Il Tempo, in sé fluire di momenti transeunti che vanno accolti, si apre a un "oltre" custode Eterno di valori trascendenti che vanno abitati. Vicende e realtà tendono alla suprema fusione nell'infinita Totalità, anima di ogni Speranza.

lunedì 25 febbraio 2008

L'ERA DELLA GLOBALIZZAZIONE, ovvero ILPRIMATO DI CHI?

Che la vita concreta ormai insediata e stabilizzata sul globo terrestre sia determinata dalle dimensioni dell’uomo “democratico” è un dato ormai indiscutibile e, quindi, acquisito e accettato da quasi tutti i protagonisti della storia attuale.

Forse meno condiviso è l’altro fatto pure indiscutibile: cioè, che il problema delle relazioni internazionali deve scegliere tra due posizioni, cioè quella del cosmopolitismo e quella del realismo o dello statismo.

Il cosmopolitismo rivendica la pari dignità di ogni essere umano, in qualunque parte del globo abiti e a qualunque idea aderisca: caduti i confini geografici e demolite le dighe ideologiche, l’uomo può veramente vivere dimensioni universali di uguaglianza giuridica e di diritti politici.
Lo statismo rivendica la sovranità di ciascuno stato, che ha il compito fondamentale di difendere la propria identità e la propria sovranità.

Ora, è facile comprendere come il cosmopolitismo in realtà si riduce a semplice dichiarazione di buona volontà: dal momento che lo Stato è la fonte del diritto, senza uno “stato” non c’è concreta possibilità di uguaglianza e di libertà. E così, d’altra parte, è evidente l’astrattismo di ogni stato che pretenda di difendere sempre e comunque la sua individuale identità, dimentico che l’evoluzione del mondo globalizzato ha dei risvolti radicali in campo economico, politico e culturale.

Si può immaginare un cosmopolitismo che si confronti con i problemi reali della legalità e della politica e, nello stesso tempo, di uno statismo che si apra a confronti nuovi e più realisticamente efficaci?

Non si dimentichi, comunque, che nel frattempo l’umanità desidera e attende il riconoscimento concreto e l’attuazione pratica di diritti uguali e di dignità a vera dimensione di uomo!

martedì 22 gennaio 2008

Grandezza dell'umana fragilità

Insicurezza, incertezza, dubbio; inquietudine, ansia, sofferenza: realtà non tanto da comprendere quanto da accogliere nel quotidiano scorrere del proprio vivere; inesorabile avvicendarsi di modi dell’esistenza. All’inquietudine subentra spesso un’irragionevole tranquillità, all’ansia segue una spavalda tranquillità, tra le sofferenze s’insinua stranamente un’improvvisa sicurezza, che rasenta un’incosciente apatia.

Diversità e contraddizioni che non si fanno spiegare facilmente, ma che inesorabilmente scandiscono gli attimi della via dell’uomo. L’uomo che si crogiola interiormente, ma vuole (e talora deve) apparire agli altri privo d’ogni problema; che soffre, ma si mostra pieno di esaltante felicità; che barcolla miseramente, ma che ostenta saldezza d’idee e tenacia di animo.

Sentimenti di simpatia cordiale e di antipatia totale; di amore profondo e di odio rancoroso; di generosità coraggiosa e di invidia incomprensibile; di solidarietà testimoniata e di egoismo meschino. Passioni di umiltà sorprendente e di superbia delirante; di lussuria estrema e di purezza angelica; di donazione ineffabile e di individualismo impressionante.

Ecco l’uomo: così semplice e così complesso, così chiaro e così misterioso, così ricco e così miserabile, così grande e così meschino.

Anziché accogliersi e accettarsi, preferisce sentirsi problema e spiegarsi. Sciupando l’intenso sapore della realtà umana, che è l’insieme meraviglioso di tante diversità, talora anche contraddittorie, ma sempre ugualmente esaltanti.

lunedì 21 gennaio 2008

Inquietudine

Insicurezza o, in verità, “male metafisico” (usando i termini agostiniani, cioè dolorosa esperienza dei suoi limiti, strazio spasimante per l’impotenza propria della natura umana)? Oppure, piuttosto, rifiuto profondo, se non addirittura rigetto inconsapevole, della natura umana nel suo imporsi realistico durante l’intero corso dell’esistenza individuale? E, quindi, l’inquietudine: lo stato d’animo generato dalla necessità ineludibile d’accettare il tormentoso “male metafisico”.

Orrore del proprio limite; angoscia di dover convivere sempre con il non-concluso, con il contingente, con il non-previsto. Incapacità di non gestire le proprie scelte, anzi di non poter mai essere certi della direzione della vita e della storia. Necessità di soccombere alla concatenazione dei fatti, che sfuggono, così, al nostro controllo, e talora non prefigurano alcun esito o alcuna finalità.

Facile etichettare questo stato d’animo in termini “psicanalitici”; difficile, invece, confessare che si tratta di un vero tremore metafisico, il quale, facendo prevalere i nostri sentimenti di fragilità, scatena quasi un orrore per il limite naturale dell’uomo e ci fa fuggire lontano da noi stessi, cercando altri “spazi reali” creati dalla ragione e dalle sue capacità dimostrative.

La conclusione agostiniana, però, non è una costruzione della ragione umana: l’essere umano, finito e contingente, troverà l’appagamento del suo bisogno di infinitudine e d’assolutezza, nell’Essere infinito e assoluto. Questo, però, conclude un itinerario, non spiega nè dà ragione al tormentoso suo realizzarsi: l’attesa dell’Assoluto può, veramente, generare tormenti di insicurezza di tremore esistenziale?