Il Tempo, in sé fluire di momenti transeunti che vanno accolti, si apre a un "oltre" custode Eterno di valori trascendenti che vanno abitati. Vicende e realtà tendono alla suprema fusione nell'infinita Totalità, anima di ogni Speranza.

venerdì 14 gennaio 2005

ALBERT EINSTEIN, CINQUANT'ANNI DALLA MORTE - (Ulm 1879 - Princeton 1955)

UNA SCIENZA AL SERVIZIO DELLA PACE, ovvero FILOSOFIA PRATICA E SOLITUDINE MORALE

Il 18 aprile 2005 ricorre il cinquantesimo anniversario della morte di Albert Einstein. Il 2005 è pure il centenario della pubblicazione su "Annalen der Phisik" del suo saggio Sull'elettrodinamica dei corpi in movimento, nel quale il fisico tedesco esponeva i fondamenti della sua teoria della relatività speciale; sempre nel medesimo anno (appunto nel 1905) elaborava il primo modello matematico in grado di essere utilizzato nello studio dei moti browniani e presentava, infine, una memoria contenente la spiegazione dell'effetto fotoelettrico, per la quale gli sarà assegnato il premio Nobel. "Voglio capire - scrive Einstein nel 1929 nel suo Il mondo come io lo vedo - come Dio ha creato il mondo. Non mi interessa questo o quel fenomeno in particolare: voglio penetrare a fondo il Suo pensiero. Il resto sono solo minuzie (...). L'esperienza più bella che possiamo avere è il senso del mistero. E' l'emozione fondamentale che accompagna la nascita dell'arte autentica e della vera scienza. Colui che non la conosce, colui non può più provare stupore e meraviglia, è già come morto, e i suoi occhi sono incapaci di vedere". Einstein non vuole, quindi, intuire la presenza di un ipotetico Creatore, ma scoprire il significato intrinseco delle cose del mondo. A lui interessa, perciò, comprendere "come" Dio ha creato il mondo; e lo fa immergendosi, con audacia e totalità, nell'indefinito oceano del mistero, che lo scienziato desidera penetrare e, senza violentarne la sacralità, illuminarne quelle parti, che la sua intima meditazione e la sua tenace riflessione sapranno conquistare. E' la solitudine esplosiva della ricerca scientifica che consente allo scienziato di "vedere il mondo" a modo suo: solo così può sperare di conquistare il senso delle cose, impossessarsene e parteciparlo poi, gratuitamente e incondizionatamente, all'umanità. Significativo, allora è quanto scriverà nel 1945, quando si ritirerà ufficialmente dall'insegnamento: "Oggi l'energia atomica non è un bene per l'umanità, ma una minaccia". Sperava che una simile minaccia incitasse gli uomini ad cercare maggiore saggezza e, comunque, tale da spronarli a inventare forme di vita associata a livello anche internazionale che garantisse la sopravvivenza dell'umanità, preservandola dalle conseguenze di quelli che egli definiva "gli orrendi ordigni inventati in questi anni".

Einstein unì costantemente l'attività di scienziato all'impegno etico e sociale, ispirandosi all'ideale morale e politico di Gandhi. Il pacifismo militante contraddistinse l'intera vita dello scienziato; la pace tra le nazioni costituì un anelito intimo e appassionato, che lo accompagnò ogni giorno della sua esistenza; anche poche ore prima della morte, scrivendo all'allora premier indiano Nehru, diceva: "le armi per la distruzione di massa hanno raggiunto una potenza tale che il mondo può essere distrutto, se l'uomo non trova i mezzi per vivere in pace con i suoi simili". Queste preoccupazioni per il destino dell'umanità, che peraltro resta determinato notevolmente dalle capacità intellettive dell'uomo e, quindi, fortemente legato alle risorse culturali e morali dell'uomo, fanno di Einstein un filosofo impegnato, anche se non teoretico. Il padre della relatività, infatti, non formula domande speculative sulla natura del mondo, né si pone interrogativi astratti sull'esistenza dell'uomo. Per lui la filosofia vera, o comunque quella che lo interessa e lo coinvolge, non può soffermarsi a discutere sull'essere, sul non-essere o sul divenire; la filosofia per lui assume validità solo in quanto diventa operativa, nel senso che, senza indugiare a meditare su problematiche astratte (considerate come proprio oggetto di studio), s'impegna a chiarificare i grandi problemi, che forse inizialmente hanno costituito il territorio specifico della filosofia tradizionale, ma che ora sono divenuti ormai oggetto di altre scienze, quali la matematica, la fisica, la psicologia, la biologia, la sociologia, la politica. Ed i concetti di spazio e di tempo, di geometria e di aritmetica diventano, così, grazie all'impegno di Einstein, patrimonio della fisica, la quale non può e non deve occupare energie a discutere sull'ipotesi dell'esistenza di un etere e sulla concezione di un sistema di coordinate inerziale; Einstein fonda ormai la fisica su dati evidenti e chiari, che la rendono razionale per cui i confini tra fisica e filosofia, se non coincidono, non hanno più una linea di demarcazione. "Io credo che ci sia una realtà al di fuori di noi": così rispondeva a chi gli chiedeva se esistesse un mondo oggettivo reale. Io credo: la scienza, cioè, è creazione della mente umana; è una libera invenzione dell'umana creatività, mediante la quale si vuole comprendere in schemi spiegativi sempre più vasti e meno incerti il sempre più esteso e ricco mondo dell'esperienza umana. Einstein scienziato contempla in sé stesso le proprie idee, che rinnova in una lotta drammatica condotta per sempre meglio capirsi e capire; è una lotta che dura all'infinito; è la lotta che racconta la storia della scienza. La scienza risolve molte difficoltà, e spesso con vere rivoluzioni culturali, ma continua a crearne anche delle nuove, che pongono a loro volta problemi nuovi e nuove contraddizioni, il cui superamento determinerà gli ulteriori sviluppi e l'avanzamento del sapere scientifico.

La scienza è, quindi, costruzione audace ma fondata dall'intelligenza umana; e tuttavia Einstein si chiede cosa esprima la scienza: esplicita essa la struttura reale di un mondo oggettivo? Ma, un mondo oggettivo c'è realmente? E, ponendosi al di là delle risposte dei filosofi sia realisti sia idealisti, e respingendo l'atteggiamento presuntuoso e negativo dei logici neopositivisti (i quali deriderebbero la domanda stessa), Einstein accoglie il senso umano del quesito scientifico e, inoltrandosi nel regno della sacralità religiosa, risponde nel suo saggio del 1929 Il mondo come io lo vedo: "L'esperienza più bella che possiamo avere è il senso del mistero. E' l'emozione fondamentale che accompagna la nascita dell'arte autentica e della vera scienza (…). Lo scrutare nei misteri della vita, anche se misto alla paura, ha dato origine alla religione. Sapere che ciò che per noi è impenetrabile esiste realmente, manifestandosi come la più alta saggezza e la più radiosa bellezza che le nostre povere facoltà possono comprendere solo nelle loro forme più primitive - questa conoscenza, questo sentimento, sono al centro della vera religiosità. In questo senso, io appartengo alla schiera degli uomini profondamente religiosi". Ecco la religione in Einstein: la chiave essenziale che apre le serrande della vita stessa, sia dal punto di vista della conoscenza, là dove il senso comune fallisce e occorre trovare più alte vie d'illuminazione interiore; sia dal punto di vista dell'azione, là dove la mistica dell'ubbidienza passiva e la forza sfrenata del volere vengono rivendicate come unico rimedio per evitare le ambigue vie dell'utile e i tortuosi sentieri della morale dell'obbedienza incondizionata. Scienza, filosofia e religione, nel sentire del fisico tedesco, sono un trinomio indissolubile e necessario al senso della vita dell'umanità, soprattutto nei brutti tempi della storia, quali quelli che si stavano profilando in quel periodo: sotto le apparenze delle democrazie si scorgeva già (ieri come oggi) un diffuso agnosticismo individuale e un dilagante utilitarismo nazionale, e dietro la facciata delle pubbliche libertà stava in agguato (ieri come oggi) il più turpe conformismo ideologico, terreno fertile per le tirannidi. E Einstein ammoniva: la libertà di pensiero è una conquista che si ottiene per gradi e con un continuo approfondimento della libertà di coscienza. Questo fa di Einstein non uno spettatore passivo delle vicende europee e mondiali, ma un osservatore attento e partecipe, anche se senza quei coinvolgimenti emotivi che ne avrebbero alterato la visione dei fatti; è lui stesso a dircelo nel medesimo saggio del 1929: "Il mio appassionato interesse per la giustizia e la responsabilità sociale è sempre stato in curioso contrasto con una spiccata assenza del desiderio di una associazione diretta con uomini o donne. Io sono un cavallo fatto per il tiro a uno, e non sono tagliato per lavorare in pariglie o in tiri a quattro. Non ho mai appartenuto con tutto il cuore a un paese o a uno stato, alla mia cerchia di amici o anche alla mia stessa famiglia. Questi legami sono stati sempre accompagnati da un vago senso d'indifferenza, e il desiderio di ritirarmi in me stesso aumenta col passare degli anni. Questo isolamento è talvolta amaro, ma io non rimpiango di essere escluso dalla comprensione e dalla simpatia degli altri uomini. Con ciò, non lo nego, io perdo qualcosa, ma di questa perdita io sono ricompensato col rendermi indipendente dalle abitudini, dalle opinioni e dai pregiudizi degli altri, e non sono tentato di riporre la pace del mio spirito su fondamenta così instabili".

Disprezzò sempre, anzi odiò la violenza, la prepotenza, l'ingiustizia. Egli, che dimostrò sempre disponibilità al dialogo e al confronto, non esitando mai ad andare in aiuto di chiunque glielo chiedesse, restò risoluto e inflessibile dinanzi ad ogni tentativo di piegarlo verso politiche che simpatizzassero per sistemi illiberali o, tanto peggio, liberticidi. Nel 1930, in un discorso tenuto a una manifestazione studentesca per il disarmo, affermava: "Trasmettendoci una scienza e una tecnica altamente sviluppate, le passate generazioni ci hanno fatto dono di uno strumento prezioso, capace di migliorare e arricchire la nostra esistenza in una misura fin qui sconosciuta. Tuttavia, esso reca con sé anche dei pericoli che rappresentano una inaccia per il genere umano". L'anno successivo, durante la conferenza del disarmo, sosteneva: "I benefici apportati dal genio inventivo dell'uomo nel corso degli ultimi cento anni, potrebbero rendere la vita felice e libera da preoccupazioni, se al progresso tecnico avesse corrisposto un pari sviluppo nel campo dell'organizzazione sociale. Allo stato attuale delle cose, nelle mani della nostra generazione le conquiste raggiunte con tanti sacrifici hanno lo stesso senso di un rasoio adoperato da un bambino di tre anni. I meravigliosi strumenti di produzione di cui disponiamo hanno portato, anziché libertà, dolore e fame". Il 30 luglio 1932, aderendo alla richiesta delle Nazioni Unite, scrive una lettera a Freud, chiedendo al padre della psicanalisi lumi sulla domanda: "C'è un modo per liberare gli uomini dalla fatalità della guerra? E' ormai risaputo che, col progredire della scienza moderna, rispondere a questa domanda è divenuto una questione di vita o di morte per la civiltà da noi conosciuta, eppure, nonostante tutta la buona volontà, nessun tentativo di soluzione è purtroppo approdato a qualcosa". I suoi convincimenti li troviamo espressi con chiarezza in due documenti del 1939. Il primo è la lettera scritta il 2 agosto al presidente degli Stati Uniti d'America, con la quale lo scienziato riesce a rompere la compattezza marmorea della mentalità militare; suggerisce, infatti, al presidente "l'opportunità di stabilire un collegamento permanente tra il governo e il gruppo di fisici che, in America, lavorano alla reazione a catena, collegamento che potrebbe essere facilitato dalla nomina di un responsabile di Sua fiducia, autorizzato ad agire anche in veste non ufficiale". Il secondo documento è lo scritto Solo allora saremo liberi, nel quale scrive: "La scienza ha fatto sorgere questo pericolo, ma il vero problema è nella mente e nel cuore degli uomini. Noi non cambieremo i cuori di altri mediante meccanismi, ma solo cambiando i nostri cuori e parlando onestamente. Dobbiamo essere generosi nel dare al mondo la conoscenza che noi abbiamo delle forze della natura, dopo aver preso le opportune precauzioni contro ogni abuso. Noi dobbiamo essere non solamente disposti, ma attivamente premurosi di sottometterci a un'autorità superiore necessaria per la sicurezza del mondo. Dobbiamo renderci conto che noi possiamo fare contemporaneamente progetti di pace e di guerra. Quando saremo limpidi di cuore e di mente, solo allora troveremo il coraggio di superare la paura che incombe sul mondo".

Noi oggi, cittadini di un mondo che ama dirsi e si vanta d'essere "globalizzato", continuiamo a essere grati ad Albert Einstein: esempio di saggezza e di bontà, pari alla sua lungimiranza coraggiosa e disincantata, proprio perché dettata dalla conoscenza profonda delle cose del mondo e dell'animo umano.

ALFREDO POGGI - UN SOCIALISTA KANTIANO, ovvero PRASSI POLITICA E COERENZA MORALE

ALFREDO POGGI
(Sarzana-La Spezia 1881 - Genova 1974)

Trent’anni fa moriva Alfredo Poggi. Un pensatore “minore”, in quanto esponente di culture ritenute “minoritarie”, perchè non in mostra o in competizione, e anche perché bersaglio dell’ostracismo della cultura ufficiale, arroccata in quel tempo in grembo a quell’idealismo immanente che, al di là delle divergenze personali, accomunava ancora Croce e Gentile e, dopo di loro, i discepoli dell’uno e dell’altro. Questa condizione d’emarginazione e d’isolamento non sminuiva, però, la forza con cui il Poggi incideva nelle coscienze e operava nel tessuto sociale. Anzi, ne esaltava il coraggio e l’audacia. Significativo è il comportamento ch’egli tenne quando, alla fine del marzo 1943, morì un altro campione della libertà intellettuale e religiosa, Piero Martinetti, anch’egli – come lo stesso Poggi e pochissimi altri (tra cui Achille Pellizzari, Jacopo Ruffini, Giulio Einaudi, Della Vida, Giuseppe Rensi) - perseguitato e privato del diritto d’insegnare sulla cattedra universitaria, per il fatto che non si piegò a prestare il giuramento richiesto dal regime fascista quale condizione per mantenere l’insegnamento universitario. Poggi allora stese, senza indugi, nonostante e incurante delle difficoltà proprie di uno “sfollato”, un’agile e schietta monografia sull’amico scomparso, che uscì stampata “coi tipi dell’Officina Tipografica Vicentina di Vicenza il 7 agosto 1943”, nella collana “Quaderni di cultura moderna” nelle collezioni del Palladio della medesima Officina Tipografica. Questo volumetto di Poggi, che rimane quasi sicuramente il primo libro di filosofia scritto dopo il 23 luglio 1943, costituì uno dei primissimi documenti della ripresa filosofica dopo la caduta del fascismo. Scelta, perciò, veramente coraggiosa e audace, se si pensa a quanto un ventennio dopo confiderà Maria Federico Sciacca: anch’egli aveva redatto in quel periodo una monografia sul pensiero martinettiano e, non essendo riuscito a convincere l’editore a rinviarne la pubblicazione, vistesi recapitare nel novembre 1943 alcune copie, ne fermò la diffusione: “un volume su Martinetti nell’ottobre del ’43 – ci confida – non era una cosa pacifica; né io purtroppo (…) ho la vocazione dell’eroe” (M.F.SCIACCA, La religione nella filosofia di Martinetti, in “Giornata martinettiana” in “Filosofia”, Torino, 1964, fasc. 3°, pp. 374-375.).

Rimasto giovanissimo orfano di padre, Alfredo Poggi andò presso parenti a Palermo, dove frequentò gli studi, assimilando idee e programmi di Filippo Turati e Andrea Costa; nel 1904 si laureò in filosofia; seguì un corso biennale di specializzazione a Lipsia nella scuola di W. Wundt, dove ebbe l’opportunità di conoscere Bebel Kautski e Rosa Luxemburg; nel 1917 si laureò a Genova in giurisprudenza; insegnò filosofia nei licei, finchè, conseguita la libera docenza nel 1926 e vinto il premio di filosofia dell’Accademia dei Lincei nel 1930, cominciò a insegnare presso l’Università di Genova. Ma per pochissimo tempo. Infatti, rifiutatosi di prestare il giuramento richiesto, fu relegato a lavorare nei locali della biblioteca con un incarico secondario e superfluo: responsabile degli aggiornamenti della bibliografia ligure. Stava nel medesimo corridoio, in cui era stato “isolato” un altro grande campione della libertà, anch’egli destinato a quell’insignificante incombenza; era Giuseppe Rensi, definito dall’amico “ateo sitibondo di Dio”. Nel tempo libero (e doveva rimanerne non poco!) discutevano di problemi filosofici e politici. Nel 1941 (anno in cui Rensi morì in seguito a un intervento chirurgico) a chiusa dell’Introduzione alla traduzione della kantiana La religione entro i limiti della sola ragione, Poggi scrisse: “Mentre congedo le bozze ultime di questa prefazione penso con dolore che essa non sarà mai letta dall’amico Rensi, il quale attendeva con impazienza la comparsa della traduzione kantiana, ch’egli non potè assumersi, essendo preso da altri lavori. Egli era innamorato di questo libro, di cui lungamente discutemmo, e per lo stile involuto e per l’alto pensiero, nelle nostre quotidiane conversazioni mattinali, vicini d’ufficio come eravamo, nello stesso corridoio” (E. KANT, La religione entro i limiti della sola ragione, trad. it., Parma, Guanda Editore, 1941, p. 90). Visse persino l’umiliazione di doversi presentare come imputato presso il Tribunale speciale , al quale era stato deferito; conobbe l’isolamento di “Regina Coeli” e l’avvilimento di non vedersi riconosciuto il diritto alla difesa e qualunque altro diritto inerente alla dignità di uomo. In simili frangenti gli giunse la profferta di Benito Mussolini, da lui conosciuto personalmente ad Ancona: qualora avesse aderito al regime, avrebbe avuto assicurata una facile, rapida e “brillante carriera accademica”. Poggi dignitosamente rifiutò. Fu liberato per mancanza di motivazioni. La sua libertà morale gli consentì di nutrire sentimenti d’assoluta imparzialità tanto nei giudizi che nelle relazioni di amicizia, osservando sempre rispetto verso l’altro, ma rivendicandone sempre uguale concreta coerenza d’atteggiamento. “Chi ha sofferto per il trionfo della giustizia – scriverà – chi non ha mai offeso la libertà dei suoi simili, chi ha cooperato al miglioramento spirituale oltre che materiale della società (…) non avrà ragione né di temere nè di desiderare la morte, perché sente di avere in questa vita un compito da svolgere che egli non può disertare” (La preghiera dell’uomo. Discussioni di religione e filosofia, Milano, 1944).

Nel 1945 Poggi aveva vissuto già i suoi primi 64 anni: ma – come scriverà - terminava solo l’antifascismo “romantico” e iniziava quello “tragico” (Antifascismo tragico, in “Genova”, a. XXXII, n. 4, 1955, pp. 30-46): era quanto mai necessario lavorare e lottare per il risanamento morale del tessuto sociale italiano e per la costituzione di adeguati strumenti governativi e statuali. Della sua passata esperienza porrà a frutto ogni insegnamento, ma non verrà mai meno a due idee dominanti: la sacralità della dignità dell’uomo e la dimensione universale propria dell’esistenza di ciascun individuo: “Ecco il dovere del cittadino: non isolarsi, non essere indifferente al proprio o al male altrui, ma lavorare affinché la società sia per tutti veramente umana, retta da libertà e non da necessità, vita di esseri liberi e non di servi animali (…); compito che esige tutta la forza della nostra coscienza, la quale deve restare invulnerabile nella sua fede per la giustizia anche se l’odio del mondo le dovesse imporre i più duri sacrifici” (La preghiera dell’uomo. Discussioni di religione e filosofia, op. cit., p. 135). Riprese, pertanto, con vigore rinnovato i suoi impegni d’insegnamento e di studio: la sua vita durerà quasi un altro trentennio; ed egli continuerà a partecipare alla vita sociale e culturale dell’Italia fino agli ultimi anni, curando e pubblicando numerosi studi. Negli ultimi anni , in verità, preferì il riparo che gli davano gli affetti familiari e la corrispondenza con pochissimi amici; con loro ricordava quel passato glorioso e pieno di ideali sublimi, che nel presente vedeva traditi e condannati alla decadenza.

Poggi conseguì nel 1904 la laurea in filosofia discutendo la tesi su Kant e il socialismo. Nel titolo sono già prefigurati il suo itinerario intellettuale e il suo orientamento politico. Le sue convinzioni etiche si fondano sul pensiero kantiano; i suoi suggerimenti sociali e politici si nutrono delle dottrine socialiste e marxiane, secondo l’interpretazione che ne dava il contemporaneo Rodolfo Mondolfo, il quale s’accostò a Marx e al socialismo scientifico in generale con il proposito di evidenziarne la novità di pensiero nella continuità storica ch’egli riportava, passando attraverso l’idealismo tedesco, al liberalismo di Locke e al naturalismo di Roussaeu. In particolare è in Locke, secondo Mondolfo, che si trova il seme del socialismo. L’autore inglese, infatti, riconosce la proprietà collettiva, grazie alla sua distinzione tra la proprietà dei mezzi di produzione e proprietà dei prodotti. Per questo il Mondolfo rimane convinto fino alla fine che, seguendo la chiave interpretativa liberale, “Marx, con la sua filosofia della prassi, è (…) l’erede della filosofia classica della libertà, portata da lui alle più decisive conclusioni” (R. MONDOLFO, Presentazione a Da Ardirgò a Gramsci, Milano, Nuova Accademia 1962, p. XIV).

Alfredo Poggi abbraccia la concezione marxista del Mondolfo, che vede sostanzialmente umanistica, in quanto l’impulso e la forza del divenire della storia dell’umanità sono generati dalla libera e responsabile attività dell’uomo, che, immerso in contesti sociali e politici storicamente ben definiti, ne sente e ne subisce tutti i condizionamenti. E’ proprio dalla situazione reale che viene suggerita all’uomo l’azione veramente rinnovatrice e instauratrice di nuovi ordini sociali. A questo socialismo umanistico e attivistico Poggi unisce l’esigenza morale dettata dal kantismo, trasformando la marxiana “prassi rovesciata” in “pragmatismo storico”, secondo il quale il “concreto motore della storia” è il singolo uomo, grazie al suo “valore universale, agente per volontà, cosciente del fine”. Ciò non significa, per il Poggi, ridurre il problema sociale a problema morale, ma solo alimentare le dimensioni politiche con l’interiore moralità dell’uomo, senza della quale ogni movimento storico autentico è impossibile.

In netta opposizione all’interpretazione crociana del marxismo quale scienza economica, nello spirito dei neokantiani tedeschi, sulle orme dello spiritualismo ateistico di Alessandro Chiappelli e del volontarismo pragmatico di Luigi Credano e soprattutto con esplicito riferimento alle idee di tolleranza e libertà democratiche di Rodolfo Mondolfo, Alfredo Poggi sottolinea la necessità di non confondere Stato e Governo, come accade per i socialismi utopici, e di non sovrapporre le legittime competenze del partito e del sindacato, come si tentava di fare da parte di non sparuti gruppi di area anche socialista. Lo Stato, espressione della volontà morale della società, va assolutamente garantito: uno Stato senza consenso sociale è tirannico; una società senza Stato è anarchica: il diritto – kantianamente inteso – garantisce la vita consociata in forme democratiche e retta da organismi costituiti secondo legalità. Rifiutata la rivoluzione, il socialismo di Poggi è depurato da qualsiasi tentazione di reazione violenta, attesa o generata come nemesi storica degli avvenimenti e delle classi privilegiate; la meta è ampia quanto l’umanità: ogni nazione, conservando la sua identità, diverrà partecipe dell’universale vita di tutti gli Stati, uniti in un ideale cosmopolitismo omogeneo. Il proletariato non dovrà avvicendarsi – gramscianamente – nella gestione del potere, ma sarà strumento di giustizia e di libertà per tutti gli uomini e in tutte le dimensioni.




venerdì 7 gennaio 2005

LIBERISMO: SOTTO LA FACCIATA DELLA "SOLIDARIETA'", MANCA L’"ETICA DELLA RESPONSABILITA’"?

Su “Apulia”, Rassegna trimestrale della Banca Popolare Pugliese, sono apparsi recentemente (nel numero IV, dicembre 2004). due interventi di due autorevoli personalità, che,se letti in maniera comparata, costringono le menti più pensose a considerazioni non certo di scarsa rilevanza o di spessore trascurabile. Si tratta di interventi che - a nostro modo di vedere - sono da analizzare, meditare e valutare; e comunque sono da tenere costantemente presenti nel corso dell’anno che è appena cominciato.

Il primo è di JEREMY RIFKIN, Premio Nobel per l’Economia:

“Il Sogno Americano è troppo centrato sul progresso materiale personale e troppo poco preoccupato del benessere generale dell’umanità per continuare ad avere fascino e importanza in un mondo caratterizzato dal rischio, dalla diversità e dall’indipendenza: è diventato un Sogno vecchio, intriso di una mentalità legata ad una frontiera che è stata chiusa tanto tempo fa. E mentre lo “Spirito Americano” guarda stancamente al passato, nasce un Sogno Europeo, più adatto ad accompagnare l’umanità nella prossima tappa del suo percorso: un Sogno che promette di portare l’uomo verso una consapevolezza globale, all’altezza di una società sempre più interconnessa e globalizzata. Il Sogno Europeo mette l’accento sulle relazioni comunitarie più che sull’autonomia individuale, sulla diversità culturale più che sull’assimilazione, sulle qualità della vita più che sull’accumulazione di ricchezza, sullo sviluppo sostenibile più che sull’illimitata crescita materiale, sul ‘gioco profondo’ più che sull’incessante fatica, sui diritti umani universali e su quelli della natura più che sui diritti di proprietà, sulla cooperazione globale più che sull’esercizio unilaterale del potere (…). Per quanto io sia visceralmente legato al Sogno Americano, e soprattutto alla sa incrollabile fede della preminenza dell’individuo e della responsabilità personale, la speranza per il futuro mi spinge verso il Sogno Europeo, che esalta la responsabilità collettiva e la consapevolezza globale. Il nascente Sogno Europeo rappresenta le più alte aspirazioni dell’umanità a un futuro migliore” (Ma il futuro è nel Sogno Europeo, Ivi, pp. 13-15).

Il secondo è di SAMUEL HUNTINGTON, Docente di Scienze politiche all’Università di Harvard, che dieci anni fa scrisse per “Foreign affairs” il noto saggio “Scontro di civiltà”, pubblicato nel 1996 in forma di libro e tradoto in 32 lingue:

“L’Islam non è sanguinario di fondo. Ci sono più fattori in gioco. Uno è il sentimento storicamente condiviso fra i musulmani di essere stati soggiogati e sfruttati dall’Occidente. Un altro è il rancore per forme concrete della politica occidentale, soprattutto per il sostegno che l’America dà allo Stato di Israele. Il terzo fattore è il ‘rigonfiamento demografico’ nel mondo arabo (…). Per quel che riguarda l’ostilità islamica nei confronti di idee occidentali, quali l’individualismo, il liberalismo, il costituzionalismo, i diritti umani, la pari dignità fra i sessi, in una parola, la democrazia, dobbiamo distinguere fra varie correnti e gruppi. Naturalmente esistono musulmani che condividono questi valori occidentali (…). La domanda allora è: perché non esiste democrazia nei Paesi islamici? Forse il motivo è culturale (…). Il fatto è che gli interessi di molti si riferiscono a un avversario comune, gli Stati Uniti. Forse anche all’Occidente in blocco. La politica di potere non si esaurisce mai: viene rafforzata dalla cultura e dalla religione, sebbene queste non riescano a spiegare tutto. Si veda l’alleanza fra Ankara e Gerusalemme. E si legga bene la storia della Russia (…). Ecco: la cosa interessante dell’ex blocco sovietico è che la democratizzazione e la riforma economica si muovono lungo linee culturali molto precise. Tutti i Paesi che appartengono all’Europa centrale oggi manifestano grandi progressi. Le culture ortodosse di Bulgaria, Bielorussia e Ucraina sono invece più lente nei processi riformatori. Ma l’Albania musulmana e i Paesi dell’Asia centrale sono ancora molto più lontani dal raggiungere successi di riforma minimi”. (E’ tempo di guerre asimmetriche, Ivi, pp. 32-33).

C’è davvero materia su cui riflettere.

Ovviamente per chiunque – capace di mirare all’animo umano e di decifrarne i sentimenti nascosti – intenda puntare sui “valori”, quelli veri; e per chiunque si proponga di agire da uomo, ma da uomo veramente e senza infingimenti. Soprattutto per chiunque creda davvero nei giovani: ma in maniera che sappia occupare nel mondo il posto che la propria età gli consente, e accettare nella vita sociale il ruolo che gli viene assegnato in base all’esperienza del passato e alle novità progettate per il futuro.