialogo con l’Infinito, e che registra ogni vicenda con i caratteri dell’amore saldo e incrollabile, che affonda le radici nel mistero dei cuori.
E arriva il tempo, nel quale giunge a maturazione l’evento: i primi “anni di vita eremitica hanno preparato il passo che in questi giorni ho fatto”, scrive il 7 gennaio 1957 alla sorella dalla Villa Grazia in Firenze, dove era stato accolto nella casa fondata per la preparazione al sacerdozio delle vocazioni adulte. E nell’aprile successivo confida al suo caro don Luigi:
“Sto molto bene. Lo studio mi si rende sempre più facile, più interessante, perciò più piacevole. In ottobre spero poter incominciare, col nuovo anno scolastico, la teologia”
E inizia i suoi studi teologici. Nel dicembre di quell’anno (1957) scrive ancora a don Luigi:
“Il latino non mi fa gustare la dotta spiegazione dei professori. Ora però comprendo meglio che non un mese fa e col tempo penso che questa difficoltà si appianerà. Lei non mi dimentichi a Gesù onde possa realizzare il mio unico sogno: il Sacerdozio. Grazie.”

4. Il francescanesimo di Don Quintino affascina, interroga, orienta

Consideriamo ora alcuni caratteri propri della spiritualità francescana testimoniati nella vita eremita di Quintino Sicuro, condotta quale preparazione solida e ascesa sicura verso la meta indicatagli dal “mistero” della vita: il silenzio nella gioia propria della sacra intimità dell’anima; la libertà totale, vera e autentica dello spirito umano; la penitenza radicale ed impietosa dell’io individuale; l’ubbidienza serena e incondizionata alle leggi della natura e della storia degli uomini. Sono tutti comportamenti attinti dall’esempio di san Francesco, che fanno dell’eremita Quintino Sicuro un esempio che affascina ogni uomo pensoso e retto e lo induce a interrogarsi seriamente per orientare con coerenza la sua vita.
Egli, infatti, è l’eremita del silenzio interiore che, nello stesso tempo, resta inscindibilmente unito in conversazione attiva con gli altri. Tra i suoi appunti rinvenuti su un notes-diario (presumibilmente da datare nell’anno 1953) leggiamo
“Con la silenziosa, ma attivissima vita d’amore guarire il mondo dal pernicioso male moderno che è, non diciamo l’azione, ma il frastuono dell’azione non vivificata dallo Spirito di Dio”
E in altri appunti (da datare forse nell’anno 1960) troviamo pagine dense sul significato del silenzio. “Noi – annota – abbiamo bisogno del silenzio per ritrovare Dio”; e, pur ammettendo che si può indubbiamente rimanere legati a Dio anche dedicandosi intensamente all’azione e all’apostolato, avverte:
“Non dobbiamo farci eccessive illusioni: si tratta dell’apostolato soprannaturale, a base di disinteresse, di distacco da se stessi, di purezza di intenzione, di vera ricerca di Dio. (…) Il silenzio è amore, è vuoto che offriamo a Dio, perché possa colmarci come Egli vuole”. (…). Noi siamo gli uomini dell’aldilà. A che cosa, dunque, serviamo, se non riveliamo a fatti e a parole le realtà che non tramontano? (…). Un Dio di cui parlare, perché lo conosciamo; conoscenza che viene dalla contemplazione (…). Il silenzio ci dà uno sguardo nuovo su tutte le cose, qualcosa dello sguardo di Dio, che penetra sin nelle profondità degli esseri”
Quanto sono diverse le modalità del mondo del nostro eremita da quelle del mondo degli altri uomini. Nel mondo storico degli uomini ogni cosa ha un valore e ogni valore ha un prezzo, i desideri sempre nuovi e il denaro sempre più cercato e accumulato si sovrappongono, la visibilità e il potere solamente meritano tutto. Nel mondo eremitico vissuto francescanamente da don Quintino Sicuro c’è un altro mondo, un mondo invisibile e diverso, abitato da un uomo che vive con altri ritmi e per altri valori, sconosciuti, se non addirittura vilipesi e derisi dal mondo storico. Ecco allora il messaggio ancora attuale: l’eremita ricorda al mondo – quasi sempre senza parole, ma comunicando con l’urlo della testimonianza della vita – che ogni uomo e ogni donna contano per quello che sono nella loro dignità umana uguale in tutti indistintamente, per cui essi debbono approfondire ciò che è interiore e davvero umano. E’ necessario, quindi, andare oltre il mondo storico, per leggere dentro i fatti e gli eventi: e questo possono e debbono fare tutti gli esseri umani. Solo in questo modo il mondo diventa luogo abitato da uomini solitari, ma non soli; anzi, sempre in compagnia di altre persone disponibili anch’esse ad ascoltare. E l’ascolto genera vita, e porta le persone ad esprimersi e a dire tutto. L’eremita, dunque, è tutta l’umanità.
Queste dimensioni sono possibili - ci avverte don Quintino - grazie alla “conoscenza che viene dalla contemplazione”. E lui stava in un perenne stato contemplativo. Scrive a una signora nella lettera dell’1 maggio 1965:
“Bisogna, dunque, pregare giorno e notte, e quando ci svegliamo sempre, anche quando pare che Dio non ci ascolti o ci respinga, bisogna sempre picchiare. Questa continua preghiera non consiste in una continua tensione dell’anima, che finirebbe con l’esaurire le forze senza venirne a capo. Questo continuo pregare consiste nello scegliere da quella preghiera fatta o da quella lettura spirituale o meditazione, una verità o una frase, conservarla nel nostro cuore e ricordarla spesso, tenendoci il più possibile alla presenza di Dio, ed esponendogli i nostri bisogni, vale a dire mettendoci davanti a Lui in silenzio. Allora, come la terra arida par domandare la pioggia, mostrando al cielo la sua aridità, così è l’anima nell’esporre i suoi bisogni a Dio, vale a dire, mettendoci davanti a lui in silenzio”
Anche il motivo che lo determinò ad abbandonare, dopo solo pochissimi giorni, l’eremo sul Monte Carpegna fu proprio la difficoltà che aveva trovato nell’ambiente per la sua contemplazione. “
Lasciai Monte Carpegna, trasferendomi a Sant’Alberico, ove conto di fermarmi – scrive a don Luigi Falsina il 26 settembre 1954 – poiché lassù i villeggianti davano alquanto fastidio. Qui (a S. Alberico) mi trovo abbastanza bene. L’eremo resta a 1.200 metri d’altezza. Come posizione non è tanto bella (…). Appena una cinquantina di metri dall’Eremo si gode una visuale meravigliosa. E’ l’eremo che resta in un posto mica tanto bello. A me ora non dispiace”
Ciò che cerca Quintino non sono l’accoglienza e la comodità del luogo; infatti, dopo poche settimane di permanenza a S. Alberico scrive, il 18 novembre 1954, a don Luigi:
“Da quattro giorni che bufera. Quattro giornate eccezionali. Mai, in cinque anni di vita eremitica, ho visto simile spettacolo (…). Ieri sembrava che migliorasse e volli andare in paese per la S. Messa (occorreva più di mezz’ora di cammino spedito): ci arrivai, ma solo il Signore lo sa come… C’è un punto, poi, chiamato ‘le scalette’ (io lo chiamerei l’inferno) che fa venire i brividi solo a pensarlo. Tirava un vento così impetuoso e freddo che mi fece chiedere aiuto al Padre”
E così, ciò che ostacola la vita contemplativa di Quintino non è la presenza delle gente, ma la dispersione e la stupidità di certi ritrovi fatti all’insegna del perditempo e della distrazione insensata; infatti, scrivendo sempre a don Luigi alcuni mesi dopo, in previsione della festività di S. Alberico, esclama con evidente soddisfazione del suo bisogno pastorale:
“Quanta gente quassù! Quante comunioni nella mia cara chiesetta! V’è sempre parecchia gente il venerdì a S. Alberico, ma nell’estate coi villeggianti delle Balze e le colonie e i campeggi vicini ancor di più” (Lettera a don Luigi Falsina del 15 luglio 1955)
Contemplare significa saper osservare ogni cosa e ascoltare ogni messaggio, al fine di scoprire verità sempre nuove e vedere beni sempre maggiori; e per don Quintino il silenzio della contemplazione era il modo migliore per ascoltare gli altri, avvicinandosi loro sino a condurli alla Verità eterna: nell’ascolto dell’altro si diventa veramente persone, che non hanno paura della diversità che le circonda; ma è necessario mettere a tacere tutto ciò che è puramente umano e psichico, facendo tacere ogni elemento contingente e porgendo l’orecchio alla voce della verità, che parla con un linguaggio umanamente ineffabile, perché superiore allo stesso pensiero. Nella contemplazione solitaria e silenziosa l’uomo si lascia affascinare e possedere dalla verità, con la quale instaura una relazione amorosa quasi fosse una persona vivente. E, colui che conosce e possiede la verità, può realizzare ogni propria aspirazione solo unendosi all’altro, e non lo lascia più: nella meditazione silenziosa si attua il grande mistero del superamento delle diversità e della loro unificazione totale; un mistero dell’amore alla Verità che unisce, e che fa guardare tutta la realtà, penetrandovi sin nella più profonda intimità. Don Quintino ha incontrato l’Eternità, e nell’eternità ha scoperto la propria identità.
Nella società contemporanea dominata dall’immagine manca lo spazio del silenzio ed è assente ogni dimensione contemplativa, per cui è una società di uomini anonimi, banali e indifferenti l’uno all’altro. Don Quintino Sicuro, quindi, è quanto mai attuale: sulle orme del grande Maestro di Assisi, ci ricorda la necessità del silenzio, per imparare ad ascoltare; ci esorta alla solitudine interiore, per saper leggere nel cuore proprio e degli altri, ammonisce ad essere sempre disponibili a seguire la verità anche quando essa è “estranea” ai modi di pensare e di agire della maggior parte degli uomini. E, con il suo perenne sorriso che rivelava la profonda pace della sua anima, ci esorta a fare tutto ciò nel maggior gaudio dello spirito e nella gioia più vera. Come la gioia di Francesco, che cantava ed esultava come un bambino semplice e innocente, perché sapeva stupirsi di tutte le cose e di tutti gli avvenimenti. E don Quintino sapeva stupirsi degli spettacoli della natura e degli avvenimenti umani, cogliendone sempre gli aspetti belli e buoni, e riuscendo con fresca ingenuità a scorgere anche nelle sofferenze umane e nelle calamità naturali aspetti positivi e messaggi di riscatto.
Il nostro eremita non era certo insensibile al fascino dell’arte e delle sue bellezze; basti pensare all’accortezza con cui restaurò l’eremo di S. Alberico e la meticolosa cura, con la quale provvedeva sia agli elementi importanti, come le stesse strutture murarie e la loro disposizione, sia agli oggetti necessari al culto liturgico e agli accessori opportuni per il decoro e la devozione dei fedeli, come i quadri dei santi, che egli stesso fece dipingere. Sapeva, però, che si trattava di cose transeunti e prive di vero valore. Scrivendo alla sorella, che gli aveva comunicato la sua meraviglia per le grandi opere che aveva visitato a Roma in occasione dell’anno giubilare 1950, ne condivide gli apprezzamenti, ma l’ammonisce:
“Tieni presente che è tutta roba che passa, cioè che appartiene al mondo, e perciò deve interessarti relativamente: quello che invece importa veramente deve essere la salvezza dell’anima e in ogni cosa devi vedere la volontà di Dio e cercarvi, naturalmente, solo il bene spirituale” (Lettera alla sorella Antonia del 10.01.1951)
Tutta la giornata di don Quintino veniva vissuta nella gioia: indimenticabile il suo perenne sorriso sul volto disteso e tranquillo, specchio della sua anima serena e profonda. Questa serena padronanza di sé e della storia che lo circondava anche con i suoi imprevisti, però,era il frutto della speranza quotidianamente conquistata e che egli nutriva di libertà, di penitenza e di ubbidienza.
Quintino, sull’esempio di san Francesco, non usa quasi mai la parola libertà, ma tutta la sua vita fu, in realtà, una straordinaria espressione di libertà evangelica. Tutti i suoi atteggiamenti e le sue iniziative si fondano e si realizzano nell’interiore libertà e spontaneità dell'uomo, che ha fatto dell’amore la norma suprema della sua vita. La sua è una libertà radicale e profonda: egli si sente libero e vive quasi da sovrano nel mondo: grazie alla scelta di povertà estrema, Quintino si affrancò da ogni cupidigia terrena e da ogni ansietà, divenendo uno di quegli uomini che possiedono tutto proprio perché non posseggono nulla.
“Il Padre mi tratta coi guanti bianchi – scrive ai familiari l’1 dicembre 1951 -. E’ proprio vero che chi per amore di Gesù e del Suo Vangelo abbandona casa, genitori, fratelli e sorelle, avrà il centuplo di quello abbandonato su questa terra e il Paradiso di là. Come è bello sapersi tutto di Gesù!”
Fu libero da ogni attaccamento alle cose, di cui sapeva servirsi secondo vera necessità, e fu libero da ogni legame anche di sangue e comunque affettivo, che riuscì a rispettare sempre, senza farsene mai né determinare né dominare. Il suo abito eremitico, estremamente essenziale, sempre indossato con pudore, e tutta la sua vita quotidiana sempre condotta nel rispetto di sé e degli altri, documentano la sua indipendenza tanto da tutte le cose, quanto dal giudizio di tutti gli uomini, compresi i benpensanti e i saggiamente prudenti. E se, nell’abbandonare la divisa di finanziere per indossare il saio del poverello d’Assisi, scrisse: “Come sto bene adesso spiritualmente. Mi sembra di essere in Paradiso”, quando depose anche il saio per abbracciare la vita eremitica, si vestì dei panni della Provvidenza, liberandosi ancor radicalmente da ogni legame umano; infatti, dirà ai propri familiari:
“Deponiamo tutto, miei cari, nelle mani del Signore e ricordiamoci in Esso e vedremo che tutto andrà per il meglio. I figli non sono fatti per i genitori, ma per la missione a cui la Provvidenza li destina”
e, ormai abbandonatosi nell’amplesso dell’Amore totale, ma sentendosi ancora anche figlio della carne di uomini, si rivolse alla mamma, dicendole:
“Benedicimi, o mamma, e perdonami se involontariamente ho ferito il tuo cuore, pregherò tanto per te”
Nel dicembre 1952 si recò a piedi nella sua Melissano, per stare a fianco della madre seriamente ammalata; ma, scaduto il tempo che si era concesso per gli “obblighi” filiali, ritornò nel suo eremo, dove vivrà la morte della cara mamma, avvenuta il 3 aprile 1953, come ogni altro evento veramente importante della sua vita, cioè, in intima silenziosa solitudine, dialogando con lo spirito della defunta. Apparentemente si premurava solo di sostenere la sorella, il fratello e gli altri parenti, ai quali scriveva venti giorni dopo: “E’ stata veramente dolorosa la perdita! Pazienza! (…). Coraggio, miei cari, l’Anima Benedetta ci sarà più efficace dl cielo”; in realtà, però, nel segreto del suo anima, certamente sentiva ancora pulsare il proprio cuore di figlio, e probabilmente gli tornavano in mente le parole da lui stesso scritte negli anni precedenti, quando nel dicembre 1951, chiedendo alla sorella notizie della mamma, sommessamente confidava:
“Me la immagino sempre più giovane, con ottima salute e interamente abbandonata al volere del Padre Celeste. Coraggio mamma, non ti manca il mio ricordo costante”
Così sicuramente tornava a meditare fiduciosamente su quanto le aveva scritto pochi giorni prima della morte: “Ti raccomando, mia carissima! Sii sempre paziente nel sopportare la croce che Gesù ha messo sulle tue spalle e vedrai che non ti mancherà la forza di portarla”. Leniva il suo animo sofferente la certezza della felicità ormai eterna della mamma; una “anima privilegiata” gli aveva assicurato che ella “non ha fatto neanche un’ora di Purgatorio. La sua grande offerta Le ha portato l’immenso godimento eterno”. La sua libertà dalla mamma, che aveva collaborato a far nascere lui al mondo, per poi destinarlo e donarlo all’Amore, aveva ottenuto l’unica vera eterna libertà, cioè di essere e rimanere unita, nell’infinitudine eterna, all’Amore vero e imperituro.
La libertà di don Quintino – come quella di san Francesco - non si oppose mai all’accettazione degli eventi che vita terrena nelle sue varie vicissitudini gli presentava. Proprio grazie alla sua libertà assoluta sapeva discernere con prudenza evangelica le pur legittime esigenze degli uomini dalla suprema volontà dell’Amore infinito, che diveniva sempre più chiaro e operante nel suo animo. Questa accettazione amorosa da parte sua non era mai un passivo subire la storia né uno sterile sottomettersi al fluire delle vicende personali e sociali. Infatti, egli interpretava e si serviva di ogni avvenimento, per guidarlo verso la realizzazione del suo progetto esistenziale. Infatti, la sua costante e perseverante ubbidienza alla storia e agli uomini che la scrivevano, compresi i familiari, i superiori ecclesiastici e la stessa Chiesa, scaturiva proprio dalla sua libertà totale. In don Quintino – come in san Francesco – brilla ancora oggi per noi di singolare luce l'ideale originario dell'uomo: quello di essere libero e sovrano nell'universo, nell'obbedienza alla natura e alla storia che l’umanità e la Provvidenza tessono e concretizzano. Francescanamente don Quintino vedeva in ogni accadimento e in ogni creatura l’aspetto positivo, cioè il bene; anche nel dolore fisico, nella sofferenza morale e nella stessa morte. Informato di una “disgrazia” accaduta a familiari, li pregava
“a non allarmarsi dell’accaduto, poiché non è altro che un atto d’amore del Padre (…).Il Padre ci ama di gran cuore, perciò non si dica male quel che ha mandato, ma bene, perché tale è realmente per lo spirito: pieghiamoci con santa rassegnazione alla volontà di Dio” (Lettera ai familiari del 5 dicembre 1951)
Sono convinzioni, che richiamano l’esclamazione di san Francesco: "Tanto è il bene ch'io aspetto che ogni pena m'è diletto".
Uomo di perfetta letizia e di somma libertà, don Quintino imita san Francesco nel sentimento della pace e della fraternità universale. La radice ultima della pace di questi grandi testimoni è la loro totale donazione all’Amore senza riserve. “Il Signore ti dia la pace” fu il saluto che san Francesco rivolse a tutti gli uomini. Egli fu davvero, secondo la parola evangelica, “un operatore di pace”; e don Quintino impegnò il suo apostolato anche a spegnere inimicizie e a gettare le fondamenta di nuovi rapporti di pace. La pace, secondo la spiritualità francescana, passa attraverso il perdono, in quanto non considera alcun uomo un nemico, ma in tutti si vede dei fratelli. Questo portò anche don Quintino a superare tutte le barriere del suo tempo e ad annunciare l'amore di Cristo a tutti senza esclusione, anzi sperando di portarsi sino alla lontana Australia. Potremmo intravedere quasi un albore di quello spirito di dialogo e di ecumenismo tra uomini di diversa cultura, razza e religione, che appare come una delle piú belle conquiste dei nostri tempi. Anzi, possiamo dire che san Francesco e don Quintino, vivendo a contatto e dentro la natura più incontaminata, estesero questo sentimento di fraternità universale a tutte le creature anche inanimate: al sole, alla luna, all'acqua, al vento, alla neve, al fuoco, alla terra, che chiamarono rispettivamente fratelli e sorelle e che circondarono sempre di delicato rispetto e tenerezza.
“Abbracciò - è scritto di san Francesco, ma è riferibile alla vita di don Quintino - tutti gli esseri creati con un amore devoto quale non si è mai udito, parlando loro del Signore ed esortandoli alla sua lode”
L'atteggiamento di questi due uomini santi costituisce, però, nello stesso tempo, la migliore testimonianza che non si salvaguardano le creature e gli elementi della terra da un’ingiusta e dannosa manomissione, se non considerandoli nella luce sacra della loro creazione e della loro redenzione, come creature, cioè, affidate alla responsabilità, non al capriccio, dell'uomo e che, insieme con lui, attendono di essere, esse pure, “liberate dalla schiavitù della corruzione”.
Occorre, ora, risalire alla radice e scoprire per quale via tutti questi meravigliosi frutti fiorirono nella vita di questi campioni di santità. La pace, la gioia, la libertà e l’amore non si trovarono, infatti, riuniti nell’animo di questi due apostoli dell’Amore per un fortunato caso o per un dono di natura, ma grazie a una decisione e a un processo drammatico che essi racchiudono nell’espressione “fare penitenza”. Cosa, poi, intendessero per penitenza, ce lo dicono allo stesso modo, nonostante gli otto secoli che li separa. San Francesco all’inizio del suo Testamento descrisse così:
"Il Signore concesse a me, frate Francesco, d'incominciare a far penitenza, poiché, essendo io nei peccati, mi sembrava cosa troppo amara vedere i lebbrosi; e il Signore stesso mi condusse tra loro e usai con essi misericordia. E allontanandomi da essi, ciò che mi sembrava amaro mi fu cambiato in dolcezza di anima e di corpo. E di poi, stetti un poco e uscii dal mondo"
E, quasi di rimando, don Quintino si espresse così:
“Purtroppo non sono ancora quello che dovrei essere. Lo sento e me ne dolgo. Dio mio, perdono! Tu, o Signore, che hai avuto sì gran misericordia, quando al servizio di satana facevo gran male tra i tuoi eletti, avrai ancora compassione e misericordia, ora che vivo in te e per te, ma che non ho ancora raggiunto quel grado di santità che desidero e che tu vuoi” (Appunti da datare forse nel 1954)
In un momento decisivo della loro nuova vita, essi ascoltarono chiara e perentoria una parola di Cristo: quella che segnò tutto il resto dei loro giorni: "Chi vuol venire dietro di me, rinneghi se stesso". Il primo fondamentale segno dell’amore vero e totale è la disposizione perenne ed eterna di rinunciare a se stessi per la persona amata. Ogni riserva e ogni residuo di egoismo costituisce l’elemento corrosivo che, lentamente ma inesorabilmente, riesce a sgretolare ogni relazione d’amore. E il rinnegamento di sé fu la via attraverso cui Francesco e Quintino trovarono la loro “vita completa”. Essi giunsero alla gioia dell’amore totale attraverso la sofferenza quotidiana propria dell’umana esistenza storica, conquistarono la libertà profonda attraverso l’obbedienza talora anche dolorosa e il rinnegamento incondizionato di se stessi, si elevarono fino all'amore per tutto il mondo e di tutte le creature “odiando se stessi”, cioè, seguendo il comando del loro comune Maestro, vincendo il proprio egoismo. Nella spiritualità francescana, secondo la spiegazione che lo stesso san Francesco diede a frate Leone, la vera e perfetta letizia consiste nell’abbracciare, per amore di Cristo, ogni sorta di pena e di tribolazione. Tutti gli uomini, anche oggi, sono attirati da Francesco d'Assisi, perché egli ha accettato di essere “elevato da terra”, cioè crocifisso, sicché non fosse piú lui a vivere, ma Cristo in lui, secondo la parola dell'apostolo Paolo. Don Quintino Sicuro aveva annotato in appunto del 1958:
“La tua vita è triste, perché ne hai fatto un deserto. Tu devi popolare questo deserto, devi far entrare gli altri. Nella tua vita devi far entrare gli altri”
quando lo spazio e il tempo che dovrebbero occupare gli altri, lo riserviamo a noi stessi, il nostro animo si rimpicciolisce e la nostra vita si desertifica. L’amore vive e si alimenta di questo strano paradosso evangelico: chi ama se stesso si perde, chi perde se stesso si conquista; l’uomo autentico, in tutti i suoi limiti, è destinato a dimensioni smisurate e, nonostante la piccolezza della sua natura, tende all’infinito; e le dimensioni smisurate e infinite sono raggiungibili solo mediante il rinnegamento dell’io singolo ed egoistico. E il senso concreto e profondo del fare penitenza è questo: sciogliere se stessi negli altri fino a giungere all’infinito eterno; questo è il significato della citazione (estratta dal Salmo 62.2), che don Quintino fece scrivere sulle immagini stampate in occasione della ordinazione sacerdotale: “O Dio, il mio Dio Tu sei. . . Ha sete di Te la mia anima”.
A un mondo come il nostro, proteso con tutte le sue forze al superamento della sofferenza, ma che non vi riesce e anzi sembra precipitare in un’angoscia tanto piú profonda quanto piú si sforza di eliminare quelle che ritiene le cause principali della sofferenza stessa, Francesco d'Assisi e Quintino Sicuro, senza molte parole, ma con la straordinaria credibilità della loro vita, ricordano la via cristiana a questo traguardo, che consiste nel vincere, attraverso la partecipazione alla Croce di Cristo, la causa ultima della sofferenza e dell'ingiustizia che è il peccato e soprattutto il peccato dell'egoismo. Crocifiggendo in sé il proprio "io" vecchio, gli uomini superano il punto morto dell’individualismo che tende ad asservire ogni cosa al proprio interesse, rompono, cioè, il cerchio della morte ed entrano in un nuovo cerchio che ha per centro la Verità e per confini tutti i fratelli e ogni creatura. Don Quintino, recandosi a piedi a Firenze per essere accolto a Villa Grazia presso l’Opera Pia fondata dalla dottoressa Capelli, sperimentò forme estreme di umiliazione e di sofferenza, e così si confida con il suo Amore:
“Amore mio, grazie per sì grande sofferenza, umiliazione e rifiuto. Mi sembra di vedere la tua SS. Madre col buon Giuseppe, nella mia persona, quando erano a Betlemme, in cerca di alloggio ove passare la notte, quella notte radiosa in cui nascesti tu. Anche io sono stato respinto e deriso, e anch’io ho dovuto rifugiarmi in un posticino alla meglio, ove passare la notte insonne. Caro Gesù, cosa mi regali in questa notte? Io non desidero altro che te! Perciò nasci nel mio cuore, come nascesti a Betlemme. Perdona, Gesù, quei figli che sentono così poco la carità!” (Appunto datato 17 novembre 1955)
Sollecitato e quasi costretto dal suo vescovo a scrivere un resoconto sul suo viaggio, fatto a piedi, a Lourdes per adempiere al voto fatto alla Vergine, don Quintino confessa: “Preferirei tacere, per quel senso di geloso riserbo che ciascuno prova in quel che riguarda i suoi rapporti personali con Dio”; ma lo fa per penitenza, cioè, rinunciando anche a qualche segreto angolo di intimità, che pure non potrebbe e forse non dovrebbe essere condiviso da alcun altro essere. E all’interno di queste confidenze amorose, ci regala un’esperienza che rivela tutta la sua santità, fatta di sacrificio e di amore, di umiltà e di fede, di sofferenza e di speranza. Ci confida sommessamente, ma con accorata umanità, alcune esperienze che rivelano la grandezza del suo animo, fatta di semplicità amorevole e di arduo eroismo, di umiltà serena e eccelsa grandezza, di coraggiosa umanità e immensa fede. Muniti, lui e il buon Vincenzo, soltanto degli indumenti essenziali, fiduciosi per la soddisfazione di ogni altro bisogno solo nella Provvidenza, che avrebbe certamente mosso gli animi di chi avessero incontrato per strada, affrontano e superano tante difficoltà e peripezie, sulle quali non si sofferma oltre misura, né si dilunga oltre lo stretto necessario. Eppure c’è un momento che don Quintino pare voglia curare in modo accurato, quando scrive:
“Quante volte, sereni e felici, abbiamo consumato il pasto, a noi generosamente provveduto, in angoli remoti o sulla riva del mare, dove più del fisico, si ritemprava lo spirito, al contatto evidente della Provvidenza e nella contemplazione, sempre provvidenziale, di una natura che si presentava talvolta, specie al cospetto del mare, di una bellezza estasiante”
Ci pare di vedere san Francesco che, scioltosi nell’amplesso con l’Amore infinito, abbraccia in sé tutto il creato: è un abbraccio che umanizza e santifica ogni creatura, la quale diventa espressione genuina della carità effusiva, che penetra nell’universo e lo rende vivibile, perché amato umanamente e secondo la totalità della natura voluta e pretesa dall’Amore.
Non si possono terminare queste riflessioni su don Quintino Sicuro nel quarantesimo anniversario della sua morte senza sottolineare anche il suo speciale attaccamento alla Chiesa, come, del resto, aveva fatto il suo modello san Francesco. Le circostanze attuali della vita della Chiesa invitano, però, a considerare piú da vicino come si concretizzò, nella pratica, questa partecipazione attiva di questi uomini alle vicende della Chiesa proprie del tempo di ciascuno. Francesco visse in un'epoca caratterizzata da un grande sforzo di rinnovamento liturgico e morale della Chiesa che ebbe il suo punto culminante nel concilio ecumenico Lateranense IV del 1215. Non pochi ritengono che il poverello fosse presente personalmente alle assise di tale concilio; è certo, in ogni caso, che egli mostrò, in seguito, di essere perfettamente al corrente degli ideali e delle decisioni conciliari e di voler mettere la sua persona e la sua opera al servizio del progetto di rinnovamento elaborato dal concilio. Anche Don Quintino seguì certamente e visse le problematiche discusse al concilio ecumenico Vaticano II.
"Tutta l'opera di rinnovamento della Chiesa che il Concilio Vaticano II ha così provvidenzialmente proposto e iniziato – leggiamo nei documenti conciliari - (...) non può realizzarsi se non nello Spirito santo, cioè con l’aiuto della sua luce e della sua potenza"
Una tale azione decisiva dello Spirito santo non si realizza, però, normalmente se non attraverso degli uomini che si sono lasciati interamente conquistare dallo Spirito di Cristo e possono perciò trasfonderlo, nei modi piú diversi, sui fratelli. Anche oggi, quindi,come al tempo di Francesco e di Quintino, occorrono degli uomini resi nuovi dalla partecipazione alle sofferenze di Cristo, dei quali lo Spirito possa disporre liberamente per l’edificazione del regno. Senza di ciò, tutte le migliori direttive e indicazioni del concilio rischiano di rimanere lettera morta o, comunque, di non portare tutti i frutti desiderati per la Chiesa.

sabato 17 maggio 2008

UN EREMITA GIA' "POSTMODERNO"

IL SENSO DI UNA RICORRENZA:
IL 40° ANNIVERSARIO DELLA MORTE DEL SERVO DI DIO
DON QUINTINO SICURO da MELISSANO (Lecce)

Quest’anno ricorre il 40° anniversario della morte del Servo di Dio don Quintino Sicuro. Mio concittadino illustre ed esemplare, don Quintino Sicuro è un prezioso patrimonio di cultura popolare e di spiritualità religiosa, che va ripensato e imitato sempre, ma soprattutto nei tempi attuali, in cui sembra che gli uomini abbiano smarrito molti punti validi di riferimento e s’affidino, perciò, a ideali falsi, anche se lusinghieri e allettanti.
Don Quintino Sicuro si presenta come l’uomo totale che, con lucida persuasione e convinta adesione, scopre in sé stesso i sensi veri dell’essere umano, valuta con serietà il contesto sociale in cui la storia l’ha fatto nascere e vivere e, di conseguenza, imprime alla sua vita quelle svolte che, a suo modo di sentire, uniche gli facevano realizzare una vita piena e degna dei suoi intimi convincimenti.
Gli uomini del nostro tempo – come quelli del secolo scorso in cui don Quintino è vissuto – sembrano stordirsi tra i rumori degli affari e del potere, dissiparsi nell’inseguire ricchezze e onori, distruggersi nel rincorrere il tempo che scorre vorticosamente, trascinandosi ogni valore di dignità umana vera.
Don Quintino Sicuro, che viveva con impegno nella realtà della Melissano d’allora, siccome non lo soddisfaceva interiormente, decise di cambiare nel tentativo di trovare modi di vita più appaganti, finchè giunse alla svolta radicale: si separò dal mondo e si rifugiò nel silenzio della solitudine, in cui, andando al di là della realtà mondana, trovò la verità. Scelse, quindi, di rimanere e operare nel mondo, ma di non essere più del mondo. Comprese che tutte le mostruosità dell’umanità si racchiudono nella smania che l’uomo ha di diventare il centro e il termine della propria esistenza. Egli volle diventare eremita, cioè uno che vive in solitudine ma tra la gente: in questo modo ricorda agli uomini che essi valgono non per quello che fanno, ma per quello che sono. E faceva tutto ciò con grande spirito di servizio. La sua solitudine, quindi, serviva a scoprire e vedere la verità, per poi avvicinarsi agli altri e comunicarla loro. Aveva capito che la più grave povertà di oggi è la mancanza di pace, la paura della sofferenza, della morte; aveva compreso che il vero deserto sta nella vita caotica delle città piccole e grandi, per cui era necessario creare oasi di pace e di riconciliazione. E realizzò tutto ciò in atteggiamento costante improntato alla gioia, alla libertà, alla pace e all’armonia tra di loro degli uomini e delle cose.
La sua esperienza eremitica dice anche oggi che c’è bisogno di momenti di solitudine, per saper leggere nell’animo nostro, per divenire capaci di non condividere sempre e comunque i modi di pensare e di agire dei più e della moda del momento.


mercoledì 12 marzo 2008

UN MODO DI SCRIVERE "VALIDO"

Non è raro né difficile imbattersi in libri scritti con perizia formale, incisività stilistica e padronanza di contenuti.
E’ anche frequente, però, trovarsi a sfogliare pagine scritte con sciatta disattenzione e approssimazione linguistica.
E’ auspicabile, comunque, l’incremento di libri godibili e , nello stesso tempo, capaci di scardinare i clichés della società dei consumi, gli infingimenti dei media, le ipocrisie della retorica politica.

Per perseguire tale scopo, è quanto mai indicato l’uso dell’web: chi scrive non deve niente a nessuno, e nessuno deve niente a chi scrive. L’web, quindi, dà e garantisce piena libertà. Il libero accesso, infatti, consente a chi non piace o non condivide uno scritto di allontanarsene con un clic senza lasciare traccia. E consente, d’altra parte, a chi scrive d’intervenire anche successivamente su un testo. L’opera, così, è perennemente incompleta; e, anche se non è un cantiere aperto, permette di fare piccoli cambiamenti.

Un’opportunità, quindi, da utilizzare al massimo per una scrittura e una lettura libere: a dimensione della libertà intellettuale e morale propria dell’uomo.

lunedì 25 febbraio 2008

L'ERA DELLA GLOBALIZZAZIONE, ovvero ILPRIMATO DI CHI?

Che la vita concreta ormai insediata e stabilizzata sul globo terrestre sia determinata dalle dimensioni dell’uomo “democratico” è un dato ormai indiscutibile e, quindi, acquisito e accettato da quasi tutti i protagonisti della storia attuale.

Forse meno condiviso è l’altro fatto pure indiscutibile: cioè, che il problema delle relazioni internazionali deve scegliere tra due posizioni, cioè quella del cosmopolitismo e quella del realismo o dello statismo.

Il cosmopolitismo rivendica la pari dignità di ogni essere umano, in qualunque parte del globo abiti e a qualunque idea aderisca: caduti i confini geografici e demolite le dighe ideologiche, l’uomo può veramente vivere dimensioni universali di uguaglianza giuridica e di diritti politici.
Lo statismo rivendica la sovranità di ciascuno stato, che ha il compito fondamentale di difendere la propria identità e la propria sovranità.

Ora, è facile comprendere come il cosmopolitismo in realtà si riduce a semplice dichiarazione di buona volontà: dal momento che lo Stato è la fonte del diritto, senza uno “stato” non c’è concreta possibilità di uguaglianza e di libertà. E così, d’altra parte, è evidente l’astrattismo di ogni stato che pretenda di difendere sempre e comunque la sua individuale identità, dimentico che l’evoluzione del mondo globalizzato ha dei risvolti radicali in campo economico, politico e culturale.

Si può immaginare un cosmopolitismo che si confronti con i problemi reali della legalità e della politica e, nello stesso tempo, di uno statismo che si apra a confronti nuovi e più realisticamente efficaci?

Non si dimentichi, comunque, che nel frattempo l’umanità desidera e attende il riconoscimento concreto e l’attuazione pratica di diritti uguali e di dignità a vera dimensione di uomo!