Il Tempo, in sé fluire di momenti transeunti che vanno accolti, si apre a un "oltre" custode Eterno di valori trascendenti che vanno abitati. Vicende e realtà tendono alla suprema fusione nell'infinita Totalità, anima di ogni Speranza.

lunedì 3 gennaio 2011

LA BIOETICA: DISCIPLINA CHE SI COSTRUISCE COL DIALOGO PER LA RICERCA DEI PRINCÌPI UMANISTICI

La bioetica è la parte dell’etica, che studia i fenomeni della vita organica e va alla ricerca di risposte efficaci ai problemi relativi alla procreazione, alla vita e all’estinzione dell’essere umano; alle problematiche, cioè, riguardanti la nascita e lo sviluppo del corpo, l’età matura e la vecchiaia, la salute e la malattia, la morte. L’etica (e, quindi, anche la bioetica) è una disciplina che si fonda sulla ragione umana, in quanto cerca di conoscere con severità razionale i fondamenti generali, sui quali sarà stabilito quali comportamenti dell’uomo sono buoni, giusti e moralmente leciti, e quali, invece, sono cattivi, ingiusti e moralmente scorretti. L'etica e la bioetica, pertanto, non possono costruirsi su basi solamente sentimentali o riconducibili soprattutto a slanci emotivi d’umana solidarietà e d’amorevole compassione, che rimangono certamente sentimenti inviolabili e degni di rispetto, ma inadeguati a trovare e a mostrare la strada che nelle scelte morali devono imboccare sia gli individui che le società. Solo una disciplina sistemata con rigore logico può gettare le basi e fissare i limiti, entro i quali nè potrà né dovrà spingersi la libera volontà degli uomini e la legittima autorità degli stati.

Nella bioetica bisogna distinguere la parte “descrittiva” e la parte “normativa”.Nella bioetica “descrittiva” s’osservano e si descrivono i comportamenti riscontrabili degli uomini, al fine di capire i motivi veri della loro condotta morale e di rendere comprensibili gli atteggiamenti realmente presenti e operanti in un ben preciso contesto sociale e culturale; nella bioetica “normativa”, invece, s’individuano alcuni principi generali, sui quali si dovrà regolare il comportamento umano e dai quali successivamente si dovranno ricavare norme precise per la soluzione concreta delle singole situazioni reali. Sono entrambe parti d’estrema importanza, anche se una certa priorità va riconosciuta alla bioetica “normativa”, in quanto essa tratta i principi generali che indicano i valori da rispettare e i fini da cercare di raggiungere. Anche perché, mentre nell’ambito delle norme pratiche possono verificarsi scontri duri e contrapposizioni inconciliabili, invece, nell’ambito dei principi (che, per quanto diversi, non sono mai contraddittori, ma solo differenti e, quindi, negoziabili) non solo è possibile, ma addirittura s’impone la necessità di confrontarsi e di discutere, per raggiungere alcuni “compromessi” concepibili nel rispetto d’una scala di valori essenziali concordati, condivisi, accettati e difesi.

Così definita la bioetica, emergono due conseguenze evidenti e necessarie: in primo luogo, che essa non potrà essere mai una disciplina fissata una volta per tutte e, quindi, immutabile e valida in ogni tempo e in ogni luogo; e, in secondo luogo, che essa non è una materia assolutamente autonoma e indipendente. Infatti, con l’avanzare delle conoscenze e con il progredire delle tecnologie mutano continuamente i costumi del vivere civile, emergono sempre nuovi criteri di valutazione del comune senso morale, nascono improvvisi nuovi campi d’interesse: e da tutto ciò si generano difficoltà nuove e spesso imprevedibili, che a loro volta pongono questioni globali, che coinvolgono sempre e comunque l’essere umano in tutta la sua integralità di corpo e anima, di materia e spirito. E’ assolutamente inevitabile, allora, che si sconfini dall’ambito esclusivo della bioetica e si entri nel campo di altre discipline, il cui il contributo diventa indispensabile e insostituibile.

In ogni caso la bioetica dovrà affrontare problematiche delicate e complesse, che innegabilmente toccano sempre l’intimità più sacra dell’essere umano, che si dibatte nello sforzo di scoprire davvero il significato ultimo della sua vita e di fare onestamente le scelte più giuste per realizzarlo. Per questo la bioetica ha bisogno del contributo forte, responsabile e generoso di uomini in possesso d’una formazione qualificata, d’un’esperienza consolidata e di abilità provata; essa richiede, cioè, una salda e sicura esperienza professionale e morale, che s’acquista solo mediante l’osservazione continua, attenta, umile e indulgente dei comportamenti umani, e che si consolida solo mediante il lavoro quotidiano compiuto con benevola partecipazione e con umano coinvolgimento nel capire, nel vivere e nel risolvere i difficili problemi riguardanti la vita, la salute, la malattia, la sofferenza e la morte. Il primo sostegno richiesto è quello del medico, il quale, però, non intenda la sua professione come una merce né amministri la malattia come un funzionario, ma che, sempre con il dovuto distacco professionale, sappia percepire e condividere paure e speranze, angosce e aspettative del proprio “paziente”, instaurando con lui un rapporto anche di premurosi sentimenti di sincera umanità. Indispensabile, poi, è l’apporto dello scienziato biologo, il quale, mantenendo continui contatti con tutti gli altri soggetti interessati, metterà a disposizione le conquiste delle sue ricerche e i progressi della tecnologia. Decisiva, inoltre, è la collaborazione del giurista esperto nell’organizzare un ordinato e aggiornato registro, in cui annotare e comparare il maggior numero possibile di casi concreti, in base ai quali sia possibile verificare l’attuabilità dei principi generali. Infine, alla bioetica non può né deve mancare il sostegno del filosofo e il supporto del teologo, i quali, risalendo dalle problematiche poste dalla scienza alle questioni etiche generali, individueranno alcuni principi morali capaci di guidare la condotta da seguire nelle singole situazioni concrete.

Da queste considerazioni consegue che nel campo della bioetica nessuno - per quanto ricco di esperienza, di studi e di conoscenze - può ritenersi autosufficiente, cioè del tutto completo ed esaustivo. La bioetica avanza e si consolida solo mediante il dialogo aperto e leale tra medico, scienziato, giurista, filosofo, teologo e chiunque altro ritenga di avere qualche esperienza da comunicare e qualche valore da rivendicare. Lo spirito davvero autentico e validamente costruttivo della bioetica, quindi, sta nel dialogo: cioè, nella disponibilità di tutti a recepire con umiltà le varie opinioni, a vagliare con lealtà le idee differenti o addirittura contrastanti, a ponderare pacatamente le diverse argomentazioni, a prestare attenzione alle sensibilità anche più lontane. Questo atteggiamento, peraltro, non significherà mai un rinunciare al coraggio di dichiarare, difendere e applicare con fermezza i principi generali, cui si sia pervenuti con mente aperta e sincera e che siano stati condivisi con ragionevole chiarezza.

Non esiste, pertanto, una bioetica vera e tutte le altre false; nell’etica e nella bioetica non c’è posto per il vero e per il falso, in quanto in esse sta raccolto e conservato l’intero insieme delle risposte, che nel corso d’innumerevoli anni sono state date alle molte, diverse, nuove, imprevedibili domande, che situazioni problematiche spesso immediate hanno posto davanti alla ragione e alla volontà dei singoli e delle società. Del resto è sufficiente considerare come nel tempo si sono evoluti gli stessi principi generali etici e come, conseguentemente, sono cambiate molte posizioni morali, per rendersi conto che tutta la bioetica non è un qualcosa di astratto e che viene dal vuoto, ma è il risultato testimoniato delle scelte, che uomini e società hanno fatto in ben definiti contesti culturali prevalenti e in situazioni socio-economiche dominanti. Non c’è, quindi, alcun motivo valido, per cui si possa ritenere che la risposta di uno debba valere necessariamente anche per tutti gli altri; ma ognuno presenterà il suo problema, ipotizzerà la sua opinione, argomenterà il suo convincimento e lo offrirà agli altri, affinchè lo vaglino, lo giudichino ed eventualmente decidano se e fino a che punto possano condividerlo ed accoglierlo. In bioetica, dunque, ognuno deve poter seguire la propria strada, ovviamente sempre entro i confini stabiliti secondo i principi generali discussi e condivisi.

In questa prospettiva s’introduce anche nel campo della bioetica quel principio basilare – anch’esso per sua stessa natura fortemente “etico”, in quanto sostenuto da una valida scelta “etica” - della tolleranza. Pensare e agire secondo lo spirito “etico”, proprio della tolleranza, significa consentire a ogni cittadino di avere una propria opinione ragionevole, di fare una sua scelta responsabile, di esprimere senza timori il suo pensiero e di realizzare i convincimenti che gli suggeriscono la sua conoscenza e la sua coscienza; nella cultura della tolleranza, cioè, nessuno può imporre a un altro il proprio pensiero né può impedire ad altri di vivere secondo la propria visione di vita. Ovviamente anche la tolleranza è circoscritta da limiti ben definiti e assolutamente invalicabili, sintetizzabili tutti nel valore inviolabile del rispetto della dignità di ogni “altro”, dall’istante del suo concepimento al momento della sua morte. A garantire l’ossequio assiduo e il più rispettoso possibile di questo valore sono indirizzati il diritto e la morale. Il primo come struttura, che le società si danno per offrire norme precise per la convivenza e la collaborazione produttiva; la seconda come appello esclusivo dell’animo umano, che detta a ogni individuo i comportamenti da tenere nei diversi casi della vita. Comportamenti spesso difficili a comprendersi e a condividere, talora anche “fuori da ogni ragione”, ma tuttavia sempre profondamente “umani” e degni di rispetto.

venerdì 10 dicembre 2010

Per “ORIENTARSI” BISOGNA RAGIONARE O CREDERE?

Il problema dei rapporti tra ragione e fede, nella cultura dell’Occidente, costituisce un groviglio di molte difficoltà e si presenta come il nodo di molti problemi, che bisogna sciogliere, se si vuole tentare una qualche soluzione riguardo al significato pieno e ultimo dell’esistenza dell’uomo, che vive su questa terra solo per un periodo di tempo ben determinato. La difficoltà maggiore del rapporto ragione-fede nasce dal fatto che esso coinvolge molti aspetti e genera molteplici problemi, che s’intersecano tra di loro, quali, le tensioni fra filosofia e teologia, i contrasti tra scienza e fede, le relazioni tra ragione e rivelazione, fino alla allo stesso rapporto vitale tra la fede e il campo pubblico della politica, cioè tra lo Stato e la Chiesa.
Per orientarsi nella vita, cioè per individuare dove ci si trovi e per decidere dove si voglia andare e dove si possa giungere realmente, in altri termini, per capire il senso vero della propria esistenza e, di conseguenza, operare le proprie scelte di vita, si deve dare ascolto soltanto a ciò che suggerisce la ragione umana oppure ci si deve affidare alla fede, che chiede una piena fiducia in qualcosa o in qualcuno, che starebbe al di sopra di tutti e di tutto e che governerebbe le vicende dell’umanità e le sorti di tutto il mondo? Cioè, la ragione e la fede sono tra di loro alternative sino a stare addirittura in opposizione oppure s’incontrano in un “matrimonio d’amore e d’accordo”, grazie al quale è possibile cogliere la verità ultima sul senso della vita dell’uomo, in quanto si uniscono i risultati della lucidità della ragione (che tende a penetrare anche nei misteri della fede, per congiungersi con essi e realizzare una sempre maggiore pienezza di conoscenza) e le proposte del mistero della fede (che offre livelli superiori di conoscenza e chiede di rischiarare più vivamente anche le stesse acquisizioni della ragione)? Questo significherebbe che ragione e fede non solo non si oppongono, ma addirittura s’incontrano e collaborano almeno in tre momenti: cioè, quando la ragione si dispone per aderire consapevolmente alle proposte della fede, quando essa coopera all’interno della fede stessa, per appropriarsi del contenuto della fede medesima, e quando la luce della fede corrobora, conferma, amplia e completa ogni acquisizione della ragione. La questione fondamentale, allora, rimane quella di trovare e definire il modello della ragionevolezza della fede cristiana, per verificare se il credere alla predicazione cristiana sia un atto ragionevole, per cui anche la fede cristiana, perché venga accolta in conformità alla dignità della natura umana, esiga (da parte sua e per sua stessa natura) di essere prima pensata dalla ragione del credente. Per definire questo modello di ragionevolezza, è necessario dimostrare almeno due premesse: da una parte, che non esiste un modello di ragione unico ed esclusivo e, dall’altra parte, che la fede cristiana non può essere relegata nell’ambito esclusivo delle emozioni e dei sentimenti o anche accolta per una sua utile funzionalità sociale o per un qualche bisogno dell’anima umana, magari depressa e in cerca di consolazione.
In ogni caso, tra la voce della ragione e la voce della fede è necessario tentare di trovare una convivenza, forse difficile, ma comunque necessaria. Per meglio comprendere questa situazione, è opportuno ricordare un dato storico. Quando s’iniziò ad estendere il Vangelo fuori dal mondo ebraico, la fede cristiana s’incontrò con la cultura greca; e quest’incontro fu decisivo per la vita e la predicazione della fede cristiana. Infatti, I predicatori del Vangelo, a cominciare da san Paolo, quando annunciavano l’insegnamento di Gesù Cristo ai cittadini ebrei, si recavano nelle sinagoghe, cioè in luoghi di culto religioso; ma quando vollero rivolgersi ai cittadini greci, cioè a uomini pagani, dovettero andare nella “piazza” (nella agorà); quindi, i primi apostoli cristiani ebbero come interlocutore ebreo “il sacerdote”, ma come interlocutore pagano dovettero affrontare “il filosofo greco”, al quale essi proposero la loro fede in quanto “vera” e, perciò, meritevole della giusta attenzione e degna d’essere accolta da chiunque ricercasse la verità mediante la ragione, cioè l’unico mezzo di cui la natura ha dotato l’uomo. L’apostolo cristiano, allora, annunciava e proponeva una verità, che, in quanto tale, si poteva e si doveva affermare davanti a ogni essere ragionevole. Questo fatto storico assume ulteriore importanza, se si considera che il filosofo greco intendeva la filosofia come “un esercizio del pensiero, della volontà, di tutto l’essere, per cercare di pervenire a uno stato (cioè, la sapienza), che d’altronde era quasi inaccessibile all’uomo”.
Il ripensamento di questo fatto storico fa comprendere come ragione e fede non sono due capacità che si sommano tra loro e nemmeno investono due campi diversi e tanto meno opposti. Ciò significa che nella loro struttura ragione e fede non si giustappongono, ma è dall’interno di ciascuna di esse che si richiamano e si postulano reciprocamene. Infatti, se la fede (cristiana in questo caso) incontra la ragione, è anche vero che la ragione (la filosofia greca) incontra la fede. A meno che una delle due non voglia “autolimitarsi”, esse si integrano in un dialogo fecondo; ma, qualora una delle due volesse irrigidirsi in posizioni di superba autosufficienza, ne conseguirebbe un suo impoverimento, che la condannerebbe a inutile sterilità. Da questo chiarimento storico consegue, inoltre, che l’atto del credere è un atto ragionevole e non contro ragione: esiste, dunque, una profonda sintonia e una perfetta armonia fra ragione e fede umana. Questa è la grande intuizione di sant’Agostino, sulla quale egli costruisce la sua dottrina della conoscenza e dalla quale partirà anche la speculazione di san Tommaso d’Aquino.
In estrema sintesi, la domanda fondamentale che bisogna porre è questa: si può accettare che la ragione dell’uomo non verifichi la verità delle risposte che vengono date dalla fede ai grandi interrogativi, quali quelli del “da dove vengo” e del “verso dove vado”, e quelli etici circa l’esercizio della propria libertà? È questa oggi una domanda che non può più essere censurata; anzi esige una risposta urgente, data la situazione storica, in cui l’Occidente è venuto a trovarsi a causa dell’esaltazione o di una ragione mutilata di fede o di una fede mutilata di ragione, entrambe incapaci di risposte pienamente umane e, quindi, di un vero dialogo tra culture e religioni diverse, di cui oggi s’avverte un così urgente bisogno.
Scendendo sul terreno del concreto e delle proposte, non si può sottacere che uno degli ostacoli maggiori e più pericolosi è costituito dalla tenace arroganza di certe parti del mondo della scienza e della teologia di possedere solo esse l’unica indiscutibile verità. Da una parte, infatti, alcuni settori della ricerca scientifica vogliono imporre come indiscutibile ogni loro nuova conquista “sperimentale” senza alcun argine morale o implicanza etica; dall’altra parte, alcune concezioni teologiche esigono un assenso acritico, incondizionato e indipendente da ogni valutazione razionale. Invece, se, lungi dall’affidarsi a una presunta infallibilità dei “fatti” scientifici o dall’aggrapparsi a un’ostinata inviolabilità d’un’opinabile “trascendenza” prospettata come assolutamente indiscutibile, ci si affidasse alla piena e totale “razionalità umana”, forse gli uomini dialogherebbero veramente tra di loro e l’umanità non assisterebbe a così frequenti e cruente lotte, frutto di assoluta irrazionalità. Infatti, la piena e totale “razionalità umana” non è solo ragione e fede, ma è costituita anche da intuizioni e percezioni, da emozioni e sentimenti, da affetti e desideri, da delusioni e speranze, da paure e coraggio. Cioè, un insieme sublime di facoltà, che sostanziano la mirabile ricchezza dell’essere umano, fatto certamente per se stesso, ma aperto anche all’altro; amante di sé, ma bisognoso dell’altro; desideroso di “comandare” e d’intervenire nelle vicende del mondo, ma disposto anche a “ubbidire” ai principi che fanno vivere questo mondo stesso. Questo è il suggerimento d’ogni saggia, umana filosofia, che, sulle orme dell’antico “filosofo greco” Platone e del vecchio “filosofo cristiano” Agostino, indica nella “modestia” della ricerca filosofica della verità l’unica via per una vita individuale serena (se non felice) e una convivenza tra i popoli e le nazioni non belligerante (se non pacifica). Questa “modestia filosofica”, infatti, ricorda a ogni uomo che, per quanto grande e potente egli sia, rimane sempre un essere fallibile: tutte le sue facoltà sono certamente sublimi, ma anche fallibili e, quindi, continuamente ripensabili ed emendabili. E questo può realizzarsi solo grazie a una cultura fondata sul dialogo retto e sincero.

domenica 26 settembre 2010

“ORIENTARSI” ovvero SAPER FARE SCELTE E PRENDERE DECISIONI

Quando si parla di “orientamento”, si pensa quasi sempre alle attività che si fanno in genere nelle scuole, per indirizzare gli alunni e gli studenti nelle scelte degli studi o delle professioni, oppure ai suggerimenti che molti settori della produzione e dell’occupazione propongono, affinchè si trovi qualche collocazione lavorativa, o anche ai consigli che vengono offerti soprattutto agli anziani, affinchè dedichino il loro tempo ad attività “socialmente utili”.
Questi sono tutti aspetti importanti dell’orientamento, ma non ne costituiscono la vera sostanza, che è molto più vasta e profonda. Infatti, la parola orientamento significa rivolgersi verso l’oriente e riconoscere i punti cardinali del luogo, in cui uno si trova. In senso figurato, quindi, significa la capacità di individuare dove si è e dove si può andare; quindi, a qualunque età, dall’adolescenza alla terza età, l’uomo rivolge a sè, anche se in maniera diversa, le domande: “Dove sono? Dove vorrei andare? Dove posso realmente andare?”: cioè, ha bisogno di orientarsi, per operare le proprie scelte di vita.
Dobbiamo considerare, inoltre, che nel nostro tempo le conoscenze crescono e si diffondono con velocità straordinaria, che il mondo del lavoro cambia continuamente e richiede abilità sempre nuove; che i modelli del vivere nella società si modificano ininterrottamente ed esigono continuamente scelte nette e coraggiose. Allora appare chiaro che l’orientamento non può limitarsi semplicemente a informare e a informarsi sugli sbocchi occupazionali né può ridursi a verificare le proprie attitudini lavorative, ma consiste in primo luogo nel riflettere sulla propria identità personale, nel prendere coscienza sicura della propria storia individuale, nel riesaminare i significati su cui abbiamo costruito la nostra vita; e poi, in secondo luogo, nell’analizzare, vagliare, comprendere i contesti culturali e le situazioni sociali, in cui viviamo e vogliamo o dobbiamo operare.
Così inteso, l’orientamento non è un intervento che si organizza dall’esterno dell’uomo (dalla famiglia, dalla scuola, dalla società, dal mondo del lavoro e delle professioni, dalle istituzioni politiche, dalle associazioni civili, dalle organizzazioni religiose), ma è un’azione che appartiene innanzi tutto all’interiorità dell’animo umano, il quale si pone, in questo modo, come l’agente principale delle scelte che ciascuno prende di volta in volta. Orientamento, quindi, significa conoscere se stessi e il proprio ambiente, per essere in grado di decidere autonomamente e responsabilmente di fronte alle diverse situazioni, soprattutto quelle che presentano più possibilità di scelta e attraggono in diverse direzioni. Ciò comporta, ovviamente, il coraggio di affrontare anche il rischio delle proprie scelte e, quindi, delle proprie conquiste, ma anche degli eventuali errori. Solo così, infatti, si scoprono seriamente le reali alternative offerte dal contesto storico e s’individuano le opportunità effettivamente presenti sulla strada, grazie alle quali ci si può inserire nella vita sociale e in quella produttiva.
Per questo è necessaria anche un’adeguata capacità di riadattamento, perché qualche volta (se non spesso) è necessario rivedere le proprie decisioni, dando prova di vera autonomia di giudizio e di forte responsabilità morale. In altri termini, non bisogna semplicemente saper fare scelte convenienti per se stessi ed efficaci per il conseguimento dei propri scopi, ma è necessario anche saper gestire l’andamento dell’intera evoluzione del mondo in cui si vive, collegando risorse, doveri, diritti e contenuti. Questo significa che, quando ci si trova in situazioni di confusione e di mancanza di senso, non bisogna ricorrere subito a soluzioni facili e immediate. Queste, infatti, liberano certamente dall’ansia e acquietano lo sconforto, ma non permettono di vincere l’affanno di un’attesa, che, invece, con i ritmi dei suoi tempi, saprà indicare la strada veramente più giusta e darà la forza di conservare integra e forte la propria esistenza anche nei momenti in cui sembra che manchi ogni motivo per continuare a vivere.
In questa prospettiva ogni uomo può essere considerato come il crocevia di una complessa serie di fattori, tra cui hanno un ruolo fondamentale la propria identità personale e il contesto sociale e culturale in cui egli deve vivere. L’identità personale, però, non è un qualcosa che, una volta acquistata, rimane stabile e immutata nel tempo, ma è il risultato sempre nuovo di un processo in continua evoluzione, che coinvolge sia le scelte dell’individuo e sia l’influsso delle relazioni sociali. Da ciò consegue che, per un valido orientamento, si devono fare le scelte, agendo sia sul proprio mondo interiore e sia sul mondo esterno, in quanto ogni scelta deve scaturire dai progetti che ognuno desidera realizzare e deve sostanziarsi delle concrete possibilità, che offre l’ambiente. L’orientamento veramente efficace, quindi, si realizza in scelte, che vengono fatte sempre nell’ambito di concrete situazioni familiari e sociali, anche a costo di dover sostenete dure lotte con i propri obiettivi o con situazioni, che di fatto impongono dei limiti insormontabili. Dall’incontro sapiente di scelte da parte dell’uomo e di opportunità da parte dell’ambiente s’incrementa, a sua volta, un terzo fattore molto importante: cioè, lo sviluppo dell’intera civiltà, grazie al quale si creano per tutti, a prescindere dall’età di ciascuno, nuove situazioni di vita e nuovi problemi particolari. Pertanto, ogni azione di orientamento non lascia mai l’individuo così come era prima né fa rimanere inalterato l’ambiente circostante. Da quest’incontro virtuoso di volontà umane e opportunità ambientali nasce un nuovo corso di vitalità. L’orientamento, quindi, non è solo un punto di arrivo, ma è anche e soprattutto un punto di partenza, in quanto non solo fa progettare finalità e obiettivi da raggiungere, ma suggerisce sempre, e validamente, anche un qualche “senso” profondo della vita per i singoli e per l’umanità intera. Infatti, gli obiettivi dei propri progetti sono descrivibili logicamente e spiegabili razionalmente, ma il senso dell’esistenza individuale e della storia del mondo è qualcosa di più intimo e non comprensibile con i nessi della sola ragione, perché è la totalità dell’uomo che intuisce e vive i moti arcani che s’agitano nel suo animo, costituito anche di sensibilità, di affettività e di sentimento.
Orientare e orientarsi, allora, costituiscono indubbiamente un difficile impegno per l’essere umano, ma anche il motivo della grandezza e della dignità della sua natura. A questo proposito Rita Levi Montalcini ricorda come l’uomo, al pari di ogni essere vivente, “porta gelosamente rinchiusa nello scrigno nucleare di tutte le sue cellule, la storia della sua specie”, ma, a differenza di tutti gli altri esseri che hanno già segnato il loro destino, lui solo possiede la facoltà di “esercitare il diritto di scegliere, tra le molteplici strade che si aprono davanti a lui, quella che ritiene più confacente alle sue aspirazioni”, perchè dotato della capacità di intendere e di volere e, quindi, di tracciare il proprio percorso di vita.