Il Tempo, in sé fluire di momenti transeunti che vanno accolti, si apre a un "oltre" custode Eterno di valori trascendenti che vanno abitati. Vicende e realtà tendono alla suprema fusione nell'infinita Totalità, anima di ogni Speranza.

domenica 9 giugno 2013

LA NON ESISTENZA DI DIO. LA DIMOSTRA DAVVERO LA “PROVA ETICA”?


 

“Il vero scoglio è la prova etica”: così titolava a caratteri cubitali la ‘Domenica’ de “Il Sole24Ore” del 12 maggio scorso (n. 128, pag. 35) il contenuto della conferenza tenuta da Arif Ahmed, docente di filosofia a Cambridge, giovedì 18 aprile 2013 alla Scuola Normale Superiore di Pisa, su invito del Centro di Filosofia della Scuola.

L’assunto mira a provare il fallimento d’ogni dimostrazione razionale dell’esistenza di Dio. E questa è dottrina saldamente sostenuta e saldamente dimostrata già da numerosi pensatori fin dall’antichità. Poco fondate e convincenti appaiono, invece, alcune deduzioni che si vuole far discendere dall’assunto. Sembrerebbe, infatti, che l’incapacità della ragione di dimostrare l’esistenza di Dio ne comproverebbe, al contrario e simultaneamente, l’inesistenza. Questa conclusione, però, rimanendo nei limiti dei procedimenti puramente razionali, sarebbe incomprensibile: è, infatti,  contraddizione palese affermare che la ragione umana, incapace di dimostrare l’esistenza di Dio, sia in grado, poi, di dimostrarne l’inesistenza. Ma, a parere dell’autore, a ciò supplisce adeguatamente la testimonianza inconfutabile dei “fatti” storici compiuti nei diversi secoli dalle “chiese”. Sono questi a costituire il solido “scoglio della prova etica”, grazie al quale resterebbe finalmente smascherato il vero volto d’ogni “religione”: “C’è - si chiede sin dall’inizio l’autore - una qualche religione che è vera o che abbia qualche valore?”; e prosegue senza alcuna esitazione, asserendo: “Il modo migliore per affrontare questa domanda è mettere da parte le proprie convinzioni e cercare di guardare in modo spassionato alle prove disponibili”. E quali “prove” più inconfutabili della predicazione ingannevole della creazione d’un cosmo in sé ordinato e finalizzato alla vita degli uomini, dell’egoismo fratricida dominante nel mondo dei credenti, delle guerre di religione o comunque fatte spesso in nome di Dio, degli ibridi connubi delle chiese con i potenti di turno d’ogni tempo? E ciò proverebbe l’inesistenza di Dio.

Questi fatti sono registrati dalla storia: ma, oltre a provare dolorosamente l’incoerenza delle chiese e degli uomini di chiesa, hanno alcun valore riguardo anche la religiosità dell’uomo e la possibile esistenza di una realtà che trascenda la finitudine spazio-temporale e tenga vive le speranze d’un “aldilà della terra” e di un “oltre l’uomo”? Veramente sarebbero sufficienti alcuni eventi storici, opportunamente scelti e adeguatamente presentati, a documentare non solo la miseria delle chiese (soprattutto cattolica), ma anche l’inesistenza di un Dio? Sì, l’inesistenza di Dio; infatti, il problema della dimostrabilità razionale diventa immediatamente problema dell’esistenza stessa di un Dio. Sembra che si giunga alla negazione dell’esistenza di Dio, pur di poter denunciare la nociva inutilità e addirittura la “criminalità” delle chiese, e innanzitutto della chiesa cattolica: “Forse il crimine maggiore della chiesa cattolica – è scritto espressamente - è quello di offrire una falsa speranza a milioni di persone,inclusi i più poveri e gli oppressi, che inganna in modo che concedano credito a storie fantastiche e il loro denaro per i palazzi dorati dei vescovi”. E questa convinzione è talmente ferma da far confessare all’autore: “Sono convinto che qualsiasi persona non animata da pregiudizio, dopo aver esaminato i dati addotti come prova, debba concludere che la religione è priva di verità e di valore, che è una malattia originata dalla paura e una fonte di inaudita sventura per l’umanità”.

Si tralasci il dubbio se il “Divus Epicurus” accettasse nel suo Giardino chi nutrisse una simile convinzione sulla religiosità degli uomini; si tralasci pure la perplessità che nasce di fronte al pensiero che tantissimi esseri razionali in tanti lunghi secoli di ricerca siano stati sempre talmente “animati da pregiudizio” da essere incapaci di una propria pur minima autonomia di giudizio. Certo, dev’essere sempre costante il rispetto del pensiero degli altri; ma non si può nemmeno essere timidi e accoglierlo acriticamente, e nemmeno moralmente indifferenti per non segnalarne probabili conseguenze inesatte teoreticamente e imprudenti praticamente.

A sostegno della sua tesi l’autore avanza – talora anche con toni irridenti - la testimonianza che “la ragione umana si è mostrata sufficientemente ostinata da trovare fallaci tutti gli argomenti dei teologi, da Tommaso d’Aquino fino ai nostri giorni”; e si citano filosofi degli ultimi quattro secoli, tra cui Immanuel Kant, i quali “hanno detto più di quanto fosse necessario per stabilire, oltre ogni dubbio, che ben lungi dal guidare la ragione a Dio, questi argomenti  sono incapaci di reggere a uno scrutinio della ragione”. Kant, però, non azzarda coinvolgere questa debolezza della conoscenza umana con la cattiva condotta dell’uomo né tanto meno riduce la “razionalità” propria della natura umana alla sola attività gnoseologica.  La capacità conoscitiva dell’uomo, essendo finita, non può né deve oltrepassare i propri confini, senza cadere nelle favole della metafisica: quindi, saggiamente e onestamente professa un “agnosticismo” metafisico, che investe le “Totalità” del mondo creato, dell’anima umana e di Dio. L’agnosticismo gnoseologico non è, però, assoluta impotenza dell’umana razionalità, in quanto essa si attua proseguendo anche nella pratica della “volontà libera” e si conclude nell’armonia del “sentimento” che riflette ogni totalità, superandone e conciliandone ogni apparente contraddizione.

Kant, chiude definitivamente e inesorabilmente le porte a ogni forma di metafisica, ma apre e accoglie le sollecitazioni della “Totalità umana”. Del resto, per Kant la confutazione delle prove dell’esistenza di Dio fu opera facile, proprio perchè ebbe il coraggio di ammettere che un'esperienza religiosa basata su "prove teoriche" ha un valore molto relativo. Se dio, per poter essere creduto, va preventivamente "dimostrato", allora non è più grande dell'uomo che lo pensa e lo dimostra. Dio va “postulato” e rispettato per quello che la legge morale detta. Nella Prefazione della prima “Critica” (1781) scriveva: “La ragione umana (...) ha il destino particolare di essere tormentata da problemi che non può evitare, perché le son posti dalla natura della stessa ragione, ma dei quali non può trovare la soluzione, perché oltrepassano ogni potere della ragione umana”. Indubbiamente, quindi, s'egli fosse stato convinto del tutto delle sole “ragioni” della fede, non avrebbe scritto un'opera monumentale che lo vide impegnato ben 35 anni, al fine di cercare di risolvere umanamente quelle contraddizioni razionalmente insostenibili. E, infatti, il filosofo prosegue la sua speculazione, animato dall’umana ragionevole speranza di trovare appagamento a quell’esigenza. E lo fa senza paura di dissacrazioni o violazioni, ma non ricorrendo a metodologie di sapore pragmatico. Nella medesima prefazione, infatti, annota: “Il tempo nostro è proprio il tempo della critica, cui tutto deve sottostare. Vi si vogliono comunemente sottrarre la religione per la santità sua e la legislazione per la sua maestà: ma così esse lasciano adito a giusti sospetti, e non possono pretendere quella manifesta stima, che la ragione concede solo a ciò che ha saputo resistere al suo libero e pubblico esame”.

Sarebbe, così, “illusione comune” pensare che senza religione e senza Dio gli uomini sarebbero “soltanto macchine organiche” prive di qualunque senso e destinate a una fine totale. Nessuno ha mai risolto con razionale certezza il problema della preesistenza e dell’immortalità dell’anima umana, nemmeno ricorrendo alla teoria della “doppia verità” propugnata da certa filosofia araba e utilizzata infelicemente anche da alcuni pensatori; tuttavia sembra eccessivo asserire che “numerosi adulti possono trovare il proprio significato nella vita, mediante un lavoro creativo, o l’impegno politico o allevando figli. Il significato di questa vita è situato all’interno di essa, non in un qualsiasi magico regno dopo la vita”. E’ vero; ma forse è illusorio e rassicurante andare a trovarlo nelle occupazioni dell’operosità quotidiana. La vita non pare possa essere ridotta a uno spazio più o meno lungo di tempo da “riempire” con opere valide o imprese mirabili, che ne darebbero valore e significato; probabilmente è il contrario: è dal senso “della” propria vita che derivano le vere motivazioni e la nobiltà delle scelte e dell’operare dell’uomo, il quale prova certamente un vero tremore metafisico nel ricercare, trovare e accogliere il profondo senso “della” sua vita nella finitudine spazio-temporale. L’uomo probabilmente non è l’insieme delle sue azioni, ma – forse - le sue azioni sono la manifestazione e la concretizzazione di quello che lui è in sé e per sè. Qui interviene nuovamente con saggia prudenza Kant, che addita nelle “idee” la via regolativa per l’uomo. Nella “Analitica Trascendentale” ricorda agli uomini le idee platoniche, annotando con triste malinconia: se gli uomini, anziché deridere le idee di Platone, sapessero contemplarle e agire secondo il loro dettame, essi sarebbero più felici e il mondo diverrebbe sempre migliore. E’ chiaro che le idee non diventeranno mai completamente realtà, altrimenti non sarebbero più idee; ma è grazie ad esse che gli uomini possono vivere esistenze sempre meno infelici e più degne della loro natura. Per e nel rispetto di queste “idee” dovrebbe dedicarsi e agire la religiosità umana, talora travisata da certe chiese e strumentalizzata da alcune pseudo-religioni. Forse Platone, nel proporre all’uomo la purezza trascendente delle “idee”, aveva presente l’insegnamento del maestro Socrate, primo martire della filosofia occidentale, che con la morte ha testimoniato fin dove può e deve spingersi il coraggio della coerenza con i grandi “ideali”. Oggi tanto necessari per tutti, ma soprattutto per le nuove generazioni.

 

mercoledì 15 maggio 2013

IL SENSO DELL’UOMO TRA CONTRADDIZIONE E SPERANZA

Già Pitagora, nel dare suggerimenti perché una giornata sia vissuta proficuamente, raccomandava di tenere in massima considerazione e di dedicare particolare attenzione al momento dell’addormentarsi e a quello del risvegliarsi. Sono, infatti, questi i due momenti, in cui bisogna rientrare in se stessi in intima spirituale solitudine totale, per ritrovare se stessi, esaminarsi e giudicare con sincerità le azioni che si sono compiute e, nello stesso tempo, ponderare e decidere con saggezza e prudenza le scelte quotidiane che s’intendono realizzare. Dei propri comportamenti, infatti, si deve rendere conto innanzitutto a se stessi.

Ma quale sarà il criterio di giudizio, con cui si valuterà la propria condotta? Quali saranno princìpi, che determineranno la bontà o l’iniquità delle proprie scelte? Qual è, cioè, il “senso esistenziale” che dà contenuto e valore alla propria vita, considerata sia nella sua quotidianità sia nell’intera sua durata? Da dove scaturiscono i sentimenti d’appagamento o d’insoddisfazione, che s’insinuano e dominano alternativamente il proprio animo? Da dove sgorgano gli stati d’animo di pace rasserenatrice o di turbamento angosciante, che penetrano e riempiono a intervalli la propria anima?

Davanti a queste domande nasce un primo immediato stato d’animo, in cui l’essere umano avverte e subisce uno spiacevole opprimente sentimento di mistero, che lo stupisce e lo sbigottisce, ma nello stesso tempo lo appassiona e lo entusiasma. L’originario inevitabile sentimento del mistero si presenta, quindi, come la componente caratteristica - fondamentale e necessaria - dell’esistenza umana; esso investe la totalità dell’esperienza esistenziale. La realtà del mistero è la vita stessa, in cui sentiamo d’essere immersi: esso ci assale, s’impossessa della mente e del cuore, domina l’essere umano nella sua pienezza. Ci si sente, allora, avvolti da un’immensità indistinta, partecipi involontari e spauriti d’una realtà molto più antica e più ampia della propria singolarità. Ciascun uomo è una piccola entità vagante in un universo indistinto; è una minuscola totalità proiettata in un cosmo smisurato, del tutto sconosciuto e, comunque, ancora totalmente estraneo.

Dapprima incombono profondi sensi d’angoscia, di stupore, di vertigine. In seguito, però, s’affaccia pacatamente una luce, discreta ma vigorosa, che, dapprima lentamente e poi sempre più decisamente, rischiara l’anima, sussurrandole meditate riflessioni. Successivamente nasce e s’accresce la consapevolezza sempre più evidente della potenza delle proprie facoltà, che così s’incamminano fiduciose per un faticoso itinerario d’intuizione, di ricognizione, di vaglio, di comprensione.

Allora l’iniziale estraneità si dilegua e diviene compartecipazione consapevole e condivisa, l’angoscia svanisce e cede il passo alla fiducia che rinfranca e rinvigorisce, lo sbigottimento s’acquieta e si trasfigura in curiosità che incoraggia, la vertigine scompare e si sublima in entusiasmo.

A questo punto l’essere umano è preparato per intraprendere il cammino, che l’avvia alla ricerca e lo condurrà verso il ritrovamento del tanto agognato “senso” dell’esistenza propria, dell’umanità e dell’universo. Nell’adempiere questo sogno, egli non si risparmia alcuna fatica, non arretra davanti ad alcuna difficoltà, affronta e vince ogni ostacolo. Però, ciò nonostante, alla fine deve prendere atto che la sua ragione, con tutte le argomentazioni possibili - sicuramente importantissime e indispensabili - non può costituire o esaurire l’intero orizzonte dell’esistenza, in quanto essa non riesce a far attingere il senso totale della vita. Le dimostrazioni razionali forniscono indubbiamente molti aspetti delle realtà del mondo fisico, animale e umano; ma davanti alle pressanti domande riguardanti il “senso ultimo della vita” esse s’arrestano e, arrendendosi definitivamente, dichiarano il loro limite e la loro inadeguatezza. Infatti, per quanto la ragione umana si sforzi, rimane sempre sommersa dalla nebbia impenetrabile del mistero, che le rimane comunque inaccessibile.

Questo stato d’animo dapprima getta l’anima nello sgomento e nell’ ansia; in seguito, però, fa nascere il bisogno di superare ogni timore e ansietà e proseguire con fiduciosa audacia nella ricerca del senso vero dell’esistenza. L’uomo, allora, va avanti saggiamente nell’indagine, utilizzando il contributo e il sostegno di altre sue facoltà, delle quali riscopre tutta la validità e ricchezza. S’affida, quindi, alla volontà, che gli consente d’impadronirsi e d’arricchirsi di nuovi aspetti di realtà e di verità, precluse all’indagine solamente conoscitiva. Tuttavia, nemmeno così riesce a squarciare completamente il velo, che nasconde il senso autentico e indubitabile della vita umana e del cosmo. Anzi, qualche volta, si vive ancora più confuso e si sente smarrito nelle nebbie dell’offuscante ammasso di contraddizioni evidenti e indiscutibili.

La realtà, infatti, da un lato si presenta come un tutto ordinato e ben governato, ma dall’altro lato si mostra in una prospettiva inquietante di disordine e caos, fonte d’ingiustizia e d’irrazionalità. La complessa meravigliosa armonia del cielo stellato è quanto mai sublime, e la silenziosa contemplazione della sua smisurata vastità infonde nell’animo stupore, ammirazione e pace; e tuttavia l’astronomia documenta fenomeni giganteschi, incontrollabili, terrificanti. Allo stesso modo, il ciclo vitale del mondo vegetale e animale, nella sua molteplicità e perfezione mostra sorprendenti quadri di bellezza; e tuttavia, proprio per la concretizzazione di tale meraviglioso ordine, sono necessari atti egoistici, forse anche cruenti, ma indispensabili per la propria sopravvivenza, per la conservazione e la successione delle specie. La stessa formazione della vita umana, considerata nei suoi intimi, delicati e amabili momenti, suscita sentimenti di meraviglia e di tenerezza; e tuttavia anch’essa registra fenomeni di sofferenza, spesso impone rinunce molto dolorose, talora nasconde desolanti fallimenti. Già nell’origine della vita umana, quindi, emergono e s’impongono non poche e penose contraddizioni.

E’ innegabile, pertanto, che la realtà è ambivalente e contraddittoria. Perciò, quando si va alla ricerca del senso della vita, non si può fare a meno di riconoscere la presenza sia del mistero sia della contraddizione. E’ una situazione che richiama il pensiero di Immanuel Kant: l’umana ragione si rende conto di avere a che fare con un cosmo tanto immenso e misterioso che non potrà mai conoscerlo veramente; la contraddizione, però, è antinomia, non assurdità, in quanto consiste nel conflitto tra due leggi, entrambe legittime, anche se in contrasto tra di loro. E anche nell’indagare il senso della vita si presenteranno due leggi, le quali, intrecciandosi in modo inestricabile, costituiscono la condizione umana contraddittoria in se stessa, perciò destinata a imprigionare il pensiero dell’uomo.

Questa situazione esistenziale contraddittoria mostra con somma chiarezza una grande verità: nelle vicende dell’umanità e del mondo non tutto è prestabilito con rapporti di necessità, ma parte è affidata anche alla responsabilità di ciascun uomo, il quale con le sue scelte libere, orienta e determina gli accadimenti. Questa verità non è raggiungibile con il solo intelletto, né è data nella sua interezza dalla volontà. L’essere umano – secondo il filosofo tedesco - è dotato anche di un profondo “sentimento”, per mezzo del quale egli percepisce ogni sapore (anche i gusti, i colori, i suoni, i profumi) della vita: è il sentire dell’anima, la percezione da parte della nostra più intima personalità del sapore della vita nella sua totalità. Esso spalanca le porte del nostro piccolo io e ci fa guardare verso tutti gli esseri (non solo umani, ma anche animali, vegetali, inanimati come le pietre e le nuvole), con i quali entriamo in empatia e viviamo una comunanza di fondo, quasi come in una rete che tutti racchiude, quasi un grembo comune dal quale tutti siamo stati generati e al quale tutti desideriamo ritornare. Grazie al sentimento, gli esseri umani - ciascuno nella singolare e irripetibile personalità - intuiscono ciò che non vedono, e lo sentono come realtà originaria e finale, che abbraccia tutti gli esseri e a cui tutti gli esseri aspirano come loro ultima meta.

Allora, l’essere umano, “minuscola totalità” gettata nell’infinito cosmo imperscrutabile, apparentemente arrendendosi davanti alle dure evidenze della ragione, si rifugia nel grembo dell’imponderabile e dell’ignoto, e affida tutto se stesso al flusso spontaneo, libero, incontrollabile, primordiale dell’Essere Totale e Trascendente. Solo allora egli intuisce e rispecchia in sè l’armonia e la bellezza dell’umanità e dell’universo; s’accorge, con singolare immediatezza e straordinaria semplicità, di aver “trovato” il senso autentico della vita anche umana. Esso è la “speranza”. Lo aveva già sostenuto Immanuel Kant, insostituibile filosofo della razionalità umana considerata in tutta la sua integralità. Anch’egli s’era imbattuto nei meandri del “mistero”, dopo essersi chiesto cosa “potesse sapere” e “dovesse fare”. Le risposte razionalmente “logiche” a questi due quesiti non gli rivelavano il senso autentico e totale della vita; allorquando formulò il terzo quesito, cioè cosa gli fosse “lecito sperare”, gli risultò sciolto l’enigma. Infatti, nel suo sentimento sentiva riflettersi l’armonia cosmica e la pacificazione tra gli uomini e i popoli, come verità cui anelare e realtà da realizzare: quindi oggetto dello “sperare” legittimamente.

La speranza, pertanto, non è una virtù come o addirittura inferiore alle altre (come aveva sostenuto Aristotele). Essa, invece, è la sintesi dell’intera personalità umana. Infatti, ogni uomo è la sua speranza, in quanto egli viene definito veramente solo da ciò ch’egli spera. La speranza è il traguardo che si vuole raggiungere, lo scopo che sollecita e rinforza le scelte che si compiono quotidianamente. La salute, gli averi, il potere, il dominio su cose e persone possono essere stabiliti e perseguiti come finalità ultime della propria speranza, per cui è consequenziale che si faccia tutto in loro funzione. Lo scopo perseguito è la speranza; quindi, ogni uomo è la sua speranza. Ecco perché la speranza è la sintesi della vita umana, investendo la totalità unitaria dell’uomo, in cui ragione, volontà e sentimento si uniscono e generano qualcosa di superiore che dà il sapore complessivo alla personalità. Un uomo vero è tale non in base a ciò che possiede, né a ciò che conosce, e nemmeno a ciò che riesce a realizzare, ma solo in base a ciò che è, in quanto essere individuale e irripetibile: certamente è anche il proprio corpo fisico, la propria professione, ma è ancor più la sua speranza, cioè la tensione totale e il gusto della sua vita, che da lui s’espande e che gli altri percepiscono sempre e comunque.

La speranza, quindi, è fondamento ed essenza della vita umana. E, tuttavia, essa non è mai qualcosa d’immutabile, di risolutivo, d’indiscutibile. Infatti, la speranza rimane sempre speranza, non diventa mai conoscenza certa o realtà conquistata. Essa non è mai un dominio che si possa governare o realizzare. E, allora, che cosa si può sperare per la vita propria e degli altri? Che cosa si può sperare, senza venir meno o ingannare la propria natura razionale? Si tratta – direbbe Kant – di uno sperare legittimamente, tale, cioè, che non raggiri la propria ragione e che, nello stesso tempo, preservi dall’arroganza di quelli (non pochi) che sono convinti che la vita è un inganno, dove vanno avanti solo e sempre i furbi. Quindi, alla domanda in che cosa poter sperare, si deve rispondere – sempre con l’aiuto di Kant – in modo molto semplice e immediato: che l’ultimo orizzonte della vita umana non sia il presente e il contingente ma l’eterno e l’assoluto, non l’assurdo ma il senso, non il nulla ma l’essere, non il male ma il bene, non la morte ma la vita.

L’uomo ragionevole può legittimamente sperare solo questo: che viva per qualcosa più grande di lui, che esista una dimensione dell’essere più grande del suo piccolo io destinato a scomparire. Che esista davvero una dimensione di Infinito e di Totalità, in cui tutto trovi e abbia senso.

mercoledì 23 gennaio 2013

CASUALITÀ, DESTINO O LIBERTÀ?


L’intera durata dell’esistenza di ciascun vivente (soprattutto) umano, breve o lunga che sia, può essere interpretata e spiegata in maniere diverse, ma tutte ugualmente credibili e valide, perché tutte ugualmente dettate da intimi sinceri bisogni dell’animo e suggerite da profonde intense aspirazioni dell’umana sensibilità. La vita, pertanto, può essere intuita come un naturale spontaneo ininterrotto fluire di momenti e, di conseguenza, può essere vissuta come un regolare succedersi di accadimenti necessitati e imprevedibili. Oppure può essere concepita come un mosaico di fattura straordinaria, ma misteriosa e oscura, composta da tessere del tutto slegate e tra di loro indipendenti, collocate in un punto particolare per puro gioco del caso oppure  costrette dall’ignoto causale agire di forze sfuggenti a ogni possibilità di comprensione e, pertanto, imprevedibili, incontrollabili, ingovernabili da parte dell’uomo. A questi due principali e comuni modi d’intendere  il problema della vita umana, non si può non aggiungere almeno un altro, in apparenza poco rilevante e, quindi, non meritevole di considerazione; esso, però, è abbastanza diffuso e non sempre è riconducibile a superficialità di riflessione, a faciloneria di valutazione, a negligenza nelle scelte morali. Quest’ultima concezione consiste nell’inconfessata sfiducia in ogni agire umano, per cui si traduce in atteggiamenti di stanca resistenza e d’indolente disinteresse: si offusca il significato del proprio vivere, s’indeboliscono le virtù fondamentali, s’inaridisce la linfa vitale, che alimenta progetti esaltanti e vivifica scelte audaci; un’indolenza diffusa penetra pian piano nell’anima, permeando ogni fibra dell’essere umano, talora diventato passivo abulico spettatore d’ogni evento.

Certo, il dilemma esistenziale non è nuovo, né investe solo le menti più pensose o gli spiriti più riflessivi. E’ un problema che coinvolge tutti gli esseri razionali indistintamente e in maniera più o meno consapevole, qualunque cultura abbiano, qualunque sensibilità posseggano, qualunque situazione esistenziale vivano. Ed è un problema che trova sempre e comunque soluzioni differenti.

Perché io, in questo momento e in questo luogo, con queste doti positive e con questi caratteri negativi, con queste attitudini e con queste  aspirazioni, con queste simpatie e antipatie? Sono tanti interrogativi, che covano muti e inesorabili nel profondo dell’essere umano. Continuamente in agguato, ora balenano all’improvviso sogghignanti, per poi scomparire immediatamente e dileguarsi, qual guizzo fulmineo d’un fuoco fatuo; ora s’ergono e s’impongono, possenti e inesorabili, con piglio vigoroso e, qual giudici implacabili, pretendono con ostinata tenacia una qualche soddisfacente risposta. E ancora, a livello meno individuale, ci si chiede: chi o che cosa è il motore del cosmo? Chi ne assegna i traguardi? Chi ne decide la direzione? Chi muove le vicende del mondo e dell’umanità? Chi determina il cammino delle civiltà e dei popoli? Chi stabilisce le scelte dei singoli uomini e ne indica gli itinerari? Come si muove l’universo? E’ finito o infinito? E’ determinato o indeterminato? E’ vero, è reale che, tra tutti gli esseri viventi e non, l’uomo occupa un posto privilegiato o, comunque, particolare? Caso, caos, un Tutto architettato bene o congegnato male: cos’è quest’immenso universo conosciuto solo in minima parte dalla pur millenaria capacità conoscitiva dell’uomo?

Dove e come sia possibile attingere una risposta che appaghi, se non tutte, almeno qualcuna di queste domande è impresa molto faticosa e, comunque, non agevole. La tradizione, infatti, da parte sua, custodisce e lascia in eredità spiegazioni certamente plausibili e spesso anche seducenti, che hanno costellato il corso dei secoli e dei millenni: e tuttavia lasciano tutte, sempre, ampi aloni fitti di triste insoddisfazione. Le conquiste culturali e i progressi della scienza e della tecnica attuali, da parte loro, non solo non placano aneliti e non dissipano dubbi, ma addirittura ne accrescono la vastità e ne incrementano il vigore. Infatti, mentre s’arricchiscono senza sosta le conquiste della scienza e della tecnica al servizio d’un sempre più produttivo funzionamento delle attività dell’uomo, poco o nulla contribuisce a spiegarne le motivazioni e a comprenderne le giustificazioni. La cultura contemporanea, soprattutto occidentale, si affida sempre più esclusivamente ai poteri della ragione e della scienza, rincorrendo i miti della funzionalità e della praticità, per cui svaluta e spesso abbandona del tutto ogni altra componente della natura umana. Quest’eccesso di razionalismo inaridisce l’umanità, le strappa la gioia della totalità della vita e la priva della possibilità di provare il sapore della felicità autentica. Ecco, allora, la necessità di riappropriarsi della totalità dell’essere umano, costituito anche di sensazioni, impressioni, percezioni, sentimenti, emozioni, affetti, passioni: quella totalità che le culture antiche – particolarmente quella greca – definivano “eros”, cioè il fondamento dell’essere dell’uomo, la fonte della sua ragion d’esistere, la meta ultima, cui tendere ogni giorno in ogni azione. E’ quell’eros che ha originato il cosmo, che lo vivifica, che ne incrementa la vitalità e ne ripara gli errori; quell’eros che – se non censurato e limitato dalla prepotenza assolutizzante d’un ingiustificato razionalismo – dovrebbe ispirare le azioni dei singoli in sintonia sublime e dovrebbe indicare le scelte anche dei popoli, tra loro diversi, ma identici per natura e dignità.

"Noi – avvertiva già Socrate nel ‘Simposio’ - stacchiamo dalla totalità di Eros una determinata faccia: le attribuiamo il nome del complesso e la chiamiamo eros. Per le altre facce usiamo dei diversi nomi”; ma eros è una ‘passione’ che ha valenza universale, in quanto il suo fine, in definitiva, è raggiungere il bene, in modo continuativo, per essere felici. In definitiva, eros è l'espressione del nostro desiderio di trascendenza. Trattandosi di un ideale, può essere considerato come utopia, la quale però dà una direzione coerente alla nostra vita nella direzione della crescita e della trascendenza.

Meta grande e astratta? “La grandezza dell'uomo – sussurra Heidegger - si misura in base a quel che cerca e all'insistenza con cui egli resta alla ricerca”. Mezzo secolo prima, Nietzsche non aveva esitato nel dichiarare: “Si possono concepire i filosofi come persone che compiono sforzi estremi, per sperimentare fino a che altezza l'uomo possa elevarsi”. Senza mai dimenticare, comunque, il sofferto umano consiglio, che aveva suggerito Kant: “La ragione umana viene afflitta da domande che non può respingere, perché le sono assegnate dalla natura della ragione stessa, e a cui però non può neanche dare risposta, perché esse superano ogni capacità della ragione umana”.