Il Tempo, in sé fluire di momenti transeunti che vanno accolti, si apre a un "oltre" custode Eterno di valori trascendenti che vanno abitati. Vicende e realtà tendono alla suprema fusione nell'infinita Totalità, anima di ogni Speranza.

sabato 30 novembre 2013

RIFLESSIONI AL FEMMINILE


Della figura e dei problemi della “donna” in genere parlano “uomini”. Forse è preferibile che parlino le donne stesse. E ascoltiamo qualche riflessione di una filosofa davvero impegnata.

La professoressa Michela Marzano, laureata in Filosofia all’Università di Pisa, è ordinario all’Università di Parigi V. E’ Autrice di numerosi saggi ed articoli di filosofia morale.

L’analisi della fragilità della condizione umana rappresenta il punto di partenza delle sue ricerche e delle sue riflessioni filosofiche.

CONFESSA
Se non avessi attraversato le tenebre, forse non sarei diventata la persona che sono oggi. Forse non avrei capito che la filosofia è soprattutto un modo per raccontare la finitezza e la gioia.

RISPONDE

Professoressa Marzano cos'è per lei l'amore? 
Ah! Domanda difficile, perché in questo momento sto cercando di riflettere… proprio perché sto scrivendo il mio prossimo libro sull’amore.
Dunque, l’amore. Intanto comincerei col dire ciò che non è l’amore. L’amore non è la fusione, non è nel momento in cui io penso che l’altra persona possa colmare esattamente il vuoto che mi porto dentro, che sono confrontata all’amore, perché in quel caso confondo l’amore con il bisogno.
L’amore però, al tempo stesso, non è nemmeno indifferenza, che poi è praticamente lo scoglio di fronte al quale ci troviamo: se non posso arrivare a una fusione con l’altra persona perché l’altra persona non può colmare il mio vuoto, non posso nemmeno fare come se l’altro fosse un estraneo e quindi mettere troppa distanza tra me e l’altro. Partendo da queste due cose da evitare, l’amore è un equilibro delicato che consiste a dare e ricevere. Lacan direbbe che: “Ogni qualvolta che si ama, si dà ciò che non si ha, a una persona che non lo vuole”. Secondo me è una definizione molto bella dell’amore perché effettivamente quando si ama, si ha tendenza a voler dare alla persona che si ama, quello che si vorrebbe ricevere da questa persona. Solo che, siccome l’altra persona è altro rispetto a noi, probabilmente quello che lui o lei vuol ricevere non è quello che gli stiamo dando. Ecco perché c’è questo paradosso, io do a una persona che amo quello che non ho, anche se questa persona molto probabilmente non vuole quello che io le sto dando.
C’è sempre un’incomprensione all’interno dell’amore: si dà e si riceve, anche se il tutto in maniera sempre asimmetrica e imperfetta.

Come spiega l'esistenza della sofferenza in ogni sua forma?
Non credo si possa spiegare la sofferenza. Quando si soffre, si cerca disperatamente di trovare un perché. Il perché di questa sofferenza, però, sfugge sempre. Per certi aspetti, la sofferenza è sempre inutile e sempre senza senso. Ecco perché bisognerebbe smetterla di cercare per forza un “perché”. Quello che conta, talvolta, è spostarsi dal “perché” al “come”: non “perché soffro?” ma “come posso fare per soffrire meno?” Purtroppo quando si parla della sofferenza c’è sempre qualcosa che rinvia al mistero della condizione umana. Questo non vuol dire che si debba accettare la sofferenza. Al contrario. Si deve cercare si superarla e di diminuirla. Sapendo però che tante volte si è impotenti.

Qual è per lei il senso della vita?
Per me il senso della vita è vivere! Se si cerca di andare al di là del vivere, talvolta ci si perde.

sabato 5 ottobre 2013

FEDELTA’ E COERENZA DURANTE LA VITA


Nel corso dell’esistenza umana si sperimenta e, quindi, necessariamente si deve riconoscere e accettare che la vita in ogni suo aspetto (personale e familiare, sociale e relazionale, professionale e lavorativo) non è mai staticità e inerzia; infatti, non sarebbe vita, ma morte. La vita, di conseguenza, comporta inevitabilmente cambiamenti, che richiedono adeguati mutamenti talora sostanziali.

 
L’uomo è chiamato a comprendere con decisione questa verità effettuale, se ha l'intenzione di ricercare realmente il senso vero delle varie situazioni, che si susseguono e investono casi positivi e gratificanti, ma anche momenti avversi e infelici. Ben fermo, allora, nella sua onestà morale e saldamente ancorato sulla sua saggia fedeltà, egli opera scelte coerenti, che sono spesso fondamentali, decisive e talora anche difficili. Sono, infatti, scelte, che spesso richiedono coraggio e pesano moltissimo, e tuttavia destinate a dare senso nuovo e vero al proprio esistere. Se non si ha la forza di allargare lo sguardo oltre l’orizzonte d’un proprio presente tranquillo e confortevole, per scrutare un oltre per lo più misterioso e temuto, si rischia di rimanere irretiti e schiacciati da un presente ormai privo d’ogni consistenza. Non si può restare attaccati ai più o meno ampi confini d’un’esistenza pacifica perché immobile e immutata, a meno che non ci s’illuda d’attribuire un peso anche all’inconsistente e un significato all’impossibile e, proprio per questo, assurdo e insensato. Tutto scorre; anche il tempo scorre. Scorre anche ogni giorno della vita umana. Ciascun uomo ha ogni giorno l’opportunità o di scolpire, come su dura pietra, quotidiani documenti imperituri di vita autenticamente vissuta oppure di scribacchiare, come su fogli cartacei marcescibili, casuali scarabocchi degni solo del macero.


Verità certamente facile a dirsi, forse anche difficile a comprendersi, ma sicuramente molto arduo a realizzarsi. Non è eccessivo paragonare i momenti di questi stati d’animo ai dolori del partorire: senza dolore lacerante non viene alla luce una vita nuova, che sarà poi anch’essa un’avventura di luce e di buio, di bello e di brutto, di bene e di male, di gioia e di dolore, d’entusiasmo e di sfiducia, di voglia di vivere e di tentazioni di odio verso tutto e tutti.

 
Il percorso della vita si realizza, quindi, in continui cambiamenti determinati dal mutare dei convincimenti personali  e delle situazioni sociali e culturali: si tratta, quindi, di mutamenti sollecitati dall’evolvere sia della propria personalità e sia del mondo esterno. Se si trattasse, però, di alternative ricorrenti normalmente, non nascerebbe alcuna difficoltà; i problemi nascono, invece, quando i dettami del proprio animo e le richieste della storia e del mondo socio-culturale sono differenti se non addirittura opposti. E’ in questi casi che nasce il grave interrogativo: cosa sono la coerenza e la fedeltà?

 
Viene subito incontro l’ammonimento di Mahatma Gandhi: “Meglio un milione di volte sembrare infedeli agli occhi del mondo che esserlo verso noi stessi”. La fedeltà e la coerenza, infatti, sono sostanzialmente il segno e la manifestazione del benessere interiore personale. E' una condizione di equilibrio, di serenità e di contentezza, in cui ci si sente esattamente come si desidera essere e in cui si ha proprio ciò che si desidera avere: “Solo chi è fedele in se stesso – avverte Erich Fromm - può essere fedele agli altri”; quegli “altri”, che a volte – anche pensando onestamente e comportandosi in buonafede, addirittura mossi da zelo sincero e persino sollecitati e confermati da elementi apparentemente indiscutibili – corrono il rischio di fraintendere verità personali e obiettive e di snaturare realtà individuali e collettive. Anche in questa circostanza, però, la serenità e la contentezza interiori possono essere solo lambite da brevi momenti di tristezza morale causata da equivoci, confusioni e ambiguità, ma giammai turbate nella loro essenza.

 
QuestauestaQ condizione di benessere interiore, però, non è da confondere con la chimera della felicità (pura aspirazione dell’uomo d’ogni età) e non è caratterizzata dalla quantità di esperienze positive e gratificanti, in quanto in essa permangono tutti gli elementi di fatica, di tedio, di dolore. Ogni avvenimento in qualunque ambito accada - purchè ponderatamente deciso e definito dentro l’orizzonte di fedeltà e di coerenza alla totalità della propria personalità - comporta sempre un arricchimento e produce crescita, benché s’accompagni sempre a stati d’animo di turbamento: i logici motivi della ragione non sempre sono in sintonia con gli umani sentimenti dell’animo; e riorganizzare le nuove modalità di vita richieste dalla propria fedeltà e coerenza è impresa non facile, ma delicata e talora lunga e difficoltosa.

 
Di conseguenza, fedeltà e coerenza in qualunque ambito non sono un valore in sè e per sè, ma sono sempre agganciate a una scelta di vita, che abbia valore in sé e che ne fondi la validità: coerenza e fedeltà scaturiscono sempre da una scelta personale di fondo e sono indirizzate al raggiungimento d’un obiettivo motivato interiormente e giustificato da situazioni storicamente concrete. Nel corso della vita sono molte le strade che si presentano, ma una sola è quella veramente giusta: si  tratta di capire quale sia, fra tutte le altre: cosa non sempre agevole, perché può essere fra quelle meno comode e invitanti; anzi, può presentarsi addirittura sbarrata dai rovi e soffocata da una densa vegetazione, che ne rendono arduo il cammino. E tuttavia un richiamo misterioso, segreto, irresistibile spinge verso di essa, se si è capaci di fare un po' di silenzio nell'animo. Fedeltà e coerenza, pertanto, non sono due facce del comportamento umano, bensì due elementi sostanziali, che costituiscono l’intero spessore vitale d’ogni uomo, racchiuso in un progetto globale dettato dalle spinte della totalità umana: ragione, mente, esperienza, cuore, sentimento, sostenuti sempre da una volontà tenace e soprattutto da una personalità umile e dignitosa, perché libera da tutti e da tutto, anche da se stessa (altrimenti si trasformerebbe in idolo che schiavizza subdolamente).


Percorrere con perseveranza il cammino della vita con fedeltà e coerenza ai convincimenti del proprio animo è difficile, anzi significa rasentare l’eroismo etico. Chiunque, infatti lo testimoni, è uno straniero nel mondo e un anormale nella storia (o almeno così è guardato quasi sempre). Chiunque cammini per le strade della città senza indossare la maschera della finzione e dell’ipocrisia è additato come un fenomeno strano e inquietante dai più, i quali, invece, non se la tolgono mai. In verità, ogni essere umano resta sempre uno straniero per gli altri, in quanto ciascuno porta in sè il proprio mistero e la propria solitudine e cova nell’intimità del proprio animo suoi interrogativi, che nessuno conoscerà mai e ai quali egli stesso forse non saprà dare mai una risposta. A quest’isolamento costitutivo della natura umana s’aggiunge, però, un altro isolamento, forse più amaro: quello cui è condannato chiunque si sforzi d’essere autentico in qualunque circostanza, senza piegarsi alla direzione da cui soffia il vento della convenienza egoistica e del calcolo privato; è l’isolamento cui lo condannano spesso l'indifferenza proprio degli “altri”, la sorda ostilità del vicino e, dolorosamente, la noncuranza dell’amico.

 

 

 

lunedì 5 agosto 2013

IMMORTALITA’ DELL’UOMO E RELIGIOSITA’


Socrate, rivolgendosi ai giudici che gli avrebbero confermato la sentenza di condanna a morte, faceva loro notare ch’egli era ormai molto vecchio, per cui riteneva di non doversi affliggere della sorte che l’attendeva, in quanto non gli sarebbe rimasto comunque molto altro tempo da vivere sulla terra. Ma li avvertiva di una conseguenza certa. Essi, condannandolo a morte, sarebbero stati immortalati dalla fama d’aver ucciso un uomo sapiente; egli, invece, nonostante non si ritenesse sapiente, sarebbe sopravvissuto come martire e sarebbe stato non solo perpetuato, ma anche imitato da molti discepoli e amici. La conseguenza, quindi, era inevitabile: se fino allora il fastidioso fustigatore dei vizi dei potenti era stato uno solo, in seguito si sarebbero moltiplicati. Gli uomini virtuosi, saggi e onesti non muoiono mai del tutto, ma vivono in eterno: la virtù e la rettitudine rendono immortale. E Socrate, infatti, è tuttora vivo, e tale resterà proprio grazie all’integrità conservata fino all’ultimo, fino agli estremi d’ogni umana possibilità. Primo martire della filosofia occidentale, egli non solo non invoca pietà, ma non usa nemmeno parole di suadenti lusinghe per impietosire o false argomentazioni per fuorviare i giudici; si rimette totalmente al loro giudizio qualunque esso sarà; rimane calmo nella serenità propria dell’uomo giusto e onesto. Vissuto nella rettitudine e nella giustizia, è profondamente convinto che può attendersi solo il bene e la felicità anche dall’eventuale condanna a morte, ch’egli immagina o un amabile profondo sonno o un felice ritrovarsi nel regno degli inferi con i grandi eroi d’ogni tempo. E conclude verso i giudici: “Vedo che è tempo ormai di andar via, io a morire, voi a vivere. Chi di noi avrà sorte migliore, è a tutti ignoto, tranne che al nume”.

 

In queste parole conclusive di Socrate resta scolpito l’interrogativo che s’è posto da sempre e continuerà a porsi l’uomo d’ogni tempo: cos’è la vita e cos’è la morte. Interrogativo senza risposta umanamente certa: nessun essere mortale, infatti, ha mai saputo veramente cosa sia quello che si considera “vita” e quello che si definisce “morte”; lo stesso Socrate si limita solo a rappresentarsi due congetture, che scaturiscono dal profondo della sua anima, mentre sta vivendo momenti di rara sublimità. “Quasi per sua natura – scrive a proposito l’Anonimo autore del Sublime - l’anima si esalta e, prendendo non so quale generoso slancio, si riempie di gioia e d’orgoglio (…); il sublime non porta alla persuasione, ma all’esaltazione, perché il sublime è l’eco della grandezza interiore (…); tutti partecipano di un moto d’animo collettivo che genera un’esperienza di vita e un’iniziazione, una comunicazione alta di concetti e di valori, che conduce quasi inevitabilmente a una vita migliore”. Solo affidandosi a simili stati d’animo di “sublimità”, l’uomo giungerà, riguardo al suo essere, a qualche risultato confortante e capace di liberarlo dall’angoscia forse ingiustificata, ma non per questo meno dolorosa, poiché è causa d’un’insopportabile oppressione di paure e di superstizioni.

 

A questo proposito ritorna alla memoria il poeta latino Lucrezio, quando, momentaneamente quasi dimentico delle sue ben salde convinzioni atomistiche e meccanicistiche che sta esponendo nel De rerum natura, inaspettatamente sembra cedere a una forma d’insolito realismo, armonicamente mescolato a una complicità quasi affettiva. Immerso in uno stato d’animo di empatia universale, dà vita a versi intensamente umani, nei quali, dopo aver evocato alla nostra considerazione tutti gli esseri animati e inanimati, con un colpo d’occhio istantaneo ci protende all’infinito fino a trasportarci in un’avventura meravigliosa, che ci innalza fino alla magnificenza e al silenzio degli spazi celesti: “Quando – s’interroga - leviamo lo sguardo agli spazi celesti dell’immenso cosmo, e più in alto ancora all’etere trapunto di astri splendenti, e ci vengono in mente le vie della luna e del sole, allora un’angoscia coperta nel cuore dagli altri dolori comincia a destarsi e anch’essa a levare la testa: forse si sta mostrando un immenso potere divino, che volge le stelle luccicanti nei loro molteplici moti?”.

L’uomo assiste ogni momento all’ineluttabile ciclo che scandisce la vita d’ogni essere abitatore della terra: nascita, crescita, maturazione, declino, morte: guarda questa legge universale con fredda audacia, senza mai sfidarla, talora forse la teme, ma sa benissimo che è comune destino inevitabile. E tuttavia non vi si rassegna mai del tutto. Nel suo profondo percepisce una misteriosa esigenza di sopravvivenza. Non è vile paura di morte né arrogante anelito all’eternità tra i viventi. E’ una nascosta ma forte, arazionale ma umana, inspiegabile ma insopprimibile esigenza d’immortalità. Parte di una Totalità, intuisce, senza saperselo spiegare, che egli non può essere del tutto transeunte e contingente. E spera solo che sia un’esigenza che poggi sul fondamento di qualche realtà immanente come lui, ma nello stesso che lo superi e lo trascenda.

 
E’ la convinzione nutrita anche da Socrate e da Lucrezio. Un nascosto “nume” onnisciente, un ignoto “immenso potere divino” reggono e guidano – forse - il cosmo: è questo il punto d’approdo dei due pensatori così lontani nel tempo e diversi per cultura e sensibilità, ma così in sintonia davanti ai supremi misteri, che avvolgono la vita dell’uomo e la realtà del mondo. E molti secoli più tardi, dopo le conquiste del rinascimento e i progressi delle scienze alla vigilia dell’illuminismo, al loro pensiero s’unirà, tra gli altri, Giambattista Vico con l’arduo pensiero tramandatoci nella Scienza nuova: l’uomo – annota - contemplando il mondo e considerando il magnifico misterioso avvicendamento dei suoi aspetti, viene assalito e dominato da molti sentimenti diversi, di ammirazione e di stupore, ma anche di paura e di sbigottimento, tanto da essere indotto a invocare qualcosa o qualcuno come suo aiuto o comunque come forza amica, che ne garantisca la sopravvivenza e l’immortalità. Si origina allora nell’animo umano il sentimento della “divina provvidenza”, che poi la ragione indagherà e la volontà accoglierà o respingerà. Secondo il Vico, infatti, l’innato desiderio d’immortalità è spiegabile solo da un principio superiore: “Pur gli uomini – sostiene - hanno essi fatto questo mondo di nazioni (...), ma egli è questo mondo, senza dubbio, uscito da una mente spesso diversa ed alle volte tutta contraria e sempre superiore ad essi fini particolari ch'essi uomini si avevan proposti”.
 
La vera “ordinatrice del mondo delle nazioni” è, dunque, la provvidenza: “Ché senza un Dio provvedente, non sarebbe nel mondo altro stato che errore, bestialità, bruttezza, violenza, fierezza, marciume e sangue; e, forse senza forse, per la gran selva della terra orrida e muta oggi non sarebbe genere umano”; e all’inizio dell’opera aveva avvertito prudentemente e con sagacia: “Il diritto naturale delle nazioni egli è certamente nato coi comuni costumi delle medesime: né alcuna giammai al mondo fu nazione d’atei, perché tutte incominciarono da una qualche religione. E le religioni tutte ebbero gittate le loro radici in quel desiderio che hanno naturalmente tutti gli uomini di vivere eternamente; il qual comune desiderio della natura umana esce da un senso comune, nascosto nel fondo dell’umana mente, che gli animi umani sono immortali; il qual senso, quanto è riposto nella cagione, tanto produce quello effetto: che, negli estremi malori di morte, desideriamo esservi una forza superiore alla natura per superargli, la quale unicamente è da ritrovarsi in un Dio che non sia essa natura ma ad essa natura superiore, cioè una mente infinita ed eterna; dal qual Dio gli uomini diviando, essi sono curiosi dell’avvenire”.
 
Il Vico assicura che la potenza del desiderio d’immortalità è proprio della natura umana, ma avverte che non deve divenire e tanto meno cedere alla tentazione d’onnipotenza. E ne indica il rimedio. L’uomo – assicura - ha sempre e comunque il potere e la responsabilità di decidere il cammino suo e dell’umanità; tuttavia, davanti a fenomeni d’enorme potenza ineluttabile, come la morte, sente nascere in sé il bisogno di pensare e d’invocare un “Dio” che lo soccorra nella sua finitezza e rimedi alla sua mortalità.
 
Certo, anche di recente Martin Heidegger in Essere e Tempo avvertiva, dopo le tragedie delle dittature, che “solo un Dio ci può salvare”: ma finiva per sprofondare in antichi sonni dogmatici, dai quali ci aveva svegliato definitivamente Immanuel Kant. Il Vico, invece, anticipando il filosofo del criticismo, aveva portato l’umanità fuori dallo “stato di minorità”, perché non cedeva a qualunque forma di dogmatismo (tanto in metafisica quanto nella stessa fisica). Il bisogno d’immortalità fa invocare un “Dio” superiore a tutto, ma è assolutamente privo d’ogni carattere di antropomorfismo. Vico, inoltre, si discosta dal demiurgo di Platone, dal “sommo Padre Architetto” di Pico della Mirandola e di Isaac Newton; si avvicina e accoglie, invece, il “Dio della Legge” degli antenati, immanente e nello stesso tempo trascendente la mente umana, tale che illumina e guida le scelte d’ogni essere umano nei confronti di se stesso e del cosmo intero. Il Vico, quindi, propone una divinità, che nasce dal desiderio umano e che è vissuto come l’unico sommo “provvedente di tutte le nazioni”, il garante dei valori della “natura umana tutta dispiegata e riconosciuta uguale in tutti”. Per Vico questa è “la sola luce” che fa capire che “il mondo delle gentili nazioni egli è stato pur certamente fatto dagli uomini”, ma nello stesso tempo svela anche “due gran princìpi di vero: uno, che vi sia provvidenza divina che governi le cose umane; l’altro, che negli uomini sia la libertà d’arbitrio, per lo quale, se vogliono e vi si adoperano, possono schivare ciò che, senza provvederlo, altrimenti loro apparterrebbe”.
 
 Ritornare a queste riflessioni di filosofi anche del passato potrebbe sembrare superfluo, poiché la cultura come minimo degli ultimi due secoli ha sancito senza incertezze non solo la mortalità dell’uomo, ma anche la morte di Dio stesso. Nietzsche, infatti, in “Aurora” (1881) derideva coloro che sognavano l’immortalità dell’uomo: “A questa bella vostra coscienza di voi stessi augurate, dunque, una 'eterna durata’? Non è un’insolenza? Non pensate a tutte le altre cose, che dovrebbero sopportarvi per tutta l'eternità, come vi hanno sopportato fino a oggi?”; e qualche anno dopo, nella “Gaia Scienza” e in “Così parlò Zaratustra” annunciava trionfalmente anche la “morte di Dio”. E in verità, se si riflette sulle vicende solo del secolo passato, non si può nascondere un senso di smarrimento: le guerre mondiali, le dittature e le tirannie, i successivi eventi deludenti delle neonate democrazie, le crisi globali non solo e non tanto dell’economia, ma anche e soprattutto delle ideologie e di molti modelli valoriali, non farebbero davvero pensare diversamente e sperare meglio. Preferibile, quindi, rinverdire pensieri e speranze di chi ci ha preceduto.
 
A meno che non ci si voglia rifugiare nell’affascinante profetico progetto della neonata filosofia dell’immortalità, rappresentata soprattutto da Raymond Kurzweil, il quale, rifacendosi al Wittgenstein e alle sue ramificazioni neopositivistiche, nutre grande fiducia, se non addirittura la certezza, di scoprire e garantire entro pochi decenni l’immortalità umana, grazie alle scoperte del trinomio Genetica-Nanotecnolgia-Robotica. A questo riguardo, però, sarebbe augurabile dare ascolto ai prudenti e sofferti messaggi di Huns Jonas: è certamente necessario dimostrare ampia apertura verso la dignità e la libertà di ricerca, la quale deve poter compiere il suo compito, ma non si deve mai dimenticare di verificare le reali capacità conoscitive della ragione umana. Certo, l’allungamento della vita dell’uomo è un fatto evidente, ed è una considerevole conquista incontestabile della ricerca scientifica; allo stesso modo, è anche ragionevole prevedere che altri progressi ridurranno ancora i tempi dell’invecchiamento e della mortalità. Ma è lecito chiedersi, comunque, fino a che età si potrà vivere in futuro e se si potrà raggiungere davvero l’immortalità. A quel punto, però, bisognerà chiedersi anche se il bisogno di una divinità scomparirà realmente oppure sarà solo rimpiazzato dall’onnipotenza dell’uomo. Alle porte di questo evento, comunque, potrebbe stare in agguato e attenderci il destino prefigurato dall’onnipotente Kirillov de “I demoni” di Dostoevskij: l’uomo realizzerà e dimostrerà la sua onnipotenza, solo quando sarà capace di vincere e distruggere tutto: compreso, quindi, se stesso. L’onnipotenza dell’uomo coinciderà con il nulla totale.