Il Tempo, in sé fluire di momenti transeunti che vanno accolti, si apre a un "oltre" custode Eterno di valori trascendenti che vanno abitati. Vicende e realtà tendono alla suprema fusione nell'infinita Totalità, anima di ogni Speranza.

venerdì 10 luglio 2015

MIGRANTI: CRISI GLOBALE CHE INTERPELLA IL MONDO CIVILE


Pubblicato su Affaritaliani il 16 giugno 2015
 
 
Non è difficile immaginare lo stupore che susciterebbe una situazione di questo genere: il malato ferito mortalmente disteso sul tavolo operatorio e l’équipe di esperti medici che, anziché intervenire con tutti i mezzi a loro disposizione, dissertano dottamente sulle varie metodologie possibili e discutono animatamente per stabilire il ruolo di ciascuno. Con ragionevole certezza il malato nel frattempo morirà, ed essi potranno continuare a scontrarsi e scaricarsi reciprocamente la colpa. A questa scena fanno pensare i fatti attuali dei migranti: da una parte, esseri umani d’ogni età e condizione in cerca di salvezza o di libertà o di benessere sbarcano sempre più numerosi sulle coste italiane e, dall’altra parte, i potenti che governano nazioni piuttosto ricche e guidano popoli liberi e alquanto prosperi si battibeccano sul chi e sul come dare qualche aiuto.
 
In questi sentimenti d’incredulità ci conferma la dichiarazione resa in queste ore dal Segretario Generale di  Amnesty International: “Stiamo assistendo - ha detto - alla peggiore crisi di rifugiati del nostro tempo, con milioni di donne, uomini e bambini che lottano per la sopravvivenza, coinvolti in guerre brutali, o schiavi delle reti di trafficanti di esseri umani”. Sono conflitti civili, lotte brutali e situazioni di disumana schiavitù causati non raramente dalle politiche spartitorie d’espansione territoriale, di dominio politico e di potere militare proprio di molti dei Paesi, che ora o fanno finta di non sapere, o ne sminuiscono la dimensione e l’urgenza o addirittura si rifugiano in bizantinismi giuridici o in cavilli interpretativi di accordi firmati, con il solo risultato di non dare una pur minima risposta a catastrofi spesso da loro stessi causate. Ecco allora spiegabile la triste considerazione del responsabile di Amnesty International, secondo il quale questi esseri umani (qualunque sia il caso del singolo certamente da non sottovalutare, ma da verificare e gestire accuratamente) vengono “anche abbandonati dai governi, che perseguono interessi politici egoistici, miopi, invece di mostrare compassione e compiere scelte umanitarie”. 
Stando ai dati di Amnesty International gli sfollati in tempi brevi supereranno a livello globale i 50 milioni; un fenomeno, quindi, più grave e allarmante di quello avvenuto dopo la seconda guerra mondiale. Tutti i governi, pertanto, debbono aprire gli occhi e prendere atto del fenomeno della migrazione di masse di esseri umani. Non si tratta di una emergenza del Mediterraneo, ma di una realtà mondiale, che essi dovranno comprendere adeguatamente, per gestirla con competenza economica, responsabilità giuridica e solidarietà umana. E l’Europa. che è stata avviata come comunità economica, è stata ideata, creduta e difesa da tutti i “popoli” membri col sommo obiettivo di un insieme di “concittadini” tutti con gli stessi doveri e diritti, nella prospettiva, cioè, di divenire col tempo comunità di esseri umani accomunati innanzitutto e soprattutto da valori integralmente umani, morali ed etici. Tradire questi ideali significa rinnegare chi l’ha costruita e affidata. 
In tempi dominati dal pragmatismo e dall’efficientismo non è certo semplice rivendicare l’importanza dei “valori morali” e il ruolo della “solidarietà umana”; anzi sono suggerimenti che potrebbero suscitare persino il sorriso dell’uomo concreto che pensa ai fatti dell’immediato: le priorità da rivendicare e perseguire sono ben altre: l’accrescimento del potere politico, la crescita economica, il profitto dei capitali, i pareggi dei bilanci stabiliti. Quelli sì sono da osservare a ogni costo e con ogni sacrificio! Il resto è astrattezza e poesia, inutili per il singolo e addirittura pericolose le comunità degli uomini, condannate alla sopportazione e alla rassegnazione. E’ stato smarrito, infatti, il valore del rispetto dell’ordine giuridico: infatti, ormai le leggi non sono da rispettarsi, ma da interpretare e modificare caso per caso; i bisogni degli altri non sono più da comprendersi e risolvere, ma da orientare secondo direttrici di mercato; la dignità dell’uomo non è da rispettarsi in ogni essere umano, ma solo in quelli che corrispondono ai propri modi di vedere. Bisogna essere concreti. 
Pensare e difendere altri indirizzi è inseguire ideali chimerici e sogni fuorvianti. E invece la storia insegna che proprio gli “ideali” sono la molla della vita dei singoli, dei popoli e  delle nazioni. Le grandi rivoluzioni davvero radicali, che hanno segnato svolte storiche, sono sempre germinate dai grandi ideali e dai sogni audaci. Senza grandi ideali non c’è avanzamento umano, civile e politico: cioè autentica crescita culturale. Chi resta irretito dall’immediato non respira aria che possa dirsi umana e sarà incapace di operare davvero in concreto. Ogni sano realismo si fonda sempre sul ragionevole ottimismo: quello che solo gli ideali prudentemente progettati e fortemente perseguiti possono generare. E’ l’insegnamento platonico sopravvissuto e praticato già da 2.500 anni e non da ultimo rinverdito dal tedesco Kant, non certo incline alla fantasia e al sentimentalismo: s’è liberi, quando s’ascolta il dettato della propria ragione, che è capace di sollevarsi fino al cielo stellato.  Solo allora gli uomini guarderanno i problemi umani sotto prospettive diverse e più veritiere, e ne sorgeranno soluzioni più alte; gli occhi rivolti verso il suolo, non potranno che guardare il suolo e ciò su di esso si posa. L’umanità, invece, ha bisogno di crearsi mondi più vivibili. Ideali, certo, ma verso i quali camminare con audacia e costanza, nella consapevolezza che essi non saranno mai realizzati totalmente, ma nella certezza che si sarà sempre meno lontani dalla loro altezza.
 
 

 
 

BERGOGLIO. IL PAPA CHE FA SPERARE E TREMARE

Pubblicato su Affaritaliani  l’8 giugno 2015

 

Papa Bergoglio stupisce ogni giorno di più. Apparentemente “normale”, solitamente misurato e calmo, con il suo gesto calcolato e “senza parole” trasfonde fiducia rigeneratrice ma, nello steso tempo, scuote le coscienze degli “uomini e donne di buona volontà, tutti fratelli e sorelle”, e spesso genera riflessioni serie e incute paura e tremore. Mentre coloro che guidano popoli interi e governano nazioni vaste o piccole dissertano sui temi d’equilibrio di bilancio, di crescita e decrescita misurate in piccoli decimali, e talora si spingono a sfiorare il problema dei poveri, dei migranti e dei profughi (perlopiù attenti alle ripercussioni sul proselitismo elettorale), Papa Francesco ha individuato a tempo e senza rumore una struttura nei pressi del Vaticano, in cui sono stati già avviati i lavori per realizzare un dormitorio per ospitare una trentina di senzatetto.

Nel frattempo, sabato scorso 6 giugno, a Sarajevo, in Bosnia, ha ripetuto il suo appello: “Mai più la guerra! La pace è opera della giustizia”; e ha sottolineato con estremo realismo che la pace non va predicata, ma va costruita quotidianamente con “passione, pazienza, tenacia”, senza lasciarsi scoraggiare dal fatto che “nel mondo sono in atto numerosi conflitti armati e una sorta di terza guerra mondiale combattuta a pezzi”.

Come ogni domenica, anche ieri alle ore 12, papa Francesco s’è affacciato con rispettosa puntualità alla finestra dello studio nel Palazzo Apostolico Vaticano per la recita dell’Angelus con i fedeli e i pellegrini, che lo attendevano, numerosissimi come sempre, in Piazza San Pietro. “Sono andato a Sarajevo, per incoraggiare il cammino di convivenza pacifica tra popolazioni diverse”, ha esordito, per evitare ogni distorsione del suo gesto e qualunque strumentalizzazione delle sue parole e dare l’unico significato autentico del suo viaggio in Bosnia ed Erzegovina. Lì, infatti, aveva rilanciato il grido già di Wojtyla: “Basta guerra e nazionalismi esasperati!” e, durante il breve viaggio di ritorno a Roma in aereo, concedendosi come solitamente alle domande dei giornalisti, aveva denunciato con forza la vigliaccheria dei potenti e l’ipocrisia degl’indifferenti: “C’è l’ipocrisia, sempre! Per questo ho detto che non è sufficiente parlare di pace: si deve fare la pace! E chi parla soltanto di pace e non fa la pace è in contraddizione; e chi parla di pace e favorisce la guerra – per esempio con la vendita delle armi – è un ipocrita!”.

Mercoledì prossimo, 10 giugno, sarà ricevuto in udienza privata il presidente russo Vladimir Putin, in Italia per la visita all’Expo di Milano. Sarà il quinto incontro che Putin avrà con un papa: nel 2000 e nel 2003 con Vojtyla, nel 2007 con Ratzinger e 2013 con lo stesso Bergoglio. In quell’occasione, argomento principale del loro colloquio – al quale il leader russo si presentò con ben 50 minuti di ritardo – fu la crisi siriana, per la soluzione della quale era stata tenuta circa due mesi prima una veglia di preghiera, durante la quale il pontefice da poco eletto aveva precisato: “Anche oggi ci lasciamo guidare dagli idoli, dall’egoismo, dai nostri interessi; e questo atteggiamento va avanti: abbiamo perfezionato le nostre armi, la nostra coscienza si è addormentata, abbiamo reso più sottili le nostre ragioni per giustificarci. Come se fosse una cosa normale, continuiamo a seminare distruzione, dolore, morte! La violenza, la guerra portano solo morte, parlano di morte! La violenza e la guerra hanno il linguaggio della morte!”. Il giorno dopo quella veglia, all’Angelus, il Papa, si era spinto ancora più oltre, affermando che “sempre rimane il dubbio se questa guerra di qua o di là è davvero una guerra, oppure è una guerra commerciale, per vendere armi o è per incrementarne il commercio illegale”.

Per il prossimo 18 giugno è stata annunciata la pubblicazione della prima enciclica “scritta” di papa Francesco. La giustizia, la pace e la libertà degli uomini e dei popoli d’ogni nazione non sono una chimera da deridere, ma un obiettivo da credere e da cercare di raggiungere. Saranno questi – stando a indiscrezioni editoriali – la natura e il contenuto dell’enciclica. Non un trattato scientifico, non un manuale di sociologia, non un libercolo provocatorio, e nemmeno un manifesto politico per la conquista d’un potere. Ma una semplice lettera pastorale che, fotografando situazioni concrete verificabili, mira a  ricordare e difendere i valori morali propri della dignità dell’uomo. Un appello, quindi,     a costruire la pace, la giustizia e la libertà minacciate dalle ideologie dell’autonomia incondizionata di mercato globale e della sfrenata speculazione finanziaria. Forse per questo molta parte di umanità attende e spera, ma altra parte di politica e di finanza trema.

Ma Bergoglio va avanti. E molti attendono nuovi suoi interventi, che facciano germogliare fecondi semi di libertà concreta, fatta di giustizia e di pace. Infatti, fra circa 48 ore papa Francesco colloquierà col capo della Russia; il 24 settembre prossimo sarà in visita negli Stati Uniti. Sarà il primo pontefice a rivolgersi ai deputati americani del Congresso riuniti in seduta straordinaria: questo testimonia l’autorevolezza del pontefice. Una nota diffusa qualche mese fa dalla Casa Bianca comunica che la vigilia dell’incontro ufficiale i due leader avranno un colloquio privato, per ribadire il comune impegno nell’affrontare molti problemi, ma con particolare attenzione “per gli emarginati e i poveri, la necessità di dare opportunità economiche a tutti, la salvaguardia dell'ambiente (…) l'accoglienza dei migranti e dei rifugiati nelle nostre comunità”.

 

 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

2 GIUGNO: LA FIABA DEL DIRITTO AL LAVORO

Pubblicato su Affaritaliani il 01.06.2015

Domani, 2 giugno 2015: 68° anniversario della Festa della Repubblica Italiana e della sua Costituzione. Cioè la Festa degli Italiani. Sarà celebrata con spettacoli solenni e manifestazioni significative, tra cui la tradizionale deposizione della corona d’alloro all’Altare della Patria, simbolo dell’Unità e della Libertà, come è scolpito sul marmo bianco dei propilei del Vittoriano a commento delle due quadrighe. Giornata, quindi, di festa, ma soprattutto di ammonimento e di riflessione per il popolo italiano, chiamato da quest’occasione a ricordare la passione e i sacrifici con cui i Padri hanno fatto l’Italia libera, unita, repubblicana e democratica. Un ricordo non retorico e fugace, ma ponderato e impegnato a verificare la fedeltà e la coerenza con cui oggi esso rispetta e onora il patrimonio culturale, morale, civile e politico da loro ricevuto in eredità.

 

L’Italia – dichiara l’articolo 1 della Costituzione - è “repubblicana” e “democratica”, in quanto “fondata sul lavoro”. Infatti, durante i lavori preparatori Giorgio La Pira aveva proposto di esplicitare maggiormente: “Il lavoro è il fondamento di tutta la struttura sociale, e la sua partecipazione adeguata negli organismi economici, sociali e politici è condizione del nuovo carattere democratico”; e Palmiro Togliatti aveva dettato ancora più incisivamente: “Lo Stato italiano è una Repubblica di lavoratori”. Dopo lunghi mesi di confronto e di dialogo fu accolta come lettura definitiva quella proposta da Amintore Fanfani, Aldo Moro e altri: “L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro”. I Costituenti, quindi, non hanno posto come fondamento della nostra repubblica democratica valori universali e, quindi, facilmente condivisibili e consocianti, quali l’uguaglianza, la fratellanza, la libertà, ma il lavoro considerato come strumento di liberazione del singolo cittadino, il quale, però, è chiamato a inserire la sua attiva operosità individuale nella cornice di progetti d’interesse generale per l’intera Nazione. Per questo motivo la Costituzione afferma in primo luogo i diritti inerenti al “pieno sviluppo della persona umana”, in quanto essi preesistono allo Stato e, in secondo luogo, assegna alla Repubblica il dovere di realizzare tutte le condizioni effettive di uguaglianza tra i cittadini (art. 3); in questo modo viene consegnata una Repubblica, che mira a obiettivi veramente grandi sia di gratificazione per il singolo e sia di servizio attento verso tutta la società. Però, questo significa anche che, finchè non si realizzerà questo dettato della Carta, in Italia non c’è una repubblica che si possa dire di fatto “democratica, fondata sul lavoro”.

 

A queste affermazioni molti cittadini italiani – e non solo dell’ultima generazione - avrebbero la sensazione di sentire il racconto d’una fiaba incantevole. Ai nostri giorni, infatti, il mondo del lavoro sembra piuttosto l’arena d’un circo, in cui si può assistere a spettacoli di scene tra l’umorismo dell’opera buffa e la disperazione della tragedia greca. Mentre molti “attori” dànno uno spettacolo allucinante fatto di annunci mirabolanti e rivendicazioni strabilianti, un’immensa folla di spettatori s’accalcano, si sfidano, competono, lottano nel tentativo fortunoso d’imbattersi in qualche generoso “donatore di lavoro”, che conceda loro – alle sue condizioni e per un tempo sempre definito - almeno lo stretto necessario per la sopravvivenza sua e dell’eventuale sua famiglia. Pian piano, forse senza avvedersene, gli italiani vivono e operano in una repubblica della precarietà, e non solo lavorativa. Ma una società precaria è necessariamente una società ferma e senza vitalità, spesso facile ostaggio della prepotenza e vittima sicura dell’indigenza. Il pericolo è grave, poiché è tutto l’assetto della Repubblica e della Costituzione che perde la sua struttura portante e smarrisce i suoi princìpi conduttori.

 

Per intercettare e interpretare adeguatamente il messaggio principale della festa del 2 giugno, allora, è opportuno ripensare come nacquero la Repubblica e la sua Costituzione. In ciò è di ausilio ciò che disse nel gennaio 1946 a un gruppo di giovani il padre costituente Piero Calamandrei: “Se volete andare in pellegrinaggio nel luogo dove è nata la nostra Costituzione, andate sulle montagne, dove caddero i partigiani, nelle carceri dove furono imprigionati, nei campi dove furono impiccati. Dovunque è morto un italiano per riscattare la libertà e la dignità andate li, o giovani, col pensiero, perché li è nata la nostra Costituzione”. E con preoccupata riconoscenza annotava: “Essi sono morti senza retorica, senza grandi frasi, con semplicità, come se si trattasse d’un lavoro quotidiano da compiere: il grande lavoro che occorreva per restituire all’Italia libertà e dignità. Di questo lavoro si sono riservati la parte più dura e più difficile (…). A noi è rimasto un compito cento volte più agevole; quello di tradurre in leggi chiare, stabili e oneste il loro sogno: di una società più giusta e più umana”.

 

Il testo di tutta la Costituzione è nato dalla confluenza delle tre più importanti culture allora presenti in Italia, notevolmente diverse tra loro, ma pronte a cooperare per la ricostruzione del Paese: la cultura cattolica, quella liberale e quella socialista. In particolare, nella scelta di adottare una concezione peculiare di “persona” s’evidenzia il contributo ricevuto dall’ispirazione cristiana. E non sembra fuor di luogo, pertanto, che anche in questi nostri tempi, si faccia ricorso alle preoccupate diagnosi e alle illuminanti esortazioni dell’attuale papa riguardo il problema del lavoro umano. Quest’uomo fatto venire “dall’altra parte del mondo”, in quanto vescovo di Roma guarda i problemi italiani del lavoro; ma, in quanto responsabile universale d’una religione diffusa in ogni continente, conosce dall’alto del suo osservatorio la situazione del lavoro anche in prospettiva assolutamente universale. Da qui l’importanza e il significato più vero delle sue parole pronunciate in questi ultimi trenta giorni. Il 1° maggio scorso, infatti, intervenendo all’inaugurazione della Expo di Milano, esortava il mondo ivi convenuto a non vivere quell’evento come un bell’argomento, ma come preziosa opportunità per una ricognizione e un impegno comune a prendere consapevolezza e coscienza dei “volti” di milioni di persone che hanno fame; e sollecitava i rappresentanti delle numerose Nazioni presenti a prendere e usare il progetto dell’Expo come mezzo per dare “piena dignità al lavoro di chi produce e di chi ricerca (…). Che nessun pane – scandiva con energico convincimento – sia frutto di un lavoro indegno dell’uomo! E che non manchi il pane e la dignità del lavoro a ogni uomo e donna”. Il successivo 23 maggio, poi, ricevendo i militanti delle Associazioni Cristiane Lavoratori Italiani, dopo aver evidenziato la globalizzazione della gravità dei problemi del lavoro, senza paura di divenire bersaglio di critiche e motivo di scandalo, ma imperterrito accusava: “L'estendersi della precarietà, del lavoro nero e del ricatto malavitoso fa sperimentare, soprattutto tra le giovani generazioni, che la mancanza di lavoro toglie dignità, impedisce la pienezza della vita umana e reclama una risposta sollecita e vigorosa”. E senza alcuna considerazione di prudenza, accusava a volto aperto e a chiare lettere la vera radice prima della mancanza di lavoro e dello sfruttamento dei lavoratori: “Troppo spesso – constatava - il lavoro è succube (…) di nuove organizzazioni schiavistiche, che opprimono i più poveri; in particolare, molti bambini e molte donne subiscono un’economia che obbliga a un lavoro indegno”. Sa di non fare alcuna invasione di campo ed è forte della sua quotidiana testimonianza personale di altruismo solidale e gratuito: senza parlare, ma coi gesti e coi fatti, dimostra ogni giorno che l’unico Dio è di tutti gli uomini, per cui tutti debbono vivere a immagine e somiglianza divine. E per primi ammonisce i “suoi”; pochi giorni prima, infatti, incontrando gli aderenti alle ‘Comunità di vita cristiana’ aveva detto: “Impegnatevi in politica, ma non a un partito, perchè è realmente convinto che non è nella natura e nei compiti della Chiesa essere o fare partito, ma che l’uomo anche cattolico deve fare politica, ma come servizio umile e dovuto, “come De Gasperi e Shuman, che hanno fatto politica pulita, senza sporcarsi”.

 

E’ una voce, di cui tutti gli uomini, in quanto uomini, hanno immenso bisogno soprattutto oggi. In tempi di smarrimento culturale e di confusione etica, di fronte a esempi privati e pubblici d’insensibilità umana e di gretto egoismo, davanti al vuoto di valide guide e di esempi illuminanti, bisogna salutare davvero provvidenziale ogni luce di speranza che viene offerta all’umanità.