Il Tempo, in sé fluire di momenti transeunti che vanno accolti, si apre a un "oltre" custode Eterno di valori trascendenti che vanno abitati. Vicende e realtà tendono alla suprema fusione nell'infinita Totalità, anima di ogni Speranza.

domenica 14 febbraio 2010

Spigolature di pensiero 2010

In questo libro troviamo all’opera un ‘essere sotterraneo’, che penetra, scava, rimuove di sotterra. Ammesso che si disponga di occhi capaci di vedere questo lavoro in profondità, lo si vedrà avanzare lentamente, cautamente, delicatamente, implacabile.

Egli non coltiva sicuramente una fede che lo guidi, e non nutre una consolazione che lo compensi?

Vuole forse avere la sua propria lunga tenebra, il suo mondo incomprensibile, occulto, enigmatico, perché è certo che avrà anche il suo mattino, la sua liberazione, la sua aurora?

Certamente tornerà indietro: non chiedetegli che cosa cerca là sotto, ve lo dirà lui stesso”.

(Friedrich Nietzsche, Aurora).

mercoledì 30 dicembre 2009

PERCHE’ IL DOLORE E LA MORTE?

Vi sono molte discussioni e si propongono non poche argomentazioni convincenti sulle risposte che sono state avanzate e che tuttora si vanno ricercando sulle tristi realtà del dolore e della morte. Tornerebbe, però, forse più utile, e comunque più “umano”, tentare di penetrare le motivazioni vere e profonde che spingono gli “esseri razionali” a porsi la domanda stessa più che a trovarne la risposta. Infatti, è dentro il perché della domanda che sono custoditi i segreti della drammaticità di questo problema, che ogni singolo essere umano vive nell’intimità inconfessabile del suo animo, il quale – si deve riconoscere per onestà intellettuale - non è nutrito e guidato da certezze oggettive incontestabili, bensì alimentato e sorretto dagli orientamenti unici, che scaturiscono dalla particolare visione del mondo, che l’irripetibile storia personale propone a ciascuno come la più valida e la più credibile.
L’essere umano non tende, per sua necessità naturale, alla felicità; e, pertanto, non si chiede che cos’è la felicità, né la rincorre in sè e per sè. Seguendo i bisogni della propria natura, l’essere umano vorrebbe solo non soffrire, cioè, vorrebbe solo godere di un corso esistenziale biologico, spirituale e morale ordinato secondo i limiti e le finalità della sua realtà; e, per questo, si chiede cos’è il dolore in ogni sua manifestazione, fino alla sua ultima rivelazione che è la morte. Il dolore, infatti, è presente e domina ogni forma di esistenza; e la morte, conclusione ineluttabile d’ogni corso esistenziale, è l’unico evento certo, che accomuna ogni genere vivente, compreso quello umano. L’essere umano, però, è dotato non solo di sensibilità e di ragione, ma anche di sentimento, di emotività e forse soprattutto di libertà; in quanto tale, è disponibile ad accettare e sopportare qualunque evento che, però, non sia assurdo. Ma il dolore rimane un assurdo, perché contrario a ogni principio di ragionevole comprensione. Esso, infatti, sfugge a ogni tentativo di farsi conoscere, anzi si ostina a rimanere serrato nell’impenetrabile dominio dell’incomprensibile, che va al di là d’ogni limite anche dello stesso mistero. Il mistero, infatti, è un’esigenza della ragione umana protesa certamente anche verso l’ignoto, ma che sia razionalmente fondato, cioè, verso quell’ignoto che propone conoscenze e realtà superiori alle capacità cognitive umane, ma che sono supportate da elementi non irrazionali. Il dolore, purtroppo, non ha un simile fondamento, per cui rimane un assurdo, almeno fino a quando non si manifestino alla mente umana suoi eventuali aspetti “ragionevoli”.
Allora – ci si chiede – qual è il significato della sofferenza, quali sono le sue radici, che “valore” porta o aggiunge alla natura umana e alla storia della sua evoluzione? Quale ruolo storico svolge nell’inesorabile scorrere dell’esistenza dei singoli e dell’umanità? Insomma, che rapporto c’è tra sofferenza e realtà dell’essere umano (e dell’intero cosmo)? L’esistenza umana consiste in una ben determinata durata di tempo, di cui ciascuno dispone, non importa se già necessariamente programmata in ogni suo accadimento o con margini di possibile intervento umano; anche se tutti dobbiamo prendere atto almeno che la nostra nascita non è stato frutto di una scelta consapevole o inconscia. “Vivere” questo segmento esistenziale può essere o pensato e realizzato come un riempire e un concretizzare un qualche progetto “sensato” (per usare il linguaggio del Popper) oppure concepito e vissuto come un esaurire e un consumare un qualcosa, che ci è dato in uso, di cui, quindi, è consentito disporre provvisoriamente e rapidamente, perché è destinato a passare inesorabilmente. L’esistenza umana, allora, è una realtà o “sensata” ma necessitata, oppure “insensata” ed effimera. O vi è qualche altra possibile visione?
L’intero arco della vita presenta momenti propizi e momenti avversi, stati di felicità e stati di dolore. A questi modi di essere non si vuole attribuire alcun giudizio valutativo; si vuole soltanto indicarne la presenza certa e ricercarne un significato plausibile. Appare razionalmente appagante ma umanamente insoddisfacente, la convinzione, secondo cui ogni “essere” è sempre e comunque positività e valore (buono, vero, bello, giusto, ecc.), per cui ogni negatività e disvalore devono ricondursi a una qualche carenza di essere, dovuta alla natura stessa d’ogni essere finito e contingente. Tuttavia - a prescindere che non è del tutto agevole accettare la presunta compresenza di essere e di non-essere - questa non è una risposta al perché sia proprio “l’essere finito e contingente” a interrogarsi sul proprio dolore e sulla propria morte; mentre è quest’ultima la domanda, dentro la quale si cela l’arcano della drammaticità del senso dell’umana esistenza e alla quale si vuole trovare una possibile soluzione.
E’ una partita, questa, che ciascun essere umano si trova a dover giocare sempre da solo. Infatti, non si può delegare ad altri la propria sofferenza né ci si può fare sostituire nella propria morte. E sofferenza e morte sono sempre collegati durante tutta l’esistenza, anzi sono tali che l’una richiama sempre l’altra. Infatti, il dolore fisico e morale è, in sostanza, sottrazione di vitalità, per cui è preannuncio della morte, che giunge come assenza totale di vita. Per l’ineluttabilità di questo destino - individuale ma universale, in quanto accumuna tutti nella medesima sorte - l’essere umano, finito e contingente, proprio in quanto tale, vive costantemente in compagnia del suo progressivo “estinguersi”.
Per andare verso quale meta? Ogni realtà – si afferma spesso e da molti – ha, anzi deve avere, in se stessa la ragione del suo esistere. La teleologia universale è veramente una connotazione reale oppure risponde a un’esigenza soltanto dello spirito umano? Che nel cosmo ogni cosa tenda alla realizzazione di un immenso e ordinato progetto armonico, all’interno del quale si assume senso e significato, è una realtà oppure concretizza solo l’anelito dell’animo ad abbracciarsi a un qualcosa che mitighi il suo smarrimento e calmi la sua ansia esistenziale?
Una realtà, comunque, s’impone in tutta la sua asprezza: non c’è alcuno che non senta l’acuto morso della domanda: qual è il senso della sofferenza che accompagna ogni attimo dell’esistenza umana, che ha l’inizio in modalità sconosciuta e la conclusione biologicamente necessitata. Certo essa può essere esaudita – come di fatto è avvenuto – in tanti modi, da quello assolutamente pessimistico a quello assolutamente ottimistico; ma ci si trova quasi sempre di fronte o a costruzioni fondate su argomentazioni logiche (stringenti ma inappaganti) oppure su intime intuizioni spontanee (intime e segrete e, quindi, incomunicabili). Risposte “credute razionalmente” o “accolte umanamente”, ma sempre minate dal dubbio e dalla nostalgia della certezza, cui anela ogni inquietudine umana. Costruzioni solide ed esigenze profondissime, dietro le quali si cela solo la tenace volontà di “credere” in qualcosa, che salvi l’animo umano dal precipitare nel baratro dell’insignificanza e del non-senso. Conclusioni temporanee, però, smentite quasi sempre dall’avventura esistenziale di ciascuno. Audacia, comunque, di non rifugiarsi acriticamente in soluzioni fideistiche o in negazioni irrazionali. Coraggio, sempre, di assumersi, umilmente ma totalmente, ogni responsabilità delle proprie scelte e della propria coerenza.

venerdì 18 dicembre 2009

Un volume di Hans Jonas: LIBERTA’ E’ DUBITARE DELL’ASSOLUTEZZA

In questi giorni è stato pubblicato, in traduzione italiana, il volume “Problemi di libertà” di Hans Jonas. In esso sono raccolte le lezioni, finora inedite, che il filosofo tenne nel 1970 a New York, e la cui lettura sollecita alcune riflessioni, che appaiono particolarmente urgenti.
Non si sa quanta fondatezza storica abbia la tradizione che tramanderebbe una relazione culturale – dialettica ma quasi amicale – tra il filosofo romano stoico Seneca e l’ebreo Paolo convertitosi alla sequela del Cristo e divenuto ‘apostolo delle genti’. E’ certo, però, che sul problema e sulla concezione della libertà li troviamo su posizioni assolutamente opposte. Ora, grazie al volume di Jonas, ritornano quanto mai attuali il confronto e la discussione delle due dottrine.
Per Seneca – e per lo stoicismo in generale – la libertà è la possibilità è di disporre di se stessi in assoluta autonomia e con piena responsabilità: cioè, la capacità personale di pensare, di volere, di sentire, di agire secondo le indicazioni della totalità del proprio essere, i suggerimenti della propria ragione, le urgenze del proprio sentimento. Lo stesso Kant, del resto, identifica la libertà con la capacità soggettiva di dare ascolto sempre e solo alla voce della propria ragione e di conformarsi ad essa; per il filosofo tedesco non c'è alcun dubbio: qualunque elemento esterno all’umana razionalità - sia esso di natura nobile o ignobile, ovvero scaturisca da fonti superiori e addirittura divine - la rende sottomessa e, quindi, non libera e non degna della natura umana. L’essere umano è anche razionale; ma la razionalità umana non coincide con la sola “ragione” intesa come facoltà di formulare pensieri astratti logicamente connessi secondo schemi linguistici e particolari convenzioni filologiche. La razionalità umana è una realtà composita e ordinata: prima e, oltre che capacità astrattiva, essa è capacità intuitiva e creativa di molteplici forme simboliche, grazie alle quali soltanto nascono le armonie della musica, le drammatizzazioni del teatro, le policrome combinazioni della pittura, le sublimi trasfigurazioni della poesia, le fantasiose costruzioni del romanzo ed anche le ricostruzioni documentarie della storia.
Invece, per san Paolo - e, quindi, per il cristianesimo - questa autosufficienza dell’uomo decreta la negazione stessa di Dio, dal quale soltanto deriva quella Legge unica, eterna e assoluta, che permette all’uomo di realizzare le sue reali dimensioni umane. Dal momento, poi, che tale Legge non solo prescrive i comportamenti esteriori, ma comanda anche i pensieri e giudica i desideri che possono e debbono albergare nell’arcano segreto dei cuori (comanda, infatti,non solo di "non commettere" adulterio, ma anche di "non desiderare" la donna di altri), essa decide il retto movimento anche delle anime. Non ci troviamo, allora, davanti a un essere umano assolutamente assoggettato a una Legge suprema, cui deve adeguarsi sempre e comunque l’essere umano?
Hans Jonas, uno dei massimi rappresentanti dell'umanesimo del secolo passato, in questo suo lavoro ci conduce, attraverso un itinerario storico e teoretico, verso l'esplorazione della rivoluzionaria idea cristiana di libertà. L'essere umano, se è libero, deve poter disporre di se stesso. Tuttavia, si trova immerso e condizionato da tutta una fitta rete di pulsioni personali, di di diritti altrui e di obblighi sociali. Il cristianesimo, da parte sua, pone sotto assedio anche quella dimensione interiore, in cui il singolo poteva credere di essere padrone, se non del mondo, almeno di se stesso. E Jonas - con arguta osservazione storica - annota: "Questo punto di vista cristiano fu formulato per la prima volta nei modi della 'Epistola ai Romani' piuttosto che in quelli di un'affermazione teoretica o come una dottrina generale".
A questo punto - accompagnati dal lucido e appassionato argomentare di Jonas - è lecito chiedersi se per il cristiano ci sia posto per una libera iniziativa dell’uomo e quale sia il ruolo della sua responsabilità nella costruzione della storia dell’umanità e del cosmo. E la domanda si mostra in tutta la sua vera valenza, quando si tenta di scoprire e capire anche quale sia veramente la fonte di questa Legge assoluta e indiscutibile, che, aldilà d’ogni tortuosità e bizantinismo possibili, di fatto governerebbe ogni forma di vita e ogni accadimento naturale e cosmico.
Si potrebbe, allora, indagare coraggiosamente, ed eventualmente riconoscere e accogliere con estrema disponibilità, la possibile esistenza d'un'autonomia umana non superficiale e di facciata, bensì sostanziata di reali dimensioni e protesa verso l'apertura alla complessità della vita esistenziale e dell'intera vicenda del mondo.