Il Tempo, in sé fluire di momenti transeunti che vanno accolti, si apre a un "oltre" custode Eterno di valori trascendenti che vanno abitati. Vicende e realtà tendono alla suprema fusione nell'infinita Totalità, anima di ogni Speranza.

lunedì 5 gennaio 2015

FEDELTA’ POLITICA E COERENZA MORALE

Pubblicato da "Affari Italiani", Giovedì, 28 agosto 2014

Il Governo che impone al Parlamento il voto palese, motivandolo come atto richiesto dall’importanza e dall’urgenza del provvedimento presentato. Il Parlamento che ne contesta le circostanze, esigendo la regolarità e rivendicando la legittimità del voto segreto a tutela della propria autonomia legislativa. Da una parte il voto palese rappresentato (o comunque fatto percepire) come costrizione ricattatoria; dall’altra parte il voto segreto temuto (o minacciato) come opportunità di ritorsioni e occasione di resa dei conti. Da una parte i partiti, che invocano e pretendono la fedeltà politica dei parlamentari da loro fatti eleggere; dall’altra parte i parlamentari che rivendicano il rispetto del loro mandato popolare e della propria coscienza. La questione potrebbe ridursi a un’interessante dissertazione astratta sul rapporto politica-morale, se non coinvolgesse il destino della democrazia repubblicana italiana, la ragion d’essere dei partiti politici, la sorte dell’equità civile, la difesa della giustizia sociale, la tutela del vivere quotidiano dei cittadini. Le Istituzioni, pertanto, garanti massime della democrazia italiana, rischiano di diventare affossatori di democrazia e usurpatori di sovranità popolare; e questo proprio mentre s’adoperano per attuare fondamentali riforme istituzionali (senato, regioni, provincie, legge elettorale, riforma dl sistema giudiziario, assetti economico-finanziari).

I cittadini italiani, in verità, assistono per lo più disincantati e scettici alle vicende della politica italiana interna ed estera. Essi, infatti, sanno correttamente che l’idea e l’attuazione delle democrazie col tempo si sono evolute e continuano a evolversi, lasciando giustamente la sfera dell’astrattezza, per immergersi nella concretezza del governo dei popoli. Sono anche convinti, però, che da quest’evoluzione non scaturisce (e non dovrebbe mai scaturire), quale conseguenza inevitabile, un decadimento dell’idea e dell’etica, che sostanziano ogni democrazia autentica: questa, infatti, prima d’essere una tra le possibili forme di governo, è in primo luogo una visione generale della vita e uno stile di condotta privata e pubblica. Da qui il loro convincimento che anche l’attuale “democrazia del numero” è uno svolgimento positivo e costruttivo delle democrazie, a patto, però, ne restino salvaguardati i valori etici e gli obiettivi politici caratterizzanti. Ciò che oggi preoccupa i cittadini elettori (votanti e non-votanti) è il dover assistere al deterioramento della morale individuale e il decadimento dell’etica pubblica, come indicano alcuni segnali pericolosi. Si pensi, per esempio, alla trasformazione del ruolo degli eletti che ha alterato sostanzialmente anche il dettato costituzionale. Ovviamente anche la Costituzione non è testo sacro ispirato dall’alto; può, quindi, anzi deve essere aggiornata, adeguata, emendata. E’ necessario, però, che ciò sia fatto da chi ne abbia avuto mandato specifico e, soprattutto, con indiscutibile lealtà d’intenti ed evidente trasparenza di procedimenti.

Ed è proprio questo che genera perplessità negli italiani. Assistono, infatti, all’affannosa corsa a “far passare” provvedimenti proposti come strumenti d’una maggiore efficienza gestionale; in realtà, però, benché propugnati come mezzi di “stabilità e crescita”, di fatto implicano modiche sostanziali di princìpi essenziali, peraltro sanciti come fondamentali dalla Costituzione. Senza nascondersi che è molto incerto che tutto ciò arrechi qualche utilità alla vita del cittadino. A confermare la diffidenza dell’italiano politicamente “laico” (quindi, osservatore disinteressato, imparziale e sereno) non è solo ciò su cui si legifera, ma anche il modo con cui in questi ultimi tempi si opera in politica, sia nei palazzi e sia nelle piazze. Infastidiscono e suscitano sospetto l’arroganza dei partiti che il numero dei votanti di turno designa “maggioritari” e la baldanza di dirigenti, che rivendicano per sé il compito di decidere contenuti, tempi e modi della vita pubblica, sempre vigili a salvaguardarla dagl’intralci provenienti sia dai partiti indicati “minoritari” dal numero dei votanti sia da chi all’interno della cosiddetta “coalizione di maggioranza” tenti di discostarsi dalla linea dettata dai propri dirigenti. Ovviamente s’invoca sempre la necessità del dialogo aperto e disponibile a ogni contributo, salvo poi a non rintracciarne mai alcuno valido e appropriato. Inoltre, non si perde occasione per sottolineare e recriminare l’importante numero degli elettori non votanti; addirittura nei loro confronti s’è coniato il termine “astensionisti”, come se il non recarsi alle urne sia sempre e comunque una scelta d’irresponsabile disinteresse e non (anche e soprattutto) una decisione meditata, sofferta e perfino obbligata dai fatti, secondo l’insegnamento anche di Platone.

Si conosce da tutti la necessità della tempestività risoluta necessaria ai governanti. Ma già cinque secoli fa il Machiavelli, commentando e suggerendo l’antico pensiero di Tito Livio, metteva in risalto il valore della “imitazione” del passato e insegnava, anche a tal fine, in cosa doveva consistere la “virtù” del governante efficiente: saggio equilibrio di perspicacia dell’intelligenza. per comprendere ogni situazione, e di forza volitiva sicura, ma sempre suggerita e valutata dalla complessità dei problemi. Ma questo richiede il contributo di tutti. Da tutti, quindi, si richiede un momento di autocritica. Di primaria importanza, per esempio, è il ponderare le conseguenze possibili dell’uso attuale del voto segreto e del voto palese, in quanto i rischi cui si può incorrere non 6sembrano né pochi, né astratti, né lontani. Da una parte, infatti il voto segreto da espressione di responsabilità politica e da salvaguardia di libertà di coscienza e divenuto circostanza per l’esplosione d’inespressi risentimenti e occasione per la resa dei conti; il voto palese, dall’altra parte, da strumento legislativo condiviso, spedito e limpido è divenuto strumento di ricatto e di coercizione.

Tralasciando considerazioni d’altra natura, è innegabile che in questo modo risultano confusi i confini e stravolti i ruoli tra fedeltà politica e coscienza morale e si generano pericolosi equivoci avallati spesso da colpevoli silenzi. Non si tratta di sconfessare e capovolgere la secolare conquista di Machiavelli, rivendicando oggi l’autonomia della morale dall’egemonia della politica; si tratta di rinverdire con nuova linfa vitale la deontologia politica, cioè riscoprire le ragioni etiche, che danno senso all’azione politica, da parte di tutti i cittadini, ognuno nel ruolo che ha scelto o che gli è stato affidato. Sopravvalutare le ragioni della politica significherebbe valicare i confini dello stato etico: sarebbe utile, allora, meditare sulle circostanze e sui contenuti del “Manifesto degli intellettuali antifascisti”, scritto nel 1925 da Benedetto Croce. Sopravvalutare il ruolo delle esigenze del privato significherebbe assolutizzare gli egoismi, avversari d’ogni possibile azione veramente politica. Alcide De Gasperi – che seppe perché, quando e come dedicarsi alla politica e intuì quando e come uscirne - insegna che il politico è democratico quando possiede e pratica il “metodo democratico”, cioè quando cerca il dialogo e rispetta la deontologia propria della politica: un governante ottimo – ammonisce – rispetta i valori con fedeltà costante e grande coerenza. Queste, però, non un valore in sè e per sè, ma sempre agganciate a una scelta, che abbia valore in sé e che ne fondi la validità.

A battere un terreno più concreto ci indirizza Enrico Berlinguer, audace innovatore politico: “I partiti – dichiara già nel 1981 a Eugenio Scalfari - non fanno più politica, e questa è l’origine dei malanni d’Italia”. E Aldo Moro, martire per la coerenza, avverte: “Per fare le cose, occorre tutto il tempo che occorre” e raccomanda il rispetto del ruolo degli organi intermedi: “Il decentramento nella gestione degli interessi comuni – ammonisce - è uno strumento dell’avvicinamento del potere agli amministrati e dell’umanizzazione di esso come garanzia del suo retto fine”. Insegnamenti necessari anche nei nostri tempi. In momenti di particolare smarrimento ci soccorre comunque l’esperienza di Mahatma Gandhi: “Meglio un milione di volte sembrare infedeli agli occhi del mondo che esserlo verso noi stessi”.

sabato 8 novembre 2014

L’EPISTOLARIO ABELARDO-ELOISA . MESSAGGI DI FILOSOFIA INTEGRALE

2014-1164. Ricorre l’850° anniversario della morte di Eloisa, la fanciulla diciassettenne, che s’innamorò, amandolo poi per tutta la vita, del suo maestro Abelardo, il filosofo trentasettenne già famoso per la novità del pensiero creativo, l’originalità del metodo d’indagine e l’efficacia della retorica. In una lettera Eloisa confesserà d’essere rimasta affascinata sin dall’inizio dalla cultura e dalla fama del maestro: “Tutti si precipitavano a vederti, quando apparivi in pubblico (…). Avevi due cose in particolare, che ti rendevano subito caro: la grazia della tua poesia e il fascino delle tue canzoni, talenti davvero rari per un filosofo quale tu sei”. Amore, quindi, fondato sulla stima, sbocciato tra i libri e la filosofia, consolidato dagli ostacoli superati: “La mia anima – gli confiderà – non era con me, ma con te”. Nell’Epistolario di Abelardo è conservata memoria di questa vicenda amorosa tra le più belle e tragiche che la storia ricordi; forse per questo rimane un libro che ha occupato e occupa la scena culturale sin dalla seconda metà del 1200. Ha già ispirato, infatti, celebri poeti, come Hofmann von Hofmannwaldau (con Heldenbriefe del 1673), Alexander Pope (con Eloise to Abelard del 1717) J.J. Rousseau (con Joulie ou la nouvelle Héloïse del 1761). E ancora oggi è molto letto dagli studiosi impegnati a discuterne l’autenticità, ma spesso anche mossi dal desiderio di comprendere l’esperienza più intima di vita di due personalità, unite da legame indissolubile, nonostante traversie, allontanamenti imposti dall’ambiente sociale e la separazione definitiva accettata a forza.

Non si può nascondere, in verità, un senso di fastidio per la letteratura di questo genere; l’Epistolario di Abelardo, però, pur avendo come oggetto l’amore, contengono anche importanti riferimenti storico-culturali e utili indicazioni per la ricerca filosofica e teologica. Abelardo, infatti, nelle sue prese di posizione mostra una singolare arditezza, avvalendosi, oltre che della logica razionale, anche dell’apporto di sentimenti umani pre-razionali e a-razionali, per i quali veniva osservato con sospetto, ma di cui c’era e c’è sempre bisogno per una filosofia, che voglia essere completa, capace di preparare l’uomo a morire dignitosamente, ma soprattutto d’aiutarlo a vivere in pienezza e felicità. La filosofia è “amore della sapienza” e nello stesso tempo – sulle orme di Platone e sant’Agostino – “sapienza dell’amore”, per cui si pone come il tessuto compatto realizzato con l’intreccio dei fili della trama della razionale con l’ordito dei fili delle altre capacità dell’essere umano. Così essa diventa fonte di risposte alle domande umane ed energia alimentatrice del vivere umano autentico e libero. Interessanti a questo riguardo risultano i contributi dati, in confronto costruttivo col pensiero di Paul-Michel Foucault, dal filosofo Remo Bodei, il quale sostiene: “Malgrado i ripetuti annunci, è certo che la filosofia, al pari dell’arte, non è affatto ‘morta’. Essa rivive anzi a ogni stagione, perché corrisponde a bisogni di senso, che vengono continuamente – e spesso inconsapevolmente – riformulati. A tali domande, mute o esplicite, la filosofia cerca risposte, misurando ed esplorando la deriva, la conformazione e le faglie di quei continenti simbolici, su cui poggia il nostro comune pensare e agire”.

Potrebbe essere azzardato sostenere che Abelardo – uno dei massimi maestri del suo tempo, il più seguito dagli intellettuali a lui contemporanei - abbia colto le sue intuizioni in filosofia e abbia formulato le sue tesi in teologia grazie allo stato amoroso con Eloisa; è certo, tuttavia, che senza quell’esperienza non avrebbe sostenuto così audacemente le sue dottrine, tanto ardite per quei secoli medievali d’attirarsi invidie, ricatti, persecuzioni e persino attentati alla vita. Del resto è lo stesso Abelardo che confessa che, senza il fascino dell’amore, “il maestro di filosofia si appiattisce in uno sterile ripetitore”; e di se stesso non ha difficoltà a rivelare: “Nelle lezioni diventai freddo e meccanico: tutto mi usciva di bocca per abitudine. Non ero ormai che il ripetitore delle dottrine che avevo creato; se qualcosa mi veniva fatto di creare, questo non era dottrina, era canto d’amore”. Come la “luce” della fede religiosa, quindi, rafforza la capacità conoscitiva umana, rivelandole verità diversamente ignote, così la “luce” dell’amore irrobustisce l’intero essere umano, svelandogli realtà altrimenti non sperimentabili.

Nel pensiero di Abelardo emergono almeno due posizioni allora innovative e oggi di grande attualità: il valore degli “universali” (o idee) e l’etica dell’intenzione. Nel 1200 lo studio della filosofia era inchiodato all’autoritarismo dell'aristotelismo, e la ricerca in teologia era bloccata dall’interpretazione dell’autorità ecclesiastica; persino la scienza doveva fare i conti con l’astratta metafisica: erano davvero molto lontani i Machiavelli, i Keplero, i Galilei, i Cartesio. Dominava assoluto il teocentrismo, usato per controllare le menti e per soggiogare i popoli. Abelardo, però, svincolò il valore dell’idea dall’astrattezza del nominalismo (attirandosi l’ira del filosofo francese Roscellino, suo antico maestro, dal quale fu accusato d’eresia) e la liberò, d’altra parte, anche dalle angustie del piatto realismo (propugnato da sant’Anselmo e da Guglielmo di Champeaux). Abelardo, così, precorre di circa sei secoli Immanuel Kant, rivendicando la “funzione regolativa” d’ogni idea, in quanto essa costituisce l’ideale, che deve avere sempre un fondamento nella realtà e deve tendere a creare altre possibili realtà future, oggetto di speranza sostenuta da forte fede razionale.

Veramente temeraria è, poi, la proposta della morale dell’intenzione, fondata su un robusto antropocentrismo. L’uomo – argomenta Abelardo - è dotato di ragione; questa, però, pur essendo una facoltà straordinaria, che distingue e nobilita la natura umana, resta tuttavia una facoltà limitata, imperfetta e fallibile, proprio perché umana. E’ necessario, di conseguenza, che essa muova sempre dal dubbio, unico fondamento solido, per costruire una ricerca valida e veritiera. Il “credere”, in ogni ambito, dev’essere un atto di comprensione e un gesto di vitalità umana: si deve capire ciò che si crede e perché lo si crede. “E’ ponendo domande che impariamo la verità”, afferma apertamente Abelardo, precisando che non si crede a una cosa perché Dio l’ha detta, ma si ammette ch’egli l’abbia detta, perché razionalmente la cosa è vera. Affermazioni pericolose; ma Abelardo continuò a insegnare senza remore che “Dio tiene conto non delle cose che si fanno, ma dell’animo con cui si fanno; e il merito e il valore di chi agisce non consistono nell’azione, ma nell’intenzione”. E preciserà ancora: “Gli uomini giudicano di quel che appare, non tanto di quello che è nascosto (…). Solamente Dio, che guarda allo spirito con cui si fanno le cose, valuta secondo verità la consapevolezza della nostra intenzione”.

La statura culturale di Abelardo va compresa certamente mediante la profondità del suo pensiero e il coraggio mostrato nella vita “esteriore”, ma anche attraverso l’esperienza della sua “vita intima”: in filosofia non sono mai scindibili le due cose. Abelardo è stato interpretato come il filosofo spregiudicato e intemperante; così come Eloisa è stata additata come esempio d’amore libero e moralmente deplorevole. Esaminando, però, senza pregiudizio alcuni comportamenti dei due, si rivela diversa la realtà. E’ vero che Eloisa, infatti, dopo la nascita del figlio Astrolabio, si oppose al matrimonio, ma solo perché sarebbe stato “infamante” e “oneroso sotto ogni aspetto” per il marito: “Quante lacrime verserebbero – scrisse - coloro che amano la filosofia a causa del matrimonio”. Ma quando capì la decisione di Abelardo, concluse con angoscia: “Resta una sola cosa; la certezza che non soffriremo meno di quanto ci siamo amati”. E dopo il matrimonio e l’evirazione di Abelardo, quando si decise di prendere entrambi la vita monastica, Abelardo si chiuse nel silenzio del tormento, per non accrescere la sofferenza d’Eloisa. Lui entrò nel monastero a Saint-Gildas de Rhuys, e mandò lei nel monastero di Argenteuil. Le strade si separano e i due non si rivedranno mai più.

Successivamente, quando per caso ebbe tra le mani una lettera di Eloisa, in cui ella confidava la sofferenza per l’amore ancora vivo, Abelardo ne rimase molto turbato: aveva sperato che il tempo avrebbe almeno attenuato tormenti della sua donna. Repressa, allora, la sua angoscia, le si rivolse con fare volutamente freddo e distaccato, ricordandole i nuovi doveri di badessa. Lei gli ricordò alquanto risentita il fervore del passato; Abelardo, sempre con fare distaccato, le scrisse: “Io adesso sono circondato anche nell’anima”; Eloisa, allora, gli pose la straziante domanda finale: “Perché la sublimazione si dovrebbe raggiungere soltanto annichilendo i sensi e il sentimento d’amore che si prova verso un’altra persona?”. Abelardo, allora, chiuso in un silenzio degno d’un martire, non risponderà mai esplicitamente; poco prima di morire, però, l’ammonì: “Ricordati che io ti appartengo”. Abelardo muore nel 1142, Eloisa nel 1164. Sepolti in uno stesso loculo, secondo la volontà di Eloisa, i loro resti giacciono in una cappella nel cimitero del Pére Lachaise a Parigi. Ai piedi della tomba c’è la scultura raffigurante un cane, simbolo di fedeltà.

domenica 12 ottobre 2014

FERMARE LA GUERRA

Pubblicato da "Affari Italiani" Domenica, 14 settembre 2014 - 11:34:00

Il Papa: “Fermare la guerra”. L'analisi del filosofo Scarcella

Il Papa: la guerra distrugge, è follia. E il filosofo Cosimo Scarcella sceglie Affaritaliani.it per commentare le parole del pontefice: "La novità terrificante dell’ultimo intervento è stata la sua aperta e chiara accusa che la guerra è scelta e decisa dalla libera volontà di alcuni uomini. Le guerre sono possibili – ha detto – “perché oggi dietro le quinte ci sono interessi, piani geopolitici, avidità di denaro e di potere". La storia del passato e le esperienze del presente documentano, infatti, che le guerre sono generate o dal fondamentalismo religioso o dalla brama di potere economico e politico, ma..."

La pace sembra essere la chimera degli ottimisti utopici; la guerra la realtà tragica, ma necessaria e inevitabile. “Fermare la guerra” aveva già gridato il papa qualche giorno fa; e, con lo sguardo rivolto sulle tombe dei caduti in guerra, ha ripetuto: “Dopo il secondo fallimento di un’altra guerra mondiale si si può parlare di una terza guerra combattuta ‘a pezzi’, con crimini, massacri, distruzioni”. La novità terrificante dell’ultimo intervento è stata la sua aperta e Chiara accusa che la guerra è scelta e decisa dalla libera volontà di alcuni uomini: le guerre sono possibili – ha detto – “perché oggi dietro le quinte ci sono interessi, piani geopolitici, avidità di denaro e di potere, c’è l’industria delle armi, che sembra essere tanto importante!”. La storia del passato e le esperienze del presente documentano, infatti, che le guerre sono generate o dal fondamentalismo religioso o dalla brama di potere economico e politico. Negli ultimi tempi in campo religioso abbiamo assistito a numerose concrete iniziative di dialogo e di riavvicinamento. Non si può dire la medesima cosa nel campo politico, in cui indubbiamente anche i “grandi” si riuniscono, ma per trovare equilibri di dominio e di ricchezza, Il loro dialogo si fonda sul compromesso politico e sul ricatto economico; unico argomento da discutere è sempre quale profitto si possa trarre dal diniego o dall’accettazione di una proposta. Ed è terrificante leggere che si è giunti persino alla conclusione (condivisa) di promuovere delle guerre per spegnerne delle altre e addirittura dell’opportunità di “inviare armi per vendicare stragi”. Non a caso lo stesso pontefice alcuni giorni prima aveva dovuto sottolineare: “Ho detto ‘fermare’ e non ‘bombardare’ la guerra!”. Sono gli uomini a decidere la guerra e la pace: quindi possono scegliere di perseverare o cambiare rotta.

Molto significativo è stato l’aver puntato il dito sulla “industria delle armi, che sembra essere tanto importante!”. Affermazione questa, che ci rimanda a circa settanta anni fa, quando Pio XII, sfidando la “follia” del nazismo e del fascismo, leggeva e trasmetteva i radiomessaggi natalizi degli anni 1940-1942, che rappresentarono – secondo il giudizio dell’ambasciatore tedesco di allora, Von Weizsäcker, "un manuale completo per il ritorno alla ragione internazionale". Rivolgendosi direttamente ai responsabili della guerra, il pontefice, elenca i principi su cui doveva nascere dalle macerie della guerra il nuovo ordine: vincere l’odio serpeggiante tra i popoli, ridare dignità al diritto internazionale, eliminare la priorità dell’utilitarismo, controllando le divergenze in economia mondiale, eliminare lo squilibrio tra un esagerato armamento degli Stati potenti e il deficiente armamento dei deboli, scendere a un ampio e proporzionato limite nella fabbricazione e nel possesso di armi offensive; nel messaggio del 1942, infine, il papa si spinse oltre, concentrandosi soprattutto sui principi sociali e morali che dovevano essere "il sostrato e il fondamento di norme e leggi immutabili per costruzioni sociali di interna solida consistenza".

Quei messaggi allora non furono accolti benevolmente da parte di tutti. Il sacerdote modernista Ernesto Bonaiuti, per esempio, notò che il Natale, occasione propizia per riflettere sui lutti dell’umanità, serviva al papa per “ammannire dalla radio vaticana una lezione di diritto internazionale”; il cattolico fascista Giovanni Papini giunse a scrivere: “Il papa somiglia a uno che dinanzi a una metropoli in fiamme faccia saggi discorsi, per dimostrare che ai bambini non vanno affidate le scatole di fiammiferi". Ed è risaputo il sarcasmo di Benito Mussolini: “Il Vicario di Dio – disse - non dovrebbe mai parlare: dovrebbe restare tra le nuvole".

Oggi tutti si augurano che I responsabili del governo dei popoli e delle nazioni diano ascolto al dolore del papa, che avverte: “E’ proprio dei saggi riconoscere gli errori, provarne dolore, pentirsi, chiedere perdono e piangere”. Sperano che a questo Papa, che si appresta a parlare nell’aula dell’Unione Europea, non accada ciò che accadde con papa Giovanni XXIII, che nella crisi di Cuba, grazie anche a queste precedenti posizioni della chiesa cattolica, poté rivolgersi alle due massime potenze, che minacciavano di far precipitare il mondo nel baratro di un conflitto nucleare: “Noi supplichiamo – disse - tutti i governanti a non restare sordi a questo grido dell'umanità. Che facciano tutto quello che è in loro potere per salvare la pace”. Fu ascoltato. Ma fa riflettere ciò che il russo Anatoly Krasikov riferisce nella biografia di Giovanni XXIII: "Resta curioso il fatto che negli Stati cattolici non si riesca a trovare traccia di una reazione ufficiale positiva, all'appello papale alla pace, mentre l'ateo Kruscev non ebbe il più piccolo momento di esitazione per ringraziare il papa e per sottolineare il suo ruolo primario per la risoluzione di questa crisi che aveva portato il mondo sull'orlo dell’abisso".