Il Tempo, in sé fluire di momenti transeunti che vanno accolti, si apre a un "oltre" custode Eterno di valori trascendenti che vanno abitati. Vicende e realtà tendono alla suprema fusione nell'infinita Totalità, anima di ogni Speranza.

martedì 20 settembre 2005

QUALCHE OPINIONE SU ALEXIS DE TOCQUEVILLE.

"Non è affatto un ammiratore soddisfatto della società americana: nel suo intimo conserva una gerarchia di valori che assume dalla sua classe, l'aristocrazia francese” (Raymond Aron).

Diviso fra ammirazione e inquietudine per la democrazia e devozione e sollecitudine per la libertà, il dissidio egli lo portava dentro di sé” (Norberto Bobbio).

La Democrazia in America, il miglior libro mai scritto sugli Stati Uniti, si basava su un viaggio durato non più di nove mesi” (Eic Hobsbawn).

I moderni teorici della democrazia politica non sono interessati alla fondamentale condizione sociale di uguaglianza che Tocqueville aveva in mente” (Ralf Dahrendorf).

Noi, gli eremiti di massa

Così, Umberto Galimberti ha sintetizzato emblematicamente uno dei “miti d’oggi” nelle colonne di Repubblica (18 agosto 2005, pag. 35). Secondo lo studioso, oggi “si vive separati l’uno dall’altro, come i monaci di un tempo”, in quanto gli attuali mezzi di comunicazione rendono tutti gli uomini spettatori e non artefici e protagonisti degli accadimenti. La conclusione è consequenziale: “Le mille voci che riempiono l’etere eliminano le differenze tra gli uomini. E li rendono sempre più soli”.
Le riflessioni del Galimberti scorrono fluide e incontrastate:
  1. gli interlocutori di un dialogo non comunicano, oggi, esperienze personali soggettive e diverse. Ognuno ascolta, e a sua volta narra, ciò che già sa (dai e grazie ai molti mezzi di comunicazione: dal telefono a internet, dalla televisione alla stampa, dalla radio alla pubblicità);
  2. questo non significa prendere posizione sulla bontà o meno dei mezzi di comunicazione nè discutere sui buoni e cattivi maestri; ma significa solo “sentirsi costretti” a prendere atto che “la natura umana” è cambiata (e qui non si parla se in meglio o in peggio!);
  3. “Lo scambio – scrive l’Autore – ha un andamento solipsistico, dove un numero infinito di eremiti di massa comunicano le vedute del mondo quale appare dal loro eremo, separati uno dall’altro, chiusi nel loro guscio come i monaci di un tempo, sui picchi delle alture, non per rinunciare al mondo, ma per non perdere neppure un frammento del mondo in immagine”;
  4. Ecco la situazione capovolta tra interiorità ed esteriorità: prima si meditava in solitudine, si viveva nell’intimità protetta del proprio ambito familiare e, successivamente si andava in piazza per realizzare la vita sociale trattata come progettato nel proprio pensiero; oggi,al contrario, ci si rifugia nell’intimità della propria camera, dove si apprende e si vive la vita cosmica di tutto e di tutti, su tutto e su tutti;
La conclusione più immediata è che i mezzi di comunicazione attuali, indipendentemente dall’uso che se ne faccia, hanno determinato dei mutamenti essenziali nella stessa natura dell’uomo. Si tratta di una vera mutazione “oggettiva” e non solo “funzionale”:
Se il mondo viene a noi – sostiene il Galimberti – noi ‘non siamo nel mondo’,… ma (siamo) semplici consumatori del mondo. Se poi viene a noi solo in forma di immagine, ciò che consumiamo è solo il fantasma. Se questo fantasma lo possiamo evocare in qualsiasi momento, siamo onnipotenti come Dio. Ma poi questa onnipotenza si riduce, perché, se possiamo vedere il mondo senza potergli parlare, siamo dei voyeurs condannati all’afasia
I mezzi di comunicazione, allora, non sono soltanto dei “mezzi”, dal momento che incidono e determinano in maniera consistente la stessa natura dell’uomo. L’uomo deve recuperare la capacità di fare esperienza. L’uomo non è onnipotente; come non sono onnipotenti i mezzi di cui dispone. Milioni di uomini solitari dovranno comunicare esperienze nuove e umane: al di là dei mezzi di cui dispongono.

lunedì 12 settembre 2005

COSA CI FANNO GLI ESSERI VIVENTI SULLA TERRA? LA RISPOSTA CE LA RIVELA DIO O CE LA FORNISCE DARWIN?

E’ stato pubblicato il volume di Orlando Franceschelli dal titolo Dio e Darwin. Natura e uomo tra evoluzione e creazione (Donzelli Editore). L’autore, prendendo le distanze dagli estremismi sia dei naturalisti che dei creazionisti, ritiene plausibile l’ipotesi evoluzionista accanto a quella di un Dio che interagisce con le leggi dell’evoluzione. Vuole, quindi, lasciare aperta la porta per un dialogo tra scienza e religione, e tentare di eliminare il pericolo di una scienza presuntuosa e smaniosa di onnipotenza, da una parte, e di una religione intollerante che trasforma le credenze religiose in strumento di potere.

E’ inutile, però, illudersi! I termini del dialogo tra scienza e religione sono uniti tra loro da ponti molto sottili. Veramente molto sottili, soprattutto quando non vertono su problemi “forti” (quali la finalità del mondo, il fine della vita, i concetti di vita e di morte, l’essenza e l’esistenza dell’uomo), ma debbono misurarsi su terreni poco esplorati, anche se fertilissimi, delle scienze fisiche e biologiche in generale (quali il creazionismo e l’evoluzionismo) e neurologiche in particolare (il rapporto, ad esempio, tra cervello e mente). Questo “sottile” dialogo dà vita, a volte a collaborazione e a nuovi filoni di confronto, a volte (più frequenti) a polemiche inconcludenti, quando non oziose.

Non c’è da meravigliarsi. Il dialogo fra scienza e religione è bello e interessante, ma si realizza tra persone che hanno un approccio alla conoscenza molto diverso. E’ un dialogo veramente interessante! Basta non fare finta di avere molti terreni in comune. Oggi è un’abitudine, per motivi intellettuali, intendersela sempre e comunque con esponenti religiosi, che possiedono e propongono le loro idee, che sono sicuramente nobilissime.
Il problema è che, per le religioni, la divergenza con il metodo scientifico sta nell’approccio. La divergenza, quindi, sta a monte. Tutte le scienze postulano e accettano solo la precisione delle misure e il rigore del linguaggio; tutte le religioni, invece, fanno dell’ambiguità del linguaggio il loro punto di forza e la loro stessa ragion d’essere.

Giovanni Andreae, nella sua Christianopolis del 1619 (quindi, nell'importantissima opera che si colloca fra quelle del filone "utopia" (e che sta fra le contemporanee: La Città del Sole di Campanella, la Nuova Atlantide di Bacone e la Nova Solyma di Samuel Gott ) scrive:
"Una certa Confraternita (a parer mio, si tratta di uno scherzo, ma secondo i teologi è una questione seria ... ) promise ... le cose piú grandi ed insolite; proprio quelle cose che gli uomini generalmente desiderano; diede anche la straordinaria speranza di emendare la corruzione dell'attuale stato di cose e ... l'imitazione degli atti di Cristo"
Quale confusione tra gli uomini abbia fatto seguito a questa notizia, quale conflitto fra i dotti, quale agitazione, quale scalpore e scompiglio di impostori e truffatori, è inutile ricordare o riportare.

domenica 7 agosto 2005

SOMNIUM ovvero ASTRONOMIA DELLA LUNA - L'OPERA POSTUMA DI GIOVANNI KEPLERO

CAUSA DELLE MOLTE PERSECUZIONI CHE LO ACCOMPAGNARONO PER TUTTO L'ARCO DELLA VITA

L'opera postuma di Keplero - iniziata a Tubinga nel 1593 e terminata a Sagan nel 1630 - copre un arco di tempo lungo quanto l'intera sua attività di studioso e di ricercatore. In essa, quindi, troviamo registrati e documentati sia i momenti più significativi delle sue scoperte nel campo della fisica astronomica e sia le tappe fondamentali delle sue riflessioni filosofiche e religiose, che hanno sempre camminato di pari passo. L'opera definitivamente conclusa, pertanto, comprende: a) le prime audaci ipotesi "rivoluzionarie" e "copernicane" del giovanissimo studente di Tubinga (nell'ultimo decennio del 1500), b) le mature convinzioni dell'astronomo che, pur nella lucida consapevolezza dei rischi cui va incontro, professa (nel "pericoloso" primo decennio del 1600) la sua dottrina scientifica, quale unica realtà vera, anche se, così pensando ed operando, si poneva in contrasto con tutti gli insegnamenti ufficiali impartiti nelle università, c) le provate e sofferte conclusioni dello studioso tormentato e dell'uomo travagliato, che (per tutto il secondo e il terzo decennio del 1600) anela, in solitudine morale e in emarginazione intellettuale, soltanto a rimanere coerente con le risultanze della "sua" scienza e con i dettami della propria coscienza.

In questa prospettiva cessa di apparire presunzione o atto di ingenua vanagloria la risposta che scrive al Bernegger nel 1929, l'anno prima che lo cogliesse la prematura morte. All'amico, che gli chiede consiglio per qualche testo di matematica, suggerisce: " Che cosa sarebbe - scrive nel mese di marzo - se ti sottoponessi, giusto per celiare, la mia Astronomia della Luna ossia gli aspetti visibili degli astri? Certamente per noi, che veniamo cacciati dalle terre, questo sarà viatico che ci accompagna nelle peregrinazioni e nelle migrazioni verso la Luna. A quel mio libro aggiungo La faccia visibile della Luna di Plutarco tradotto interamente e nuovamente da me e integrato in parecchie lacune con apporti derivati dall'esperienza: cosa che è stata impossibile a Silandro, non essendo egli fisico di professione".

A porre mano di persona, per dare definitiva ed esaustiva sistemazione alle sue ricerche, è spinto da motivi personali veramente stringenti. " Due anni fa - aveva scritto, infatti, nel 1623 sempre al Bernegger - appena tornai a Linz, cominciai a ricomporre o, piuttosto, ad abbellire e rendere più chiara l'Astronomia della Luna. In verità, sono rimasto fermo per attendere, inutilmente, il libro La faccia visibile della Luna del greco Plutarco, che non mi è stato inviato da chi m'aveva promesso di mandarmelo da Vienna (…). Che cosa sarebbe se venissero pubblicate in un unico libro l'Astronomia lunare mia e quella di Plutarco? E non sarebbe pure raccomandazione valida quella che vengano aggiunte anche le Storie vere di Luciano? (…). Nel mio studio ci sono tanti problemi quanti righi tracciati: e, per di più, da risolvere in parte dal punto di vista astronomico, in parte dal punto di vista fisico, in parte dal punto di vista storico. Ma cosa vorresti fare? Quanti sono quelli che reputeranno degno d'affrontarli e di risolverli? Gli uomini, com'essi dicono, vogliono che le inezie di questo genere vengano fatte fuori con una leggera fiancata, e non sono facilmente disponibili a corrugare la fronte per simili passatempi. E allora ho deciso di risolvere ogni cosa io, aggiungendo alla fine del testo delle note in ordine successivo. Un esperimento fatto con il telescopio, che ho acquistato recentemente, mi ha offerto una visione meravigliosa e assolutamente notevole: città e muri, circolari stando alla forma dell'ombra da loro proiettata".
E, dando spazio alla sua ironia, certo non distruttiva, ma pregna di quell'amarezza che nasce negli animi onesti di fronte alla prepotenza spesso unita all'ignoranza di "uomini di potere", continua: "Che dire di più? Campanella ha scritto la Città del Sole; che cosa sarebbe se noi scrivessimo la Città della Luna? Forse sarebbe impresa mirabile mettersi a descrivere con i colori vivaci i costumi ciclopici del nostro tempo. Vorremmo oltrepassare il limite delle terre, per andare a rifugiarci negli immaginari imperi lunari? Ma perché usare scappatoie, dal momento che non furono al riparo né Moro nell'Utopia né Erasmo nell'Elogio della pazzia; anzi entrambi dovettero difendersi? Abbandoniamo, dunque, interamente questa pece politica e dimoriamo nei verdi boschi della filosofia naturale".

E' l'amarezza dell'uomo perseguitato ingiustamente, che voleva solo portare a termine i suoi studi, sempre turbati ma mai scalfiti dall'insano e miope comportamento di uomini tanto potenti quanto ignoranti. Keplero aveva steso - sul canovaccio della Dissertazione del 1593 - l'Astronomia della Luna nel 1609 a Praga, e l'aveva fatta circolare manoscritta in un numero limitato di copie. Fu proprio la diffusione di quest'opera a cacciarlo in guai seri, come egli stesso ci riferisce nella nota 8 del Somnium: "Non so se l'autore dell'audace satira intitolata Conclave di sant'Ignazio si sia imbattuto in un esemplare di questo mio libretto; ad ogni modo mi tocca espressamente sin dal principio. Andando avanti, appunto, conduce il povero Copernico davanti al tribunale di Plutone, dove, se non mi sbaglio, si accedeva attraverso le voragini del monte Hekla. Voi, amici, che siete a conoscenza dei miei fatti e sapete bene quale sia stato il vero motivo del mio recentissimo viaggio in Svezia, e soprattutto se qualcuno di voi per caso ha avuto tra mano prima d'ora il manoscritto, capirete benissimo che codesto libretto è stato per me e per i miei familiari di male augurio. Ed io sono d'accordo con voi. Il presagio di morte è sicuramente grande se riposto in una ferita mortale che viene inferta, o nel veleno che viene bevuto; ma non minore appare il presagio di sterminio familiare riposto nella diffusione di questo scritto, tanto che lo vedresti come una scintilla andata a cadere su un'esca ben asciutta; crederesti subito, cioè, che quelle parole scritte da me siano state raccolte da animi intimamente malvagi e capaci di congetturare solo ciò che è nero. Eppure il primo esemplare fu portato, nel 1611, da Praga a Lipsia e da lì a Tubinga, dal barone di Volckerstorff e dai suoi precettori per gli studi e per il comportamento. Cosa debbo dirvi ancora, perché crediate che si è chiacchierato (soprattutto se ad alcuni il nome della mia Fiolsilde sembrava di malaugurio a motivo della sua arte) di questa mia favola nei negozi da barbiere? Di certo, proprio da quella città e da quella casa sono nate le chiacchiere e le calunnie su di me negli anni immediatamente successivi; questi discorsi, raccolti da animi ostili, divennero immediatamente un grande incendio nella pubblica fama, alimentato e gonfiato dall'ignoranza e dalla superstizione. Se non m'inganno, in questo modo comprenderete che sarebbe stato facilmente possibile che la mia famiglia non soffrisse vessazioni durate sei anni e che io stesso non sarei stato costretto al viaggio costretto a fare l'anno passato: sarebbe stato sufficiente che io avessi violato gli ordini datimi in sogno da questa Fiolsilde. Adesso, quindi, mi è molto piaciuto vendicare questo mio sogno dalle molestie che vi ho riferito. Per gli avversari costituirà un'altra pesante punizione".

sabato 6 agosto 2005

LA SCIENZA CERCA LA REGOLARITÀ - MA ALL'ORIGINE DI CIÒ CHE ESISTE VI È UNA SUA VIOLAZIONE

"Che cos'è il mondo? Che cos'è che ha portato dio a crearlo e secondo quale piano? Da dove dio ha tratto i numeri? Quale regola governa una massa così enorme? Perché dio ha creato sei orbite? Perché ci sono questi intervalli tra ciascuna orbita? Perché Giove e Marte, che non si trovano nelle prime orbite, sono separati da uno spazio così vasto?". Con queste parole ha inizio il Mysterium Cosmographicum, la prima opera a stampa di Keplero, pubblicata a Tubinga nel 1596. A guidarlo nella sua lunga e solitaria avventura intellettuale è la convinzione di poter svelare "a priori" l'ordine razionale (copernicano), che presiede alla costituzione del mondo. Se un Dio matematico è l'artefice dell'universo, coglierne il "mistero" non equivale forse a scoprire il disegno e i lineamenti geometrici del cosmo? La concordanza tra i dati delle distanze planetarie forniti da Copernico e le dimensioni delle sfere inscritte e circoscritte ai cinque poliedri regolari diventa per Keplero la massima espressione di ordine e perfezione della geometria euclidea. Numero dei pianeti, distanze delle orbite, moti dei pianeti, rapporto tra le distanze e i tempi di rivoluzione, tutto si tiene insieme, inserendosi in un tipo di spiegazione a priori mai tentata prima di allora.
Il Mysterium non ebbe il successo sperato. Tycho Brahe, a cui Keplero aveva inviato una copia del libro, non poteva accettare nessuna delle ipotesi filosofiche e teologiche, che tanto avevano entusiasmato l'astronomo tedesco. Le assurdità insite nella teoria copernicana erano, per lui, così evidenti, da non meritare neppure di insistervi troppo. L'armonia e la proporzione del cosmo, inoltre, devono essere cercate "a posteriori", dopo lunghe e complesse osservazioni, e mai "a priori".

Keplero, comunque, tiene di conto della "lezione" del grande astronomo danese. Partendo dai dati osservativi lasciatigli in eredità (Tycho Brahe muore il 24 ottobre 1601), Keplero, che nel frattempo era stato nominato astronomo imperiale di Rodolfo II, pubblica nel 1609 una delle sue opere più importanti: l'Astronomia nova. In essa sono contenute le cosiddette prime due "leggi di Keplero": a) le orbite dei pianeti sono delle ellissi; b) il Sole occupa uno dei due fuochi e la retta che congiunge il pianeta al Sole descrive aree uguali in tempi uguali. La terza legge - il rapporto tra il cubo della distanza di un pianeta dal Sole e il quadrato del suo periodo di rivoluzione è costante - sarà pubblicata nel 1619, nell'Harmonices mundi.

Quali sono le principali conseguenze che possono essere tratte da queste leggi? a) Keplero afferma, in pieno accordo con i dati osservati, che le orbite dei pianeti sono ellittiche, negando così l'antichissimo principio secondo cui i pianeti si muovono su orbite circolari. b) Il moto dei pianeti non è uniforme, ma varia con la distanza dal Sole (il pianeta si muoverà più velocemente quanto più è vicino al Sole, e viceversa). Il Sole, dunque, svolge la funzione di forza motrice dei pianeti: una forza motrice quasi magnetica, dirà Keplero (non bisogna dimenticare che nel 1600 William Gilbert aveva pubblicato l'opera dal titolo De magnete, che ebbe una vasta influenza non soltanto su Keplero, ma anche su Galileo).

L'intero sistema dei moti celesti è, quindi, governato da una facoltà fisica. Fa eccezione la rotazione del Sole attorno al proprio asse, per spiegare la quale Keplero attribuirà al Sole un'anima motrice. Le novità introdotte dal copernicano Keplero non furono accettate dagli astronomi del suo tempo. Galileo le ignorò, così come fecero la maggior parte degli astronomi e matematici europei. Solo con la teoria della gravitazione universale di Isaac Newton esse trovarono una soddisfacente spiegazione teorica.

La scienza cerca la regolarità, ma all'origine di ciò che esiste vi è una sua violazione L'idea è affidata a un'immagine di Vitruvio, resa celebre da un disegno di Leonardo. Un uomo con le gambe e le braccia divaricate, il cui corpo risulta iscritto al tempo stesso in un cerchio e in un quadrato entrambi con centro nell'ombelico, "il centro naturale del corpo umano", dice Vitruvio. L'idea è quella classica di simmetria come armonia delle proporzioni. La simmetria, spiega Vitruvio nel De Architectura, "è l'accordo armonico tra le parti di una medesima opera e la rispondenza di proporzioni tra le singole partì e l'intera figura". E il corpo umano ne fornisce un esempio naturale, che serve da modello delle opere architettoniche. "Senza rispettare simmetria e proporzione, nessun tempio può avere un equilibrio compositivo, come è per la perfetta armonia delle membra di un uomo ben formato". L'uomo ha trasmesso alle sue creazioni la simmetria del proprio corpo, dai templi di cui parla Vitruvio progettati sui modelli greci ai moderni grattacieli di Kuala Lumpur. Del resto, la simmetria destra-sinistra che caratterizza il nostro corpo sta all'origine delle nostre osservazioni della simmetria. Basta guardarsi intorno per scoprire ovunque simmetrie, negli oggetti della natura e negli artefatti umani, dalle piante alle conchiglie, alle stelle marine, ai fiori, ai rosoni delle chiese romaniche, dagli archi dei portici alle arcate dei ponti.

La simmetria degli antichi, di cui parla Vitruvio, si fonda sul concetto di numero intero; è una relazione di commisurazione numerica, che permette di stabilite un accordo armonico tra diversi elementi. Il termine greco stava, appunto, a significare commensurabilità. Simmetrici erano, dunque, quegli elementi multipli di una misura comune. Quando i Pitagorici affermavano che il numero sta all'origine di ogni cosa, esprimevano la loro fiducia nell'armonia dell'universo assicurata dalla commisurabilità numerica di ogni rapporto.

La scoperta di grandezze incommensurabili, come la diagonale e il lato di un quadrato, mise drammaticamente in crisi la loro visione del mondo. "a-logòs", irrazionale. Nel mondo greco quel rapporto è, appunto, qualcosa di indicibile. Quei segmenti non hanno "proporzione", sono linee "non simmetriche", scrive Platone nel Teeteto. Per Platone le proporzioni numeriche hanno la funzione di "accordare" in un'unità due o più termini diversi, e "il più bello dei nessi è quello che fa, di sé e delle cose che connette, la maggior unità possibile; e questo è la proporzione che lo realizza nel modo più bello". La sezione aurea di un segmento, la proporzione "divina" tra le sue parti, ne costituisce l'esempio paradigmatico. Proporzioni, simmetrie e armonie di ispirazione pitagorica entrano in gioco anche nel Timeo a caratterizzare l'idea platonica della formazione degli elementi naturali. La chiave è fornita dai cinque solidi regolari, i perfetti esempi di simmetria, che ispirano a Leonardo le illustrazioni della Divina proporzione e a Keplero il sistema planetario che presenta nel suo Mysterium Cosmographicum.

sabato 30 luglio 2005

IL DIALOGO TRA TEOLOGI E FISICI E' VERAMENTE POSSIBILE?

Contro lo gnosticismo del passato e quello del presente, che tendono a considerare la natura come un sottoprodotto della Creazione, il pensiero teologico esclude ogni dualismo tra corpo e spirito, osserva Lino Conti, docente di Storia del pensiero scientifico all'università di Perugia. E cita un testo dimenticato, ma fondamentale in alcune sue parti: la Theologia naturalis del catalano Raimondo Sebunde, il quale affermava: il libro della natura, "digito Dei scriptum", contiene la dimostrazione scientifica dell'esistenza del Creatore. Così, è ancora più "forte e innovativo" il dialogo tra teologi da un lato e fisici, astronomi, informatici, filosofi , dall'altro. "Sono lontani i tempi della contrapposizione anche virulenta: ora le nostre idee dell'uomo e del cosmo non sono più alternative", constata Giuseppe Lorizio, professore di Teologia fondamentale alla Lateranense. Il "libro della natura" permette un contatto strategico tra scienza e teologia. Perché, spiega Conti, "occuparsi del libro della natura vuol dire occuparsi della scienza dei fatti e delle opere di Dio. Nella natura Dio si manifesta, è leggibile". E ha dato grande impulso alla ricerca scientifica questo "libro della natura", che è all'origine una metafora biblica.

Due studenti, però, che leggano il medesimo libro e ne comprendano il significato in modo diverso o addirittura opposto, vengono valutati sempre allo stesso modo dal loro "docente", oppure a uno si dà il massimo e all'altro il minimo dei voti? E comunque, un libro che si presti a letture così diverse, non deve essere poi il frutto di una mente veramente eccelsa, a meno che non venga letto da menti …dementi. O anche: a meno che non si impedisca la lettura "oggettivamente" vera". E questo è un altro discorso; il discorso che ricerca i nessi tra verità e potere.

Nel dialogo proprio della ricerca culturale "libera", l'incontro è l'ignoto punto d'arrivo di lunghi e spesso tormentati itinerari, e mai il punto di partenza, inizialmente proposto e conclusivamente imposto da una delle parti dialoganti.

venerdì 15 luglio 2005

ISAAC NEWTON: DALL'ARTE SACRA ALLA RICERCA SCIENTIFICA?

Michael Wite dedica una biografia al padre della gravitazione universale: Newton. L'ultimo mago. Sir Isaac - secondo la "rivelazione" dello storico inglese - oltre a scoprire i principi che danno forma al mondo, fu anche mago e alchimista. Il geniale fisico, infatti, "aveva passato più tempo assorbito nelle sue ricerche alchemiche che nell'esplorazione delle limpide acque della scienza". Si impegnò a lungo allo studio della cronologia della Bibbia, dell'astrologia e della numerologia, esaminò profezie, si dedicò alla magia cercando di rivelarne i segreti ermetici (la prisca sapientia) "e forse anche alla pratica dell'occultismo e della magia nera". La prova? il milione (circa) di parole sull'alchimia, che lasciò dietro di sé e in gran parte inedite. Il creatore della moderna teoria meccanica, insomma, più che il primo scienziato dell'età della ragione, appare piuttosto come l'ultimo dei grandi maghi. "Le ricerche di Newton nel campo dell'alchimia - è la conclusione di White - esercitarono un influsso fondamentale sulle scoperte scientifiche con cui egli cambiò il mondo".

Forse più correttamente, però, come scrive Michaela Pereira nel suo nuovo Arcana Sapienza, fu proprio in seguito ai lunghi studi nel campo dell'alchimia che "Newton dovette in qualche modo riconoscere che queste ricerche non lo avrebbero portato mai là dove aveva sperato di giungere". Trovò la luce , in sostanza, proprio perché scelse di abbandonare un tunnel che si perdeva nel buio. Dall'Arte Sacra, insomma, difficilmente si poteva arrivare alla legge di gravità.

Quasi tre secoli fa, Isaac Newton diceva di sé:
"Io mi vedo come un fanciullo che gioca sulla riva del mare, e di tanto in tanto si diverte a scoprire un ciottolo più levigato o una conchiglia più bella del consueto, mentre davanti mi si stende, inesplorato, l'immenso oceano della verità"
A quel che Newton chiamava "divertimento", noi siamo soliti dare il nome di scienza.

venerdì 24 giugno 2005

GIOVANNI ANDREAE e FRANCESCO BACONE - PER LA SCIENZA CHE GENERA LA SOLIDARIETA’ FRATERNA

UN MESSAGGIO FORTE DAL SEICENTO, QUALE SECOLO DELLA SCIENZA

L'opuscolo anonimo, Fama Fraternitatis o Rivelazione della Confraternita del nobilissimo Ordine della Rosa-Croce, stampato a Kassel da Wilhelm Wessel nel 1614, si apriva con queste parole: “Poiché l’unico dio saggio e misericordioso in questi ultimi tempi ha riversato sull'umanità la sua misericordia e bontà con tanta dovizia, da permetterci di conseguire una conoscenza sempre maggiore e perfetta di suo figlio Gesú Cristo e della Natura, possiamo vantarci a buon diritto di vivere in un tempo felice, in cui Egli non solo ha rivelato quella metà del mondo fino ad ora a noi sconosciuta e celata e ci ha fatto conoscere molte meravigliose opere e creature della Natura mai viste prima, ma ha anche fatto sorgere uomini di grande sapienza, che potrebbero in parte rinnovare e condurre a perfezione tutte le arti, ora contaminate e imperfette, cosicché l’uomo possa finalmente comprendere la sua nobiltà e il suo valore e perché sia chiamato microcosmo e quanto la sua conoscenza si estenda nella natura”. (Fama Fraternitatis o Rivelazione della Confraternita del nobilissimo Ordine della Rosa-Croce in Frances Amalia Yates, L'illuminismo dei Rosa-Croce, Appendice, Einaudi Editore, Torino, 1976. p.283).
Nel The Advancement of Learning, pubblicato nel 1605 e dedicato a Giacomo I, Francesco Bacone aveva lamentato le carenze del sapere, sia in ambito letterario che in ambito naturalistico, prospettando e presagendo la possibilità di un mondo in cui finalmente la fratellanza dello studio e dell’esercizio delle arti meccaniche avrebbe rinnovato tutte le attività umane: “il progresso scientifico consiste in una certa misura anche nel prudente governo e nelle sagge istituzioni delle singole università, così si avrebbe un accumulo di sapere, se tutte le università sparse per tutta l'Europa fossero fra loro in più stretti rapporti e collegamenti. Eppure esistono tanti ordini e sodalizi i quali, benché sparsi e dispersi in Stati diversi, sentono sempre una comunione che li affratella (…). E come la natura crea la fratellanza in una famiglia, le arti meccaniche trovano la loro comunione nei sodalizi, la unzione divina costituisce la fratellanza tra i re e i vescovi, i voti e le regole introducono la fratellanza negli ordini sacri; così non può mancare la fratellanza nobile e generosa tra uomini della scienza e della luce, giacché Iddio stesso è detto Padre dei lumi” (F. Bacon, The Advancement of Learning, II, dedica a Giacomo 1, p. 13; cfr. De augmentis scientiarum, la versione latina posteriore, in Opere filosofiche, a cura di Enrico de Mas, Laterza, Bari, 1965, vol. II, p. 84).

Johann Valentin Andreae (1586-1654), specialmente ne Le nozze chimiche di Christian Rosencreutz, (1459), usa spesso la dicitura “il padre della Luce” in luogo di Dio o Creatore (Johann Andreae, Valentin, Chymische Hochzeit Chrístiani Rosencreutz: Anno 1459, Strassburg, Zetzner, 1616; trad. it., Le nozze cbimicbe di Christian Rosencreutz, Anno 1459, Atanòr, Roma, 1975 o Milano, Studio Editoriale, 1987).

Nel 1620 verrà pubblicato a Londra, da Francesco Bacone, Lord Cancelliere d'Inghilterra, l'Instauratio magna nel cui frontespizio si vede una nave che a vele spiegate, su un mare tempestoso, sta attraversando le colonne d'Ercole e più sotto la citazione dal Libro di Davide Multi pertransibunt et augebitur scientia, e nel 1623 nella Nuova Atlantide (pubblicata postuma nel 1627) si narra che: “il re (…) emanò il seguente decreto: ogni dodici anni due navi equipaggiate dovevano salpare da questo regno per due diversi viaggi e in ciascuna ci doveva essere una missione di tre Soci, o Fratelli, della casa di Salomone, il cui unico scopo era quello di informarci sugli affari e sulla condizione dei paesi ai quali erano designati e soprattutto sulle scienze, sulle arti, sulle opere e sulle invenzioni di tutto il mondo e inoltre di riportarci libri, strumenti e campioni di ogni tipo. Le navi dovevano ritornare quando avevano sbarcato i fratelli che restavano all'estero fino ad una nuova missione (…) in questo modo, noi istituiamo un commercio non per procacciarci oro, argento o gioielli, né le sete o le spezie o qualsiasi altro vantaggio materiale, ma soltanto la prima creatura di Dio: la Luce; per essere illuminati - voglio dire - sullo sviluppo dì tutti i paesi del mondo” (Francesco Bacone, La Nuova Atlantide, Armando Editore, Roma,1998 p. 75).

La solidarietà fraterna rende possibile questo viaggio, il quale ha come solo obiettivo l'accrescimento del sapere che è l'unico modo per ottenere il potere sull'universo accessibile e raggiungibile dall'uomo; ovvero il progresso scientifico avvicina sempre più alla realizzazione di quel “regno dell’uomo” dove abita e governa la Luce. Bacone fa proprio questo concetto biblico sul quale costruirà tutta la sua filosofia della natura, perché Dio, come dice San Giacomo nella Lettera I, 17, viene detto Padre dei lumi e la fratellanza del sapere diverrebbe una fraternità di scienza e di luce. Con queste parole, difatti, egli termina il Novum Organon: “Egli, infatti, per il peccato, cadde dal suo stato di innocenza e dal dominio sulle creature. Entrambe le cose si possono recuperare, almeno in parte, anche in questa vita: la prima, con la religione e la fede; la seconda, con le arti e le scienze” (Francesco Bacone, Novum Organon, Bompiani, Milano, 2002, p.531).

giovedì 23 giugno 2005

Nelle mani di Paolo Casini il mito di Pitagora diventa una originale chiave di lettura di molte pagine della storia della cultura e della scienza (Paolo Casini, L’antica sapienza italica. Cronistoria di un mito, Il Mulino, Bologna 1998, pp. 372, da “Sole 24Ore” del 24 gennaio 1999).
Il mito è quello di Pitagora. Il mito si costituisce intorno al sodalizio fondato nel VI secolo a.C. da una figura che già nell'antichità è leggenda. Sciamano e semidio, mago, taumaturgo dotato di poteri sovrannaturali. Iniziato ai misteri egizi, seguace di Zoroastro e di Mosè. Matematico e fisico, assertore dell'eliocentrismo, riformatore morale e capo di una setta religiosa. Di origine greca o tirrena, capostipite della “scuola italica”. All'inizio dell'Ottocento si pone in dubbio “perfino la sua inafferrabile presenza storica”. Rivendicato ed enfatizzato tra Seicento e Settecento fino ad acquisire la consistenza di un mito nazionale tra l'età napoleonica e l'Unità.
“Le leggende che circondano il Pitagora riformatore, sciamano, autore di miracoli e di meraviglie - scrive Casini - ricadono nelle fabulazioni del pensiero mitico, in un passato sapienziale arcaico, distinto dalla fase creativa nella quale le intuizioni della “scienza” pitagorica si configurano come frutto di ricerche razionali”
A Pitagora sono state attribuite dubbie priorità di scoperte tramandate da aneddoti, dal teorema che porta il suo nome, agli intervalli della scala musicale ai numeri irrazionali e ai solidi regolari “platonici”, di cui Euclide mostra le proprietà. I detti oracolari, i tabù alimentari, la dottrina della reincarnazione dell'anima, il simbolismo arcano dei numeri e l'armonia delle sfere celesti. Dissolte le nebbie della leggenda, la critica moderna ha rivelato l'inconsistenza di molte attribuzioni, viziate “dal peccato d'origine delle finzioni e invenzioni neopitagoriche”. e tuttavia “la storia delle idee non procede soltanto per verità razionali”, afferma a ragione Casini. Il suo percorso è molto più incerto e sfuggente.Ecco perché
“ignorare un mito così multiforme per il suo alto contenuto di errore precluderebbe ogni comprensione dei motivi accessori che fiorirono ai margini della leggenda e nutrirono l'immaginazione di generazioni”

martedì 21 giugno 2005

CADE ANCHE PER LA STORIA DELLA SCIENZA UNO STEREOTIPO CULTURALE: MEDIOEVO “OSCURANTISTA” CONTRO RINASCIMENTO “LUMINOSO”

Quasi tre secoli fa, Isaac Newton diceva di sé: «Io mi vedo come un fanciullo che gioca sulla riva del mare, e di tanto in tanto si diverte a scoprire un ciottolo più levigato o una conchiglia più bella del consueto, mentre davanti mi si stende, inesplorato, l'immenso oceano della verità».

A quel che Newton chiamava “divertimento”, noi siamo soliti dare il nome di scienza.

L'autunno del Medioevo fu tutt'altro che cupo e oscuro. Fu in quel momento che vennero poste le basi della “rivoluzione scientifica” di solito attribuita a Copernico, Galileo, Keplero, Newton. Sembra che certi studi sul concetto di moto o sulla teoria della materia che stanno all'origine delle ricerche della fisica moderna in realtà fossero già avviati nel tardomedioevo.

Cade anche per la storia della scienza uno stereotipo culturale, che si impose nel secondo Ottocento e che Burckardt nel suo saggio sulla “Civiltà del Rinascimento” codificò storiograficamente: medioevo "oscurantista" contro rinascimento "luminoso", tempo della ragione sovrana che dissipa ogni credulità o superstizione. Erano passi compiuti già in altri campi da storici come Huizinga e Kristeller, ma uno studioso americano, Edward Grant, sostiene che questa svolta nella interpretazione della storia della scienza risale agli inizi del Novecento con i quindici volumi pubblicati da Pierre Duhem sulla scienza nel Medioevo: “Fu il primo studioso a vagliare una quantità di manoscritti medievali restati a lungo sotto la polvere e inesplorati. Dopo questa ricerca Duhem poté sostenere che la Rivoluzione scientifica che normalmente viene associata ai nomi di Copernico, Galileo, Keplero, Cartesio, Newton fu in realtà lo sviluppo di premesse scientifiche già formulate nel trecento, in particolare dai maestri parigini”. come nota Grant nel libro ora pubblicato da Einaudi, Le origini medievali della scienza moderna, questa tesi fu ampiamente contestata dallo storico Alexandre Koyré, che negava la continuità tra la scienza medievale e quella moderna. E questo suo rifiuto poggiava sull'idea di un cambiamento sostanziale di quello che un altro epistemologo celebre, Thomas Kuhn, ha definito il “paradigma” che distingue le epoche culturali e, in questo caso, scientifiche. Questo libro di Grant è una miniera di dati, di nomi e di curiosità che ad un tempo affascina e atterrisce. Spiegare come siamo arrivati a scoprire le galassie e la nascita delle stelle, o come siamo diventati di casa con anatomia e composti chimici è parte di questo intrigante libro di storia e di scienza, e indirettamente anche di filosofia e teologia. Grant è docente emerito all'Indiana University, negli Usa.

lunedì 20 giugno 2005

La fondazione dell’Università Popolare di Casarano

Il 20 giugno 2005 è stata fondata con atto notarile l’Associazione Università Popolare di Casarano. Amministrazione Comunale, quattro Istituzioni Scolastiche di Casarano (Liceo Classico, Liceo Scientifico, Istituto Professionale per l’Industria e l’Artigianato, Istituto Tecnico Industriale), quattro Associazioni non-profit locali e alcuni privati cittadini – su mia proposta e sollecitazione - hanno sancito il loro impegno comune a operare nel campo delle università popolari. Ecco i “Soci Fondatori:

  1. Prof. SCARCELLA Cosimo: promotore dell’Università Popolare, eletto all’unanimità Presidente per il prossimo quinquennio;
  2. Dottor VENUTI Remigio: Sindaco di Casarano;
  3. Prof. PEDONE Claudio: Assessore alla Cultura di Casarano;
  4. Avv. MEMMI Antonio: Assessore Pubblica Istruzione di Casarano;
  5. Prof. FASANO Franco: Dirigente Scolastico IPSIA di Casarano;
  6. Prof. MANNI Virgilio: Dirigente Scolastico Istituto Tecnico Industriale di Casarano;
  7. Prof.ssa PROVENZANO Maria Pia: Dirigente Scolastico Liceo Classico di Casarano;
  8. Prof. VENNERI Roberto: Dirigente Scolastico Liceo Scientifico di Casarano;
  9. Associazione “Cooperativa Senza Frontiere” di Casarano;
  10. Associazione “Amici del Presepe” di Casarano (Mimino DE MASI);
  11. Associazione “Pro-Loco” di Casarano (Ippazio PEDONE);
  12. Associazione “Primavera e Vita” di Casarano (Giovanni De Marco);
  13. Signor RICCHELLO Adriano.

venerdì 3 giugno 2005

L’Università Popolare di Casarano

Su queste fondamenta s'è voluto edificare la "Università Popolare di Casarano". Essa, dotata di un proprio Statuto , si alimenta, però, di tutto il patrimonio culturale che trova a sua disposizione, per proiettare le sue iniziative verso un futuro a breve e medio termine, ma percorrendo strade di concretezza e di efficienza. Per questo è molto attenta alle indicazioni e alle sollecitazioni contenute nei Documenti dell'Unione Europea, dell'Italia e della Regione Puglia.

Si fa riferimento soprattutto a:

mercoledì 1 giugno 2005

Cenni storici delle Università Popolari

Le prime Università Popolari in Italia furono organizzate alla fine del 1800, quando le situazioni di disagio economico rendevano difficile a molti cittadini accedere al mondo della conoscenza anche elementare, condannandoli spesso a rimanere del tutto analfabeti. Frequentare la scuola era privilegio riservato a pochi; accedere all’università, poi, appariva ancora più un sogno quasi chimerico. Si diede vita alle “Università Popolari”, che iniziarono ad impegnarsi all’istruzione di un numero sempre crescente di cittadini di ogni età e condizione sociale, coinvolgendo professionisti ed illustri uomini di cultura che fossero disponibili a offrire parte del loro tempo per partecipare le proprie conoscenze e le proprie competenze a strati sociali sempre più vasti, sicuri di restituire agli altri non pochi diritti fondamentali e di compiere da parte loro un dovere di civiltà e di responsabilità umana. Era, quindi, un’impresa che diveniva per loro stessi quasi una sfida affascinante e, per quel tempo, “rivoluzionaria”. Citiamo alcuni tra i docenti di allora: Giovanni Bovio, Gabriele D'Annunzio, Benedetto Croce, Roberto Ardigò, Gioacchino Volpe, Luigi Einaudi, Gaetano Salvemini.

Successivamente, a partire dall'ultimo dopoguerra, v'è stata un’ulteriore fioritura di Università Popolari, finchè, nel 1982, a Sorrento, il Prof. O. Ferulano, fondò la Confederazione Nazionale delle Università Popolari Italiane (C.N.U.P.I.). Soci fondatori e protagonisti di questa iniziativa erano proprio quelle antiche Università Popolari, dirette eredi di un passato così ricco di esperienze e di storia, ma anche tanto vitali da proiettarsi verso le sfide e le novità del futuro. Poco meno di dieci anni dopo, nel 1991, il Ministero dell'Università e della Ricerca Scientifica e Tecnologica, con un apposito decreto legge pubblicato sulla Gazzetta ufficiale n. 203 del 30.8.91, riconosceva alla C.N.U.P.I. la personalità giuridica, premiando così la validità, la serietà, ma anche l'attualità e le potenzialità future di un percorso di didattica e di formazione ormai già consacrato da una storia più che secolare.

mercoledì 23 marzo 2005

ENRICO DE MAS - LO STUDIOSO, IL MAESTRO, L’AMICO - (Pisa, 1926-1990)

UNA VITA CON UN SOGNO: ESSERE COSTRUTTORE DI PACE

Il 27 marzo 1990, vinto in poco tempo da malattia inguaribile, moriva a Pisa, dov’era nato il 15 luglio 1926, Enrico De Mas. Il prof. Giuliano Marini, comune amico fraterno, in quell’occasione pronunciò un indirizzo di commiato: parole brevi e fluide, dettate spontaneamente dalla condivisione di tante esperienze umane e culturali e dalla comunanza di ideali di civiltà e di sentimenti religiosi: cioè dall’antica partecipata meditazione - in profonda sintonia di pensiero e intima coesione di spirito - di progetti e di sogni di possibile rinnovamento dell’umanità. Nessun tratto di ostentazione; nessuna ricerca di visibilità; nessuna rivendicazione di primato e di primogenitura. Le parole pronunciate allora erano contenute in tre pagine, che l’amico Marini mi diede privatamente, conoscendo l’affetto e devozione che io nutrivo verso De Mas. Ho letto più volte quelle pagine, ripensando alle lunghe conversazioni col mio “maestro e amico”; soprattutto a quelle dei suoi ultimi giorni di vita. Sono passati quindici anni, e ritengo “bello” rileggere e commentare alcuni pensieri di quello scritto.

“Si rimane impressionati – disse il Marini, ricordando lo studioso – dall’ampiezza delle ricerche condotte da De Mas, e dalla vastità della sua erudizione storica e filosofica. Soltanto una vita operosissima, condotta al riparo dalle mode, poteva consentirgli, nei nostri tempi dispersivi, una tale messe di risultati”. Infatti, l’amico Enrico De Mas, nella sua non lunga vita, “seppe convogliare nella sua operosità scientifica lo spirito filosofico e l’attenzione alla concretezza storica, unite sempre da un preminente senso morale”.

Enrico De Mas si era laureato in Filosofia con Armando Carlini e, successivamente, in Scienze Politiche con Giacomo Perticone. Studia sin dall’inizio Vico e Bacone, anche se il suo Autore preferito e veramente amato rimane sempre Francesco Bacone. Nel 1959 scrive il piccolo lavoro Bacone e Vico; nel 1964 pubblica alcune sue profonde meditazioni su Francesco Bacone da Verulamio: la filosofia dell’uomo: è l’inizio della grande fatica durata alcuni anni, durante i quali dà alla luce la “sua” traduzione italiana delle opere del filosofo inglese: Opere Filosofiche (1965), Novum Organum (1968), Scritti politici, giuridici e storici (1971), l’opuscolo Francis Bacon (1978). Il Bacone di De Mas è il banditore della filosofia, della scienza e della tecnica che, ispirate da spirito cristiano, avrebbero consentito il perseguimento di un realistico regno dell’uomo sulla terra. “Il suo secolo – disse Giuliano Marini - si confermava, negli studi degli anni successivi, quel Seicento che era stato intravisto o sperato come epoca di una cristianità ricomposta e pacificata, nel segno di interpretazioni bibliche e di approfondimenti teologici che restituissero il deposito antico della fede cristiana, liberandolo da incrostazioni positive e da artificiose divisioni ecclesiastiche. La più ampia di quelle indagini si ebbe nel 1982 con L’attesa del secolo aureo (1603-1625), splendido affresco di un’età pervasa da fremiti religiosi e politici”. Seguirono lo studio sulla Descrizione della Repubblica di Cristianopoli nel 1983 e, nel 1987, le Lettere di Fulgenzio Micanzio a William Cavendish.
Gli interessi speculativi di De Mas investono, contemporaneamente ma soprattutto negli ultimi anni, un altro campo di interessi: i pensatori e le correnti del Novecento filosofico italiano, con particolare riferimento alla storia della filosofia detta “minoritaria”, in quanto non in mostra né in posizione di confronto, ma non per questo meno carica d’incisività teoretica e di capacità innovativa grazie alle concrete proposte di rinnovamenti, sempre dettati da esigenze morali e sorretti da motivazioni anche religiose, ritenute sicuro lievito di dignità umana nella libertà politica. Tale posizione è esemplarmente rappresentata dai volumi Giuseppe Rensi tra democrazia e antidemocrazia del 1978 e Dibattito di filosofia politica italiana (1919-1929) del 1985, nei quali esamina (con puntualità storica) e valuta (con rigore logico e morale) teorie e prassi politiche contemporanee, dimostrando come numerosi pensatori debbano entrare a buon diritto a far parte della storia delle dottrine politiche, in quanto, essendo stati autori di analisi storiche spesso ampie, o anche solo di opuscoli impegnati, di scritti di storia e di diritto, non possono rimanere ancora al margine nemmeno nella sola discussione del problema più generale, e cioè del posto da assegnare all’attività politica nell’ordine delle scienze teoretiche e pratiche. L’intera indagine che De Mas dedica a questi autori contemporanei mira anch’essa ad evidenziare la possibilità concreta di democrazie sorrette da motivi civili e morali, sorretti sempre da spirito religioso autentico: di democrazie, cioè, che pensino società e sostengano governi fatti a vera e totale misura d’uomo, in cui siano reali, quindi, nuove prospettive culturali, alimentate da convinzioni fondamentali comuni alle varie concezioni culturali, ai diversi progetti politici, e anche alle sempre più numerose confessioni religiose.

E’, questo, uno dei motivi dominanti di tutti gli studi e della vita intera di Enrico De Mas. E negli ultimissimi mesi aveva avviato la realizzazione di un suo grande sogno, al quale teneva immensamente e nel quale riponeva speranze profonde: aveva dato vita alla pubblicazione della Collana “Eirenikon”, consegnando alle stampe i primi tre volumi da lui stesso curati: erano testi di Francesco Bacone, di Fulgenzio Micanzio e di Marc’Antonio De Dominis; nel frattempo aveva provveduto ad ‘assegnare’ ad altri studiosi (che lui desiderava – come ripeteva ogni qualvolta si presentava l’occasione - “capaci, ma anche lucidi e generosi, onesti e profondi”) la ricerca sulle opere di altri Autori, di cui aveva approntato una lunga lista che comprendeva, tra gli altri, Amos Comenio, Giovanni Keplero, Gaspare Scoppio, Goffredo Guglielmo Leibniz, Ugo Grozio, Francesco Pucci, Francesco Du Jon, John Goodwin, Michel de L’Hospital: “una ideale comunità – come commentò il Marini - di spiriti liberi In quei giorni appariva animato da un insolito entusiasmo; una gioia rara ne dipingeva lo sguardo, in genere schivo ma incisivo. I volumi freschi di stampa gli furono portati, mentre era già nel letto dove sarebbe morto dopo qualche giorno: li teneva tra le mani, guardandoli di tanto in tanto, come volesse custodirli e difenderli da ogni pericolo. “Questa collana di testi irenici ed ecumenici dei secoli XVI-XVII-XVII – aveva scritto nel Prodromo del primo volume – comincia con una esauriente raccolta degli scritti di Francis Bacon, dedicati ex professo ai problemi teologici, ecclesiologici e politico -ecclesiastici, che per certi aspetti è destinato a dare il tono generale e l’impostazione di fondo a tutta la serie. Essa tende a raccogliere e a riproporre all’attenzione degli studiosi - seguendo sempre i criteri scientifici della sistemazione storiografica e le regole della filologia del testo - le proposte concrete, meglio se inedite e conservate in antiche carte o in stampe rare, di carattere teologico, morale, diplomatico, pedagogico e filosofico, che furono dettate in quei secoli da scrittori eminenti e influenti, per la notorietà che ebbero nella repubblica delle lettere e per la particolare competenza e padronanza dei mezzi idonei ad affrontare il problema più rilevante ed aspro del momento: lo scandalo delle guerre di religione fra i cristiani di opposta confessione o appartenenti a chiese e sette rivali”.
“Quest’ammirevole progetto, insieme scientifico ed etico-religioso, – annotò con razionale amarezza il Marini – è stato bruscamente interrotto, e siamo bruscamente richiamati alla coscienza della provvisorietà nostra e delle nostre opere. Nella sua mitezza, insospettato sognatore, il nostro amico coltivò arditi sogni della ragione. ‘Uomo dei dolori che ben conosce il patire’ – se è lecito usare le parole di Isaia – egli seppe trasformare le asprezze quotidiane in strumento per un silenzioso esercizio di rigore su se medesimo e per la conquista di nuovi orizzonti per la comunità scientifica (…). Tutti coloro che lo hanno conosciuto ricordano commossi lo studioso, il maestro, l’amico”.

Durante le festività natalizie del 1989, prima di salutarci nella stazione di Pisa, mi fece leggere alcune pagine dattiloscritte: era il regalo natalizio che mi aveva preparato nella solitudine del suo studio; non glielo avevo chiesto, ma sapeva che ne sarei stato contento: Erano pagine di Presentazione al mio volume di ristampa della monografia scritta nel 1943 da Alfredo Poggi su Piero Martinetti. Ricordo la sua espressione sorridente di soddisfazione, unita a profonda consapevolezza che la vita va accettata sempre e comunque, con umana razionalità e religiosa disponibilità. Ne avevamo parlato tante volte tra di noi, ma in quei giorni egli vi aveva insistito: mi aveva confidato di non sentirsi bene, ma nulla di più. Avrei anticipato il mio ritorno a Pisa solo qualche settimana dopo, ma non per “chiacchierare” (come amava chiamare le nostre lunghe conversazioni) ma per raccoglierne le ultime confidenze. La sua era ormai lucida e malinconica accettazione.
Enrico De Mas non vide il mio volume pubblicato; era ancora in stampa, ed io potei solo aggiungervi un Post-Scriptum, dove scrissi, tra l’altro che “una malattia mortale l’ha sottratto alla terrena repubblica delle lettere, di cui egli è stato degno e prestigioso cittadino. Riteniamo siano state le ultime pagine da lui scritte. E se per tutti esse trasmettono il messaggio che documenta la sua nobiltà d’ingegno e la sua elevatezza di sentimenti, per noi custodiscono il testamento spirituale dell’amico disinteressato e del maestro profondo ed umile. Eredità feconda rimane il suo realismo ricco di entusiasmo e di fiducia in un mondo concretamente perfettibile grazie alla pacifica laboriosità di uomini moralmente responsabili. Ed in tutta la sua opera egli ha trasmesso con autorevolezza e suadente vigoria i segreti della fede nelle veraci conquiste dello spirito umano, incessantemente proteso verso il trascendente, creduto con incrollabile fermezza”.

lunedì 21 marzo 2005

QUANDO IL “SILENZIO” NON E’ CONSENSO (SPESSO SERVILE), MA DIFESA (SPESSO EROICA) DELLA LIBERTA’, FONDAMENTO DELLA DIGNITA’ UMANA

Il 28 marzo 1926 si aprivano, a Milano, i lavori del VI congresso filosofico nazionale, promosso dalla Società Filosofica Italiana. Il congresso era stato organizzato dal filosofo Piero Martinetti, il quale, presidente d’allora della Società Filosofica Italiana, lo inaugurò solennemente con un discorso, che fu stampato postumo col titolo I congressi filosofici e la funzione sociale e religiosa della filosofia (in “Rivista di Filosofia”, 1944, n. 3-4, pp. 101-109; ora in Saggi filosofici e religiosi, a cura di Luigi Pareyson, Torino, Bottega d’Erasmo 1972, pp. 37-44).

Al congresso erano stati invitati tutti, senza distinzione d’orientamenti dottrinali e di credo religiosi; ma non vi fu l’adesione dei gentiliani né la partecipazione dei cattolici.

Il 29 marzo teneva la sua relazione Benedetto Croce su La filosofia italiana da Campanella a Vico; il 30 marzo Francesco De Sarlo pronunciava – tra molti applausi – la sua relazione su L’alta coltura e la libertà; il giorno successivo avrebbe dovuto parlare Ernesto Buonaiuti su La religione nel mondo dello spirito: ma il congresso fu sospeso e sciolto con l’intervento autoritario del commissario di polizia. Anche la “Società Filosofica Italiana” fu soppressa e sostituita dal “Regio Istituto Filosofico Italiano” sovvenzionato dallo Stato e retto da un organo ufficiale, la cui presidenza era affidata per nomina governativa.

Eugenio Garin, riferendosi a questi avvenimenti, evidenzia come Martinetti, difendendo la ragione quale sicura salvaguardia dell’autentica libertà, si veniva a trovare in comunione con “pensatori tra loro lontani”, e proprio per questo – sottolinea – non fu certamente un “fiore retorico” l’affermazione di Martinetti a proposito della “presenza dello scomunicato Buonaiuti e del ritiro dei cattolici: “non potevo rendermi esecutore di un decreto di scomunica io, filosofo, cittadino di un mondo nel quale non vi sono né persecuzioni né scomuniche” (Eugenio Garin, Cronache di filosofia italiana, Bari, Laterza 1966, p. 390).

Qualche anno dopo, nel 1933, il Martinetti fu uno dei dodici professori universitari – su circa dodicimila – che si rifiutò di prestare il giuramento richiesto autoritariamente dall’allora governo fascista: preferì la difesa della dignità umana e professionale, e scelse la libertà della ragione, rinunciando “dignitosamente” alla vita accademica e alla cattedra universitaria, che si era conquistato con il valore dei suoi studi e che aveva onorato con la ricchezza speculativa del suo pensiero e delle sue opere. Si ritirò a vita privata, disdegnando la ribalta e rifiutando ogni forma di ostentazione. Senza mai mettersi in mostra, continuò i suoi studi al riparo da ricatti miserevoli e da condizionamenti spregevoli. Dal santuario della solitudine della sua casa continuò a essere maestro di libertà morale e civile, esempio indiscusso di coerenza profonda e umile. Rimase totalmente fedele e assolutamente libero nell’intimità del suo spirito, imponendosi – suo malgrado - come perenne rimprovero vivente a chiunque aveva barattato (e continuava a farlo) la dignità dell’essere umano per ottenere o conservare carriere, onori e potere.

“Non si può ritenere che la fede di tante generazioni sia tutta nelle fredde testimonianze dei suoi interpreti ufficiali. Invisibili, innumerevoli altri legami congiungono noi al Cristo. Senza di essi il Cristianesimo sarebbe una religione di pergamene e una fede di amanuensi”.
(ERNESTO BUONAIUTI, Prefazione alla Storia del Cristianesimo, Milano, 1942-1943).
“Il prurito del disputare in teologia viene dalla scabbia delle Chiese”.
(HENRY WOTTON, personalità inglese del XVII secolo, grande conoscitore dell’Italia del tempo, per tre volte ambasciatore inglese presso la Repubblica di Venezia).
“Esiste un ordine o ‘gerarchia’ nelle verità della dottrina cattolica, essendo diverso il loro nesso col fondamento della fede cristiana”.
(Decreto sull’Ecumenismo 11 Unitatis redintegratio; mons. PANGRAZIO, Vescovo di Gorizia).

venerdì 14 gennaio 2005

ALBERT EINSTEIN, CINQUANT'ANNI DALLA MORTE - (Ulm 1879 - Princeton 1955)

UNA SCIENZA AL SERVIZIO DELLA PACE, ovvero FILOSOFIA PRATICA E SOLITUDINE MORALE

Il 18 aprile 2005 ricorre il cinquantesimo anniversario della morte di Albert Einstein. Il 2005 è pure il centenario della pubblicazione su "Annalen der Phisik" del suo saggio Sull'elettrodinamica dei corpi in movimento, nel quale il fisico tedesco esponeva i fondamenti della sua teoria della relatività speciale; sempre nel medesimo anno (appunto nel 1905) elaborava il primo modello matematico in grado di essere utilizzato nello studio dei moti browniani e presentava, infine, una memoria contenente la spiegazione dell'effetto fotoelettrico, per la quale gli sarà assegnato il premio Nobel. "Voglio capire - scrive Einstein nel 1929 nel suo Il mondo come io lo vedo - come Dio ha creato il mondo. Non mi interessa questo o quel fenomeno in particolare: voglio penetrare a fondo il Suo pensiero. Il resto sono solo minuzie (...). L'esperienza più bella che possiamo avere è il senso del mistero. E' l'emozione fondamentale che accompagna la nascita dell'arte autentica e della vera scienza. Colui che non la conosce, colui non può più provare stupore e meraviglia, è già come morto, e i suoi occhi sono incapaci di vedere". Einstein non vuole, quindi, intuire la presenza di un ipotetico Creatore, ma scoprire il significato intrinseco delle cose del mondo. A lui interessa, perciò, comprendere "come" Dio ha creato il mondo; e lo fa immergendosi, con audacia e totalità, nell'indefinito oceano del mistero, che lo scienziato desidera penetrare e, senza violentarne la sacralità, illuminarne quelle parti, che la sua intima meditazione e la sua tenace riflessione sapranno conquistare. E' la solitudine esplosiva della ricerca scientifica che consente allo scienziato di "vedere il mondo" a modo suo: solo così può sperare di conquistare il senso delle cose, impossessarsene e parteciparlo poi, gratuitamente e incondizionatamente, all'umanità. Significativo, allora è quanto scriverà nel 1945, quando si ritirerà ufficialmente dall'insegnamento: "Oggi l'energia atomica non è un bene per l'umanità, ma una minaccia". Sperava che una simile minaccia incitasse gli uomini ad cercare maggiore saggezza e, comunque, tale da spronarli a inventare forme di vita associata a livello anche internazionale che garantisse la sopravvivenza dell'umanità, preservandola dalle conseguenze di quelli che egli definiva "gli orrendi ordigni inventati in questi anni".

Einstein unì costantemente l'attività di scienziato all'impegno etico e sociale, ispirandosi all'ideale morale e politico di Gandhi. Il pacifismo militante contraddistinse l'intera vita dello scienziato; la pace tra le nazioni costituì un anelito intimo e appassionato, che lo accompagnò ogni giorno della sua esistenza; anche poche ore prima della morte, scrivendo all'allora premier indiano Nehru, diceva: "le armi per la distruzione di massa hanno raggiunto una potenza tale che il mondo può essere distrutto, se l'uomo non trova i mezzi per vivere in pace con i suoi simili". Queste preoccupazioni per il destino dell'umanità, che peraltro resta determinato notevolmente dalle capacità intellettive dell'uomo e, quindi, fortemente legato alle risorse culturali e morali dell'uomo, fanno di Einstein un filosofo impegnato, anche se non teoretico. Il padre della relatività, infatti, non formula domande speculative sulla natura del mondo, né si pone interrogativi astratti sull'esistenza dell'uomo. Per lui la filosofia vera, o comunque quella che lo interessa e lo coinvolge, non può soffermarsi a discutere sull'essere, sul non-essere o sul divenire; la filosofia per lui assume validità solo in quanto diventa operativa, nel senso che, senza indugiare a meditare su problematiche astratte (considerate come proprio oggetto di studio), s'impegna a chiarificare i grandi problemi, che forse inizialmente hanno costituito il territorio specifico della filosofia tradizionale, ma che ora sono divenuti ormai oggetto di altre scienze, quali la matematica, la fisica, la psicologia, la biologia, la sociologia, la politica. Ed i concetti di spazio e di tempo, di geometria e di aritmetica diventano, così, grazie all'impegno di Einstein, patrimonio della fisica, la quale non può e non deve occupare energie a discutere sull'ipotesi dell'esistenza di un etere e sulla concezione di un sistema di coordinate inerziale; Einstein fonda ormai la fisica su dati evidenti e chiari, che la rendono razionale per cui i confini tra fisica e filosofia, se non coincidono, non hanno più una linea di demarcazione. "Io credo che ci sia una realtà al di fuori di noi": così rispondeva a chi gli chiedeva se esistesse un mondo oggettivo reale. Io credo: la scienza, cioè, è creazione della mente umana; è una libera invenzione dell'umana creatività, mediante la quale si vuole comprendere in schemi spiegativi sempre più vasti e meno incerti il sempre più esteso e ricco mondo dell'esperienza umana. Einstein scienziato contempla in sé stesso le proprie idee, che rinnova in una lotta drammatica condotta per sempre meglio capirsi e capire; è una lotta che dura all'infinito; è la lotta che racconta la storia della scienza. La scienza risolve molte difficoltà, e spesso con vere rivoluzioni culturali, ma continua a crearne anche delle nuove, che pongono a loro volta problemi nuovi e nuove contraddizioni, il cui superamento determinerà gli ulteriori sviluppi e l'avanzamento del sapere scientifico.

La scienza è, quindi, costruzione audace ma fondata dall'intelligenza umana; e tuttavia Einstein si chiede cosa esprima la scienza: esplicita essa la struttura reale di un mondo oggettivo? Ma, un mondo oggettivo c'è realmente? E, ponendosi al di là delle risposte dei filosofi sia realisti sia idealisti, e respingendo l'atteggiamento presuntuoso e negativo dei logici neopositivisti (i quali deriderebbero la domanda stessa), Einstein accoglie il senso umano del quesito scientifico e, inoltrandosi nel regno della sacralità religiosa, risponde nel suo saggio del 1929 Il mondo come io lo vedo: "L'esperienza più bella che possiamo avere è il senso del mistero. E' l'emozione fondamentale che accompagna la nascita dell'arte autentica e della vera scienza (…). Lo scrutare nei misteri della vita, anche se misto alla paura, ha dato origine alla religione. Sapere che ciò che per noi è impenetrabile esiste realmente, manifestandosi come la più alta saggezza e la più radiosa bellezza che le nostre povere facoltà possono comprendere solo nelle loro forme più primitive - questa conoscenza, questo sentimento, sono al centro della vera religiosità. In questo senso, io appartengo alla schiera degli uomini profondamente religiosi". Ecco la religione in Einstein: la chiave essenziale che apre le serrande della vita stessa, sia dal punto di vista della conoscenza, là dove il senso comune fallisce e occorre trovare più alte vie d'illuminazione interiore; sia dal punto di vista dell'azione, là dove la mistica dell'ubbidienza passiva e la forza sfrenata del volere vengono rivendicate come unico rimedio per evitare le ambigue vie dell'utile e i tortuosi sentieri della morale dell'obbedienza incondizionata. Scienza, filosofia e religione, nel sentire del fisico tedesco, sono un trinomio indissolubile e necessario al senso della vita dell'umanità, soprattutto nei brutti tempi della storia, quali quelli che si stavano profilando in quel periodo: sotto le apparenze delle democrazie si scorgeva già (ieri come oggi) un diffuso agnosticismo individuale e un dilagante utilitarismo nazionale, e dietro la facciata delle pubbliche libertà stava in agguato (ieri come oggi) il più turpe conformismo ideologico, terreno fertile per le tirannidi. E Einstein ammoniva: la libertà di pensiero è una conquista che si ottiene per gradi e con un continuo approfondimento della libertà di coscienza. Questo fa di Einstein non uno spettatore passivo delle vicende europee e mondiali, ma un osservatore attento e partecipe, anche se senza quei coinvolgimenti emotivi che ne avrebbero alterato la visione dei fatti; è lui stesso a dircelo nel medesimo saggio del 1929: "Il mio appassionato interesse per la giustizia e la responsabilità sociale è sempre stato in curioso contrasto con una spiccata assenza del desiderio di una associazione diretta con uomini o donne. Io sono un cavallo fatto per il tiro a uno, e non sono tagliato per lavorare in pariglie o in tiri a quattro. Non ho mai appartenuto con tutto il cuore a un paese o a uno stato, alla mia cerchia di amici o anche alla mia stessa famiglia. Questi legami sono stati sempre accompagnati da un vago senso d'indifferenza, e il desiderio di ritirarmi in me stesso aumenta col passare degli anni. Questo isolamento è talvolta amaro, ma io non rimpiango di essere escluso dalla comprensione e dalla simpatia degli altri uomini. Con ciò, non lo nego, io perdo qualcosa, ma di questa perdita io sono ricompensato col rendermi indipendente dalle abitudini, dalle opinioni e dai pregiudizi degli altri, e non sono tentato di riporre la pace del mio spirito su fondamenta così instabili".

Disprezzò sempre, anzi odiò la violenza, la prepotenza, l'ingiustizia. Egli, che dimostrò sempre disponibilità al dialogo e al confronto, non esitando mai ad andare in aiuto di chiunque glielo chiedesse, restò risoluto e inflessibile dinanzi ad ogni tentativo di piegarlo verso politiche che simpatizzassero per sistemi illiberali o, tanto peggio, liberticidi. Nel 1930, in un discorso tenuto a una manifestazione studentesca per il disarmo, affermava: "Trasmettendoci una scienza e una tecnica altamente sviluppate, le passate generazioni ci hanno fatto dono di uno strumento prezioso, capace di migliorare e arricchire la nostra esistenza in una misura fin qui sconosciuta. Tuttavia, esso reca con sé anche dei pericoli che rappresentano una inaccia per il genere umano". L'anno successivo, durante la conferenza del disarmo, sosteneva: "I benefici apportati dal genio inventivo dell'uomo nel corso degli ultimi cento anni, potrebbero rendere la vita felice e libera da preoccupazioni, se al progresso tecnico avesse corrisposto un pari sviluppo nel campo dell'organizzazione sociale. Allo stato attuale delle cose, nelle mani della nostra generazione le conquiste raggiunte con tanti sacrifici hanno lo stesso senso di un rasoio adoperato da un bambino di tre anni. I meravigliosi strumenti di produzione di cui disponiamo hanno portato, anziché libertà, dolore e fame". Il 30 luglio 1932, aderendo alla richiesta delle Nazioni Unite, scrive una lettera a Freud, chiedendo al padre della psicanalisi lumi sulla domanda: "C'è un modo per liberare gli uomini dalla fatalità della guerra? E' ormai risaputo che, col progredire della scienza moderna, rispondere a questa domanda è divenuto una questione di vita o di morte per la civiltà da noi conosciuta, eppure, nonostante tutta la buona volontà, nessun tentativo di soluzione è purtroppo approdato a qualcosa". I suoi convincimenti li troviamo espressi con chiarezza in due documenti del 1939. Il primo è la lettera scritta il 2 agosto al presidente degli Stati Uniti d'America, con la quale lo scienziato riesce a rompere la compattezza marmorea della mentalità militare; suggerisce, infatti, al presidente "l'opportunità di stabilire un collegamento permanente tra il governo e il gruppo di fisici che, in America, lavorano alla reazione a catena, collegamento che potrebbe essere facilitato dalla nomina di un responsabile di Sua fiducia, autorizzato ad agire anche in veste non ufficiale". Il secondo documento è lo scritto Solo allora saremo liberi, nel quale scrive: "La scienza ha fatto sorgere questo pericolo, ma il vero problema è nella mente e nel cuore degli uomini. Noi non cambieremo i cuori di altri mediante meccanismi, ma solo cambiando i nostri cuori e parlando onestamente. Dobbiamo essere generosi nel dare al mondo la conoscenza che noi abbiamo delle forze della natura, dopo aver preso le opportune precauzioni contro ogni abuso. Noi dobbiamo essere non solamente disposti, ma attivamente premurosi di sottometterci a un'autorità superiore necessaria per la sicurezza del mondo. Dobbiamo renderci conto che noi possiamo fare contemporaneamente progetti di pace e di guerra. Quando saremo limpidi di cuore e di mente, solo allora troveremo il coraggio di superare la paura che incombe sul mondo".

Noi oggi, cittadini di un mondo che ama dirsi e si vanta d'essere "globalizzato", continuiamo a essere grati ad Albert Einstein: esempio di saggezza e di bontà, pari alla sua lungimiranza coraggiosa e disincantata, proprio perché dettata dalla conoscenza profonda delle cose del mondo e dell'animo umano.

ALFREDO POGGI - UN SOCIALISTA KANTIANO, ovvero PRASSI POLITICA E COERENZA MORALE

ALFREDO POGGI
(Sarzana-La Spezia 1881 - Genova 1974)

Trent’anni fa moriva Alfredo Poggi. Un pensatore “minore”, in quanto esponente di culture ritenute “minoritarie”, perchè non in mostra o in competizione, e anche perché bersaglio dell’ostracismo della cultura ufficiale, arroccata in quel tempo in grembo a quell’idealismo immanente che, al di là delle divergenze personali, accomunava ancora Croce e Gentile e, dopo di loro, i discepoli dell’uno e dell’altro. Questa condizione d’emarginazione e d’isolamento non sminuiva, però, la forza con cui il Poggi incideva nelle coscienze e operava nel tessuto sociale. Anzi, ne esaltava il coraggio e l’audacia. Significativo è il comportamento ch’egli tenne quando, alla fine del marzo 1943, morì un altro campione della libertà intellettuale e religiosa, Piero Martinetti, anch’egli – come lo stesso Poggi e pochissimi altri (tra cui Achille Pellizzari, Jacopo Ruffini, Giulio Einaudi, Della Vida, Giuseppe Rensi) - perseguitato e privato del diritto d’insegnare sulla cattedra universitaria, per il fatto che non si piegò a prestare il giuramento richiesto dal regime fascista quale condizione per mantenere l’insegnamento universitario. Poggi allora stese, senza indugi, nonostante e incurante delle difficoltà proprie di uno “sfollato”, un’agile e schietta monografia sull’amico scomparso, che uscì stampata “coi tipi dell’Officina Tipografica Vicentina di Vicenza il 7 agosto 1943”, nella collana “Quaderni di cultura moderna” nelle collezioni del Palladio della medesima Officina Tipografica. Questo volumetto di Poggi, che rimane quasi sicuramente il primo libro di filosofia scritto dopo il 23 luglio 1943, costituì uno dei primissimi documenti della ripresa filosofica dopo la caduta del fascismo. Scelta, perciò, veramente coraggiosa e audace, se si pensa a quanto un ventennio dopo confiderà Maria Federico Sciacca: anch’egli aveva redatto in quel periodo una monografia sul pensiero martinettiano e, non essendo riuscito a convincere l’editore a rinviarne la pubblicazione, vistesi recapitare nel novembre 1943 alcune copie, ne fermò la diffusione: “un volume su Martinetti nell’ottobre del ’43 – ci confida – non era una cosa pacifica; né io purtroppo (…) ho la vocazione dell’eroe” (M.F.SCIACCA, La religione nella filosofia di Martinetti, in “Giornata martinettiana” in “Filosofia”, Torino, 1964, fasc. 3°, pp. 374-375.).

Rimasto giovanissimo orfano di padre, Alfredo Poggi andò presso parenti a Palermo, dove frequentò gli studi, assimilando idee e programmi di Filippo Turati e Andrea Costa; nel 1904 si laureò in filosofia; seguì un corso biennale di specializzazione a Lipsia nella scuola di W. Wundt, dove ebbe l’opportunità di conoscere Bebel Kautski e Rosa Luxemburg; nel 1917 si laureò a Genova in giurisprudenza; insegnò filosofia nei licei, finchè, conseguita la libera docenza nel 1926 e vinto il premio di filosofia dell’Accademia dei Lincei nel 1930, cominciò a insegnare presso l’Università di Genova. Ma per pochissimo tempo. Infatti, rifiutatosi di prestare il giuramento richiesto, fu relegato a lavorare nei locali della biblioteca con un incarico secondario e superfluo: responsabile degli aggiornamenti della bibliografia ligure. Stava nel medesimo corridoio, in cui era stato “isolato” un altro grande campione della libertà, anch’egli destinato a quell’insignificante incombenza; era Giuseppe Rensi, definito dall’amico “ateo sitibondo di Dio”. Nel tempo libero (e doveva rimanerne non poco!) discutevano di problemi filosofici e politici. Nel 1941 (anno in cui Rensi morì in seguito a un intervento chirurgico) a chiusa dell’Introduzione alla traduzione della kantiana La religione entro i limiti della sola ragione, Poggi scrisse: “Mentre congedo le bozze ultime di questa prefazione penso con dolore che essa non sarà mai letta dall’amico Rensi, il quale attendeva con impazienza la comparsa della traduzione kantiana, ch’egli non potè assumersi, essendo preso da altri lavori. Egli era innamorato di questo libro, di cui lungamente discutemmo, e per lo stile involuto e per l’alto pensiero, nelle nostre quotidiane conversazioni mattinali, vicini d’ufficio come eravamo, nello stesso corridoio” (E. KANT, La religione entro i limiti della sola ragione, trad. it., Parma, Guanda Editore, 1941, p. 90). Visse persino l’umiliazione di doversi presentare come imputato presso il Tribunale speciale , al quale era stato deferito; conobbe l’isolamento di “Regina Coeli” e l’avvilimento di non vedersi riconosciuto il diritto alla difesa e qualunque altro diritto inerente alla dignità di uomo. In simili frangenti gli giunse la profferta di Benito Mussolini, da lui conosciuto personalmente ad Ancona: qualora avesse aderito al regime, avrebbe avuto assicurata una facile, rapida e “brillante carriera accademica”. Poggi dignitosamente rifiutò. Fu liberato per mancanza di motivazioni. La sua libertà morale gli consentì di nutrire sentimenti d’assoluta imparzialità tanto nei giudizi che nelle relazioni di amicizia, osservando sempre rispetto verso l’altro, ma rivendicandone sempre uguale concreta coerenza d’atteggiamento. “Chi ha sofferto per il trionfo della giustizia – scriverà – chi non ha mai offeso la libertà dei suoi simili, chi ha cooperato al miglioramento spirituale oltre che materiale della società (…) non avrà ragione né di temere nè di desiderare la morte, perché sente di avere in questa vita un compito da svolgere che egli non può disertare” (La preghiera dell’uomo. Discussioni di religione e filosofia, Milano, 1944).

Nel 1945 Poggi aveva vissuto già i suoi primi 64 anni: ma – come scriverà - terminava solo l’antifascismo “romantico” e iniziava quello “tragico” (Antifascismo tragico, in “Genova”, a. XXXII, n. 4, 1955, pp. 30-46): era quanto mai necessario lavorare e lottare per il risanamento morale del tessuto sociale italiano e per la costituzione di adeguati strumenti governativi e statuali. Della sua passata esperienza porrà a frutto ogni insegnamento, ma non verrà mai meno a due idee dominanti: la sacralità della dignità dell’uomo e la dimensione universale propria dell’esistenza di ciascun individuo: “Ecco il dovere del cittadino: non isolarsi, non essere indifferente al proprio o al male altrui, ma lavorare affinché la società sia per tutti veramente umana, retta da libertà e non da necessità, vita di esseri liberi e non di servi animali (…); compito che esige tutta la forza della nostra coscienza, la quale deve restare invulnerabile nella sua fede per la giustizia anche se l’odio del mondo le dovesse imporre i più duri sacrifici” (La preghiera dell’uomo. Discussioni di religione e filosofia, op. cit., p. 135). Riprese, pertanto, con vigore rinnovato i suoi impegni d’insegnamento e di studio: la sua vita durerà quasi un altro trentennio; ed egli continuerà a partecipare alla vita sociale e culturale dell’Italia fino agli ultimi anni, curando e pubblicando numerosi studi. Negli ultimi anni , in verità, preferì il riparo che gli davano gli affetti familiari e la corrispondenza con pochissimi amici; con loro ricordava quel passato glorioso e pieno di ideali sublimi, che nel presente vedeva traditi e condannati alla decadenza.

Poggi conseguì nel 1904 la laurea in filosofia discutendo la tesi su Kant e il socialismo. Nel titolo sono già prefigurati il suo itinerario intellettuale e il suo orientamento politico. Le sue convinzioni etiche si fondano sul pensiero kantiano; i suoi suggerimenti sociali e politici si nutrono delle dottrine socialiste e marxiane, secondo l’interpretazione che ne dava il contemporaneo Rodolfo Mondolfo, il quale s’accostò a Marx e al socialismo scientifico in generale con il proposito di evidenziarne la novità di pensiero nella continuità storica ch’egli riportava, passando attraverso l’idealismo tedesco, al liberalismo di Locke e al naturalismo di Roussaeu. In particolare è in Locke, secondo Mondolfo, che si trova il seme del socialismo. L’autore inglese, infatti, riconosce la proprietà collettiva, grazie alla sua distinzione tra la proprietà dei mezzi di produzione e proprietà dei prodotti. Per questo il Mondolfo rimane convinto fino alla fine che, seguendo la chiave interpretativa liberale, “Marx, con la sua filosofia della prassi, è (…) l’erede della filosofia classica della libertà, portata da lui alle più decisive conclusioni” (R. MONDOLFO, Presentazione a Da Ardirgò a Gramsci, Milano, Nuova Accademia 1962, p. XIV).

Alfredo Poggi abbraccia la concezione marxista del Mondolfo, che vede sostanzialmente umanistica, in quanto l’impulso e la forza del divenire della storia dell’umanità sono generati dalla libera e responsabile attività dell’uomo, che, immerso in contesti sociali e politici storicamente ben definiti, ne sente e ne subisce tutti i condizionamenti. E’ proprio dalla situazione reale che viene suggerita all’uomo l’azione veramente rinnovatrice e instauratrice di nuovi ordini sociali. A questo socialismo umanistico e attivistico Poggi unisce l’esigenza morale dettata dal kantismo, trasformando la marxiana “prassi rovesciata” in “pragmatismo storico”, secondo il quale il “concreto motore della storia” è il singolo uomo, grazie al suo “valore universale, agente per volontà, cosciente del fine”. Ciò non significa, per il Poggi, ridurre il problema sociale a problema morale, ma solo alimentare le dimensioni politiche con l’interiore moralità dell’uomo, senza della quale ogni movimento storico autentico è impossibile.

In netta opposizione all’interpretazione crociana del marxismo quale scienza economica, nello spirito dei neokantiani tedeschi, sulle orme dello spiritualismo ateistico di Alessandro Chiappelli e del volontarismo pragmatico di Luigi Credano e soprattutto con esplicito riferimento alle idee di tolleranza e libertà democratiche di Rodolfo Mondolfo, Alfredo Poggi sottolinea la necessità di non confondere Stato e Governo, come accade per i socialismi utopici, e di non sovrapporre le legittime competenze del partito e del sindacato, come si tentava di fare da parte di non sparuti gruppi di area anche socialista. Lo Stato, espressione della volontà morale della società, va assolutamente garantito: uno Stato senza consenso sociale è tirannico; una società senza Stato è anarchica: il diritto – kantianamente inteso – garantisce la vita consociata in forme democratiche e retta da organismi costituiti secondo legalità. Rifiutata la rivoluzione, il socialismo di Poggi è depurato da qualsiasi tentazione di reazione violenta, attesa o generata come nemesi storica degli avvenimenti e delle classi privilegiate; la meta è ampia quanto l’umanità: ogni nazione, conservando la sua identità, diverrà partecipe dell’universale vita di tutti gli Stati, uniti in un ideale cosmopolitismo omogeneo. Il proletariato non dovrà avvicendarsi – gramscianamente – nella gestione del potere, ma sarà strumento di giustizia e di libertà per tutti gli uomini e in tutte le dimensioni.




venerdì 7 gennaio 2005

LIBERISMO: SOTTO LA FACCIATA DELLA "SOLIDARIETA'", MANCA L’"ETICA DELLA RESPONSABILITA’"?

Su “Apulia”, Rassegna trimestrale della Banca Popolare Pugliese, sono apparsi recentemente (nel numero IV, dicembre 2004). due interventi di due autorevoli personalità, che,se letti in maniera comparata, costringono le menti più pensose a considerazioni non certo di scarsa rilevanza o di spessore trascurabile. Si tratta di interventi che - a nostro modo di vedere - sono da analizzare, meditare e valutare; e comunque sono da tenere costantemente presenti nel corso dell’anno che è appena cominciato.

Il primo è di JEREMY RIFKIN, Premio Nobel per l’Economia:

“Il Sogno Americano è troppo centrato sul progresso materiale personale e troppo poco preoccupato del benessere generale dell’umanità per continuare ad avere fascino e importanza in un mondo caratterizzato dal rischio, dalla diversità e dall’indipendenza: è diventato un Sogno vecchio, intriso di una mentalità legata ad una frontiera che è stata chiusa tanto tempo fa. E mentre lo “Spirito Americano” guarda stancamente al passato, nasce un Sogno Europeo, più adatto ad accompagnare l’umanità nella prossima tappa del suo percorso: un Sogno che promette di portare l’uomo verso una consapevolezza globale, all’altezza di una società sempre più interconnessa e globalizzata. Il Sogno Europeo mette l’accento sulle relazioni comunitarie più che sull’autonomia individuale, sulla diversità culturale più che sull’assimilazione, sulle qualità della vita più che sull’accumulazione di ricchezza, sullo sviluppo sostenibile più che sull’illimitata crescita materiale, sul ‘gioco profondo’ più che sull’incessante fatica, sui diritti umani universali e su quelli della natura più che sui diritti di proprietà, sulla cooperazione globale più che sull’esercizio unilaterale del potere (…). Per quanto io sia visceralmente legato al Sogno Americano, e soprattutto alla sa incrollabile fede della preminenza dell’individuo e della responsabilità personale, la speranza per il futuro mi spinge verso il Sogno Europeo, che esalta la responsabilità collettiva e la consapevolezza globale. Il nascente Sogno Europeo rappresenta le più alte aspirazioni dell’umanità a un futuro migliore” (Ma il futuro è nel Sogno Europeo, Ivi, pp. 13-15).

Il secondo è di SAMUEL HUNTINGTON, Docente di Scienze politiche all’Università di Harvard, che dieci anni fa scrisse per “Foreign affairs” il noto saggio “Scontro di civiltà”, pubblicato nel 1996 in forma di libro e tradoto in 32 lingue:

“L’Islam non è sanguinario di fondo. Ci sono più fattori in gioco. Uno è il sentimento storicamente condiviso fra i musulmani di essere stati soggiogati e sfruttati dall’Occidente. Un altro è il rancore per forme concrete della politica occidentale, soprattutto per il sostegno che l’America dà allo Stato di Israele. Il terzo fattore è il ‘rigonfiamento demografico’ nel mondo arabo (…). Per quel che riguarda l’ostilità islamica nei confronti di idee occidentali, quali l’individualismo, il liberalismo, il costituzionalismo, i diritti umani, la pari dignità fra i sessi, in una parola, la democrazia, dobbiamo distinguere fra varie correnti e gruppi. Naturalmente esistono musulmani che condividono questi valori occidentali (…). La domanda allora è: perché non esiste democrazia nei Paesi islamici? Forse il motivo è culturale (…). Il fatto è che gli interessi di molti si riferiscono a un avversario comune, gli Stati Uniti. Forse anche all’Occidente in blocco. La politica di potere non si esaurisce mai: viene rafforzata dalla cultura e dalla religione, sebbene queste non riescano a spiegare tutto. Si veda l’alleanza fra Ankara e Gerusalemme. E si legga bene la storia della Russia (…). Ecco: la cosa interessante dell’ex blocco sovietico è che la democratizzazione e la riforma economica si muovono lungo linee culturali molto precise. Tutti i Paesi che appartengono all’Europa centrale oggi manifestano grandi progressi. Le culture ortodosse di Bulgaria, Bielorussia e Ucraina sono invece più lente nei processi riformatori. Ma l’Albania musulmana e i Paesi dell’Asia centrale sono ancora molto più lontani dal raggiungere successi di riforma minimi”. (E’ tempo di guerre asimmetriche, Ivi, pp. 32-33).

C’è davvero materia su cui riflettere.

Ovviamente per chiunque – capace di mirare all’animo umano e di decifrarne i sentimenti nascosti – intenda puntare sui “valori”, quelli veri; e per chiunque si proponga di agire da uomo, ma da uomo veramente e senza infingimenti. Soprattutto per chiunque creda davvero nei giovani: ma in maniera che sappia occupare nel mondo il posto che la propria età gli consente, e accettare nella vita sociale il ruolo che gli viene assegnato in base all’esperienza del passato e alle novità progettate per il futuro.

"L'amore della libertà è l'amore più alto ed universale dell'uomo: egli la cerca sotto tutti i cieli, in tutti i gradi della civiltà, in tutte le forme della attività sua". (PIERO MARTINETTI, La libertà).
"Benedette tutte le leggi metriche che vietano risposte automatiche: ci costringono a una riflessione, liberando dalle pastoie dell'Io" (W. H. AUDEN, Shorts).