Il Tempo, in sé fluire di momenti transeunti che vanno accolti, si apre a un "oltre" custode Eterno di valori trascendenti che vanno abitati. Vicende e realtà tendono alla suprema fusione nell'infinita Totalità, anima di ogni Speranza.

mercoledì 20 gennaio 2016

DRAMMATICA ATTUALITA’ DEL “MANIFESTO RUSSEL-EINSTEIN”

Pubblicato su Affaritaliani il 16.01.2016

 “Questo è, dunque, il problema che vi presentiamo - affermavano sessant’anni fa il filosofo Russel e lo scienziato Einstein -, è problema orrendo e terribile, ma non eludibile: metteremo fine al genere umano oppure l'umanità saprà rinunciare alla guerra? La gente non vuole affrontare questa dicotomia, perchè abolire la guerra è difficile”. Anche oggi, purtroppo, nonostante siano trascorsi sessant’anni ricchi di esperienze umane e di conquiste culturali, l’umanità si ritrova in situazioni ugualmente “orrende e terribili”. 

Alla metà del secolo scorso dominava paurosamente la “guerra fredda” e incombeva pericolosamente il rischio d’una guerra nucleare, che avrebbe devastato il pianeta terra e annichilito l’umanità intera. Nel marzo 1954, infatti, gli USA avevano sperimentato la potentissima bomba all’idrogeno, provocando una pioggia radioattiva vasta e micidiale. La BBC inglese, allora, invitò lo scienziato polacco Joseph Rotblat a evidenziare gli aspetti tecnici della bomba H insieme all’arcivescovo di Canterbury e al filosofo Bertrand Russell, che ne avrebbero discusso le implicazioni morali. Fu l’occasione perché ci si rendesse concretamente conto dell’enorme pericolo che incombeva sull’umanità intera. Russel partecipò le conclusioni del confronto ad altri intellettuali e fisici, tra cui Einstein, col quale concordò sull’opportunità di estendere a tutti la conoscenza del rischio, coinvolgendo soprattutto i maggiori responsabili della vita dei popoli e della salvaguardia della terra: il mondo dell’intellighenzia, i governanti, i pionieri dell’industria, i magnati dell’economia e della finanza.  Nacque il documento noto come “Manifesto Russel-Einstein”, ma che fu subito condiviso e sottoscritto anche da Max Born, Percy W.Blidgeman, Leopold Infeld, Frederic Joliot-Curie, Herman J. Muller, Linus Pauling, Cecil F. Powell, Joseph Rotblat e Hideki Yukawa. Il Manifesto fu pubblicato ufficialmente il 9 luglio 1955, proprio nel pieno della Guerra Fredda. 

Sono trascorsi ormai 60 anni, ma ancor oggi l’umanità corre gravi rischi di catastrofe umanitaria e di distruzione planetaria. Siamo nel pieno di quella che è stata definita a ragione “guerra mondiale a pezzi”, combattuta con armi sempre più potenti e impensabili, sino a trasformare esser umani in bombe vaganti. Una guerra “mondiale” perenne e disumana, che quotidianamente divora vite umane anche innocenti, devasta valori culturali faticosamente conquistati, schiaccia come un rullo compressore ogni sentimento proprio del genere umano. I potenti del mondo, i possessori delle ricchezze, i produttori e commercianti delle armi belliche, insieme ai governanti dittatoriali e tirannici (in qualche luogo persino sanguinari) si fanno trascinare dai loro propositi di forza e di prepotenza, divenendo sempre più insensibili agli strazi di esseri simili a loro, ma che conducono nel baratro della miseria e della morte, preludio di distruzione totale d’ogni civiltà. Fanno sospettare il peggio le rivalità, spesso mascherate ma sempre ugualmente forti e accese, tra Russia e Stati Unit d’America, tra Occidente e Medio Oriente, tra Paesi ricchi e Paesi poveri, tra Potenze consolidate e Potenze emergenti.  E non meno pericolosi sono le rivendicazioni e le azioni dei fanatismi di matrice religiosa. 

Non è fuor di luogo, quindi, rileggere e ripensare oggi quel “Manifesto Russel-Einstein”, meditandone responsabilmente alcuni passaggi significativi per la loro attualità.  

Il primo ammonimento lasciatoci in eredità è l’appello indirizzato al mondo della cultura, della ricerca, della scienza e della tecnologia. Gli intellettuali, sacerdoti di verità e di  progresso, debbono salvaguardare sempre e comunque la propria libertà di pensiero, operando con assoluta autonomia di giudizio e ispirandosi a una visione umana universalistica. “Non parliamo – avvertono gli Autori del Manifesto - come membri di questa o quella nazione, continente o fede, ma come esseri umani, membri della specie Uomo. II mondo è pieno di conflitti; per questo, chiunque abbia un qualche interesse per la politica nutre diverse opinioni su queste questioni; ma noi vorremo che ognuno metta da parte questi sentimenti e si consideri solo come parte di una specie biologica che ha avuto una evoluzione notevole, e la cui sparizione nessuno di noi può desiderare”. 

In secondo luogo rimarcano la necessità d’un modo di pensare rinnovato e richiesto dalla giusta evoluzione e mirato a un proficuo cammino di tutti i popoli, e non dettato dall’interesse economico, culturale, religioso solo di alcuni a danno di altri. La gara da affrontare non è di rendersi sempre più forti e più temibili, ma di “armarsi” di corresponsabilità e onestà. Infatti, sostengono senza esitazione: “Dobbiamo imparare a pensare in un nuovo modo. Dobbiamo imparare a chiederci, non già quali misure occorre intraprendere per far vincere militarmente il gruppo che preferiamo. Quel che ci dobbiamo chiedere è come impedire un conflitto armato, il cui esito sarebbe catastrofico per tutti?”. 

Ecco, quindi, il dilemma di allora, ma anche del nostro tempo e che tutti siamo chiamati a risolvere: “Si apre di fronte a noi, se lo vogliamo un continuo progresso in felicità, conoscenza e saggezza. Sceglieremo invece la morte, perché non sappiamo dimenticare le nostre contese?”. Dalla risposta data oggi dipende, di conseguenza, tutto il futuro nostro e e il destino delle generazioni future. Solo lo sguardo lungimirante degli uomini e la cultura dell’accoglienza delle diversità e delle minoranze salveranno l’umanità. Spinti e sostenuti da questa consapevolezza, Einstein e Russel insistevano: “Ci appelliamo, come esseri umani, ad altri esseri umani: ricordate la vostra umanità e dimenticate il resto. Se vi riuscirete, si apre la via verso un nuovo paradiso; se no, avete di fronte il rischio di morte universale”.  

L’aver smarrito il senso di comune appartenenza al genere umano è la causa prima della guerra; il riscoprirne la realtà ne sarà il rimedio. Ma è necessario uscire dagli egoismi e pensare agli altri e al futuro: “Forse – i due Autori annotavano con un velo di sfiducia - quel che impedisce maggiormente la piena comprensione della situazione è il termine ‘umanità’, che suona vago e astratto. La gente fa fatica ad immaginare che il pericolo riguarda le loro stesse persone, i loro figli e nipoti, e non solo un vago concetto di umanità. Essi faticano a comprendere che davvero essi stessi, ed i loro cari, corrono il rischio immediato di una mortale agonia”. 

Anche oggi dobbiamo meditare su questi appelli. Dobbiamo chiederci cosa è rimasto oggi di quegli insegnamenti e di quegli ideali, come possiamo riconquistare quella consapevolezza di umanità, per comprendere ciò in cui siamo immersi. Gli errori possono essere ottima occasione per correggersi e migliorare; ma quelli della storia passata e recente sembrano essere stati disastrosi allora e inutili oggi. Forse l’uomo contemporaneo deve ricercare e riconquistare la lucidità razionale necessaria per capire che non c’è più tempo; che è giunta l’ora di cambiare e di impegnarsi in prima persona a “lottare” per la salvezza e la felicità propria e dell’umanità.




giovedì 14 gennaio 2016

EINSTEIN: LIBERTÀ SPIRITUALE DEL CITTADINO E UNITÀ POLITICA

Non è mistero che i “cittadini” che abitano la “società” dei nostri tempi vivono situazioni carenti di vera libertà, a causa del dominante e sempre crescente egoismo in ogni settore e in ogni attività.
Qualunque azione individuale e qualunque relazione sociale sono sempre suggerite da interessi privati, del tutto privi d’ogni preoccupazione per eventuali ricadute sugli altri. 

Più che suggerire indicazioni opportune – che potrebbero suonare “interessate” - per combattere questi comportamenti non degni dell’uomo, è preferibile rileggere e meditare quello che circa un secolo fa ha scritto Albert Einstein.

“Senza personalità creatrici capaci di pensare e giudicare liberamente, lo sviluppo della società in senso progressivo sarebbe altrettanto poco immaginabile quanto lo sviluppo della personalità individuale senza l’apporto vivificatore della società.
Una comunità sana rimane perciò legata tanto alla libertà degli individui quanto alla loro unione all’interno di una società. È stato detto, e con molta ragione, che la civiltà greco-europeo-americana, e in particolare il rifiorire della cultura col Rinascimento italiano, che subentrò alla stasi del Medio Evo in Europa, trovò il suo fondamento soprattutto nella libertà e nell’isolamento relativo dell’individuo.
Consideriamo ora la nostra epoca. In quali condizioni si trovano oggi la società e le persone? In rapporto al passato, la popolazione dei paesi civilizzati è estremamente densa; l’Europa ospita all’incirca una popolazione tre volte superiore a quella di cento anni fa. Ma il numero di uomini dotati di temperamento geniale è diminuito senza proporzione. Soltanto un esiguo numero di uomini, a motivo delle loro facoltà creative, sono noti alle masse come personalità degne di considerazione. L’organizzazione ha in certo qual modo sostituito le qualità del genio nel campo della tecnica e, in misura notevolissima, nel campo scientifico.
La penuria di personalità si fa sentire in modo particolare nel campo dell’arte. La pittura e la musica sono oggi nettamente degenerate e suscitano nel popolo echi assai meno intensi. La politica non manca solo di capi. L’indipendenza intellettuale e il sentimento del diritto si sono profondamente ridotti nella borghesia, sicché l’organizzazione democratica e parlamentare che poggia su quella indipendenza è stata in molti paesi sconvolta; sono sorte dittature e sono state sopportate perché il sentimento della dignità e del diritto non è più sufficientemente vivo”.



sabato 9 gennaio 2016

E’ MORTO IL “DOCENTE” GIANNI RONDOLINO


Francesca Rosso annuncia oggi dalle pagine de La Stampa di Torino la scomparsa di Gianni Rondolino, uomo profondo e umile, educatore attento e discreto, consapevole del ruolo educativo e della funzione formativa della “cattedra”. In tempi in cui si parla tanto di “buona scuola”, sarebbe davvero opportuno meditare sui messaggi di figure che hanno dato la vita a “ ben insegnare” verità e valori.  
Vale la pena, intanto, leggere quanto ha scritto la Rosso. 

“È morto nella notte nella sua casa di Torino, Gianni Rondolino. Tra pochi giorni avrebbe compiuto 84 anni. Già Professore ordinario di Storia e Critica del Cinema all’Università di Torino e autore di molti libri fra cui Storia del cinema di animazione. Dalla lanterna magica a Walt Disney da Tex Avery a Steven Spielberg, Luchino Visconti, Roberto Rossellini, I giorni di Cabiria sul cinema muto torinese e soprattutto la Storia del cinema, quel volume conosciuto come “il Rondolone” per le dimensioni (quasi 800 pagine) e che accompagna gli studenti dal 1977 ad oggi in varie riedizioni. È stato critico cinematografico per “La Stampa”, direttore della collana di cinema di Utet e nel 1981 ha fondato il Festival Cinema Giovani, diventato poi Torino Film Festival.  

Ha segnato la formazione di generazioni di studenti che oggi sono critici, giornalisti, docenti, operatori culturali.  

Le sue lezioni erano semplici e appassionate. Era ossessionato dall’essere comprensibile: «Non so se è chiaro» ripeteva fino allo sfinimento, fino a che anche l’ultimo studente nell’ultima fila dell’aula 36 di Palazzo Nuovo non faceva segno di sì con la testa; come i grandi insegnanti incoraggiava ciascuno a credere in sé e a trovare una via originale di esprimersi; era innamorato dei film non narrativi, strani, originali. Oltre che della sua famiglia, di sua moglie Lina con la quale andava in giro per i festival e dei suoi figli Fabrizio e Nicola, morto 3 anni fa". 




lunedì 4 gennaio 2016

IL «GRAZIE» DI MONTALE AL PREMIO NOBEL 40 ANNI DOPO

Dal Corriere della Sera del 24 ottobre 1975, dopo l’annuncio.
(dal testo di Giulio Nascimbeni)


Ore 13 di ieri, al terzo piano di via Bigli 15, nella casa di Eugenio Montale, suona il telefono. Risponde la Gina (Gina Tiossi, un discreto personaggio di governante che da quasi 40 anni vive accanto a Montale). Il poeta sta fumando in compagnia di due amici del Corriere, Gaspare Barbiellini Amidei e chi scrive. La Gina entra nel salotto: «Chiamano dall’ambasciata di Svezia», dice. Montale si alza dalla poltrona con un po’ di fatica, spegne la sigaretta, si appoggia al braccio della Gina, va al telefono.

«Oui, monsieur… Je suis très heureux de faire votre connaisance». Dall’altra parte del filo c’è l’ambasciatore. La serie degli oui si sgrana fitta e continua. Poi comincia quella dei merci. La scena ha una castità e una semplicità straordinarie. Le pareti della casa sono vuote: i quadri non sono ancora stati riappesi dopo l’estate. L’annuncio del premio Nobel avviene nella piccola anticamera che precede la cucina, tra un vecchio frigorifero la porta del bagno di servizio. Montale con una mano si appoggia a una maniglia. Dice ancora una volta merci. Riattacca. La Gina lo bacia sui capelli, poi gli domanda: «Andiamo a tavola?». In cucina sono pronti il riso all’olio e due polpette con l’insalata.

La prima poesia. Montale chiede un piccolo rinvio: «Fumo un’altra sigaretta con questi miei amici. L’ambasciatore mi ha raccontato che scrive poesie anche lui». Torna a sedersi. «Dovrei dire cose solenni, immagino. Mi viene un dubbio: nella vita trionfano gli imbecilli. Lo sono anch’io?». Si sentono altri squilli del telefono. Alla porta c’è un inviato della televisione svedese. «Ciao, dice, adesso mangio, poi vado a riposare». Da tre ore Montale era in attesa. Il giorno prima, mercoledì, uno dei suoi traduttori in svedese, il Prof. Oreglia, lo aveva avvertito che l’assegnazione del premio era ormai sicura al 90%.«Come ha passato la notte?». Gli chiedo. «Con la mia solita insonnia. È sessant’anni che ne soffro. Il Nobel non c’entra», risponde. «Degli altri probabili vincitori cosa pensa?». «Ho saputo che c’era anche Simone De Beauvoir. Dicono che sia una donna terribile. Come fa Sartre a starle insieme da tanto tempo?». Sono le undici, da Roma è arrivata una giornalista svedese, Martha Larsson. Deve tracciare una rapida biografia del poeta. Si comincia dalla data di nascita: 12 ottobre 1896. «Ho scritto la mia prima poesia a 5 anni. La ricordo perfettamente: Il vaso era il posto noto – né pieno né vuoto». A poco a poco avviene una metamorfosi abbastanza consueta quando si intervista Montale.

La sua insaziabile curiosità delle cose della vita, che è una specie di reazione alla solitudine di cui si è sempre circondato, lo porta a essere lui l’intervistatore. Alla Larsson che gli chiede se ha lettori in Svezia risponde: «Sì, mi mandano delle cartoline con slitte trainate da cani. Ma come risolvete i problemi del riscaldamento con tutto quel freddo? In quanti siete? È vero che da voi non c’è modo di sfuggire alle tasse?». La giornalista gli risponde che è vero. «Allora il vostro governo non piacerebbe agli italiani», commenta Montale. La Larsson insiste: «Cosa ne pensa della situazione italiana?». La risposta è: «Finirà bene. Non ho mai visto un Paese che muore perché un bilancio è in passivo. Mio padre, ai primi del secolo, diceva sempre: “È una catastrofe, non si può andare avanti”. Sono passati più di 70 anni. I discorsi sono sempre uguali. Solo al tempo del fascismo non si faceva perché non si poteva parlare. Adesso siamo forse arrivati all’eccesso opposto: Dal mutismo alla logorrea». La Larsson vuole condurlo a pronunciarsi sul problema dell’aborto. Risponde: «Non siamo molto bravi a interpretare le leggi. Quando è arrivato il divorzio, molti hanno creduto che fosse obbligatorio. Adesso c’é il pericolo che tutte le donne si sentano obbligate ad abortire. Ma è vero che in Svezia non ci sono poveri?».

Stoccolma, 10 dicembre 1975, nel Salone della Fiera Campionaria si svolgono le prove della cerimonia di consegna del Premio Nobel: gli undici candidati, a turno, devono avanzare verso re Carlo Gustavo di Svezia e ritirare la prestigiosa medaglia. Tra loro c’è Eugenio Montale, il poeta, certo, autore di “Ossi di seppia” e “Le occasioni”, ma anche il giornalista e critico musicale del Corriere della Sera, oltre che il traduttore che collaborò con Elio Vittorini all’antologia “Americana”. Al Nobel l’ha condotto la stima smisurata del collega svedese Anders Osterling, che già nel 1960 aveva tradotto per i connazionali la raccolta “Ossi di seppia” (Archivio Rcs)

Montale ha 80 anni, soffre da tempo di vertigini e fatica a camminare, ma presenzia alle prove della cerimonia, mentre la fidata governante Gina sbuffa e dice: «Me lo stan sbatacchiando di qua e di là come se avesse vent'anni». Dopo qualche momento di smarrimento generale, data la rigidità del cerimoniale che impedisce di accompagnare i vincitori, il re Carlo Gustavo - nella foto - si offre di portargli il premio (Archivio Rcs). E di quell’occasione solenne, riconoscimento per il lavoro di una vita, oltre che orgoglio nazionale, restano alcuni esilaranti commenti a margine di Montale, come questo sui 90 milioni di lire legati al premio: «Tutti mi chiedono che cosa ne farò. Prima vorrei sapere quanti me ne restano dopo le tasse» (Archivio Rcs).

Ma a cerimonia conclusa, durante il banchetto in onore dei vincitori, lasciandosi andare all’emozione e all’orgoglio, Montale si fa serio e commenta così quella giornata speciale: «Ho sempre bussato alle porte di quell'enigma meraviglioso che è la vita, e da quell'enigma ho tratto la poesia» (Archivio Rcs).

Ultimo di sei figli, Eugenio Montale nasce a Genova nel 1896 in una famiglia della media borghesia, che sceglie per lui studi tecnici a causa della sua salute precaria, pur lasciandogli coltivare la passione letteraria. Si diplomerà in ragioneria, ma negli anni verrà insignito di ben tre lauree honoris causa, di cui dirà: «Qui [in Italia], anche per diventare poliziotto bisogna essere dottore. Soprattutto nel meridione è un titolo molto apprezzato» (Archivio Rcs).

Alla passione per la letteratura accompagna quella per il canto, seguendo le lezioni dell’ex baritono Ernesto Sivori; come cantante non si esibirà mai, tranne che per i colleghi del Corriere della Sera, come racconta Vittorio Notarnicola: «Un pomeriggio al giornale, con un registratore a disco, gli si tirò una trappola: lo convincemmo a incidere “la calunnia”, del don Basilio rossiniano. Eugenio cantò, ma non sapeva tutte le parole; non si fermò, andò avanti a cantare, inventando quello che non conosceva della romanza» (Archivio Rcs).

Dopo aver preso parte alla Grande Guerra, Montale affronta gli anni ’20 e ’30 distaccandosi dal fascismo e sottoscrivendo il famoso manifesto di Benedetto Croce, che gli costerà l’espulsione dal Gabinetto scientifico letterario Vieusseux di cui era diventato direttore nel 1938. Nella foto con Maria Luisa Spaziani (Archivio Rcs). Negli anni del soggiorno fiorentino, Montale si é già fatto notare per la sua prima raccolta poetica “Ossi di seppia”, pubblicata da Piero Gobetti nel 1925, e collabora alla rivista “Solaria”, immerso nella vita culturale fiorentina e nei circoli letterari, dove ha modo di conoscere Carlo Emilio Gadda, Tommaso Landolfi ed Elio Vittorini - con lui nella foto (Archivio Rcs)

«L'argomento della mia poesia è la condizione umana in sé considerata: non questo o quell’avvenimento storico. Ciò non significa estraniarsi da quanto avviene nel mondo; significa solo coscienza, e volontà, di non scambiare l'essenziale col transitorio. [...] Avendo sentito fin dalla nascita una totale disarmonia con la realtà che mi circondava, la materia della mia ispirazione non poteva essere che quella disarmonia». E ancor più che in “Ossi di seppia”, ne “Le occasioni” la poesia si fa simbolica, il linguaggio meno penetrabile e carico di sottintesi (Archivio Rcs).

Nel 1948 viene chiamato a collaborare con la redazione del Corriere della Sera e del Corriere d’Informazione come critico musicale; una svolta, come già altre nella sua vita, che definirà casuale: «Non ho mai deciso nulla, cosa fare, dove andare. Gli eventi mi hanno modificato. Sono diventato giornalista dopo i cinquanta, quando si va quasi in pensione». Nella foto con il direttore Piero Ottone (Archivio Rcs).

Stoccolma, 10 dicembre 1975, nel Salone della Fiera Campionaria si svolgono le prove della cerimonia di consegna del Premio Nobel: gli undici candidati, a turno, devono avanzare verso re Carlo Gustavo di Svezia e ritirare la prestigiosa medaglia. Tra loro c’è Eugenio Montale, il poeta, certo, autore di “Ossi di seppia” e “Le occasioni”, ma anche il giornalista e critico musicale del Corriere della Sera, oltre che il traduttore che collaborò con Elio Vittorini all’antologia “Americana”. Al Nobel l’ha condotto la stima smisurata del collega svedese Anders Osterling, che già nel 1960 aveva tradotto per i connazionali la raccolta “Ossi di seppia” (Archivio Rcs).

Martha Larsson se ne va. Dalla Mondadori, la casa editrice che pubblica i suoi libri, gli chiedono una dichiarazione ufficiale. I «tic» del volto si accendono tutti all’improvviso. La bocca sbuffa con quel sibilo che a volte gela l’interlocutore. «Come si fa a dire cose non banali?», domanda. Detta qualcosa: «L’altissimo riconoscimento che mi viene dall’Accademia svedese é per me motivo di soddisfazione…». Ci ripensa. Si ferma. I «tic» riprendono il sopravvento, torna a dettare: «Non sono mai stato in Svezia e non conosco personalmente i miei traduttori in lingua svedese. Questo fatto aumenta in me la profonda gratitudine per il riconoscimento che mi viene da un Paese che ha alte tradizioni di cultura e di profonda fede democratica. Mi ripropongo di andare in Svezia e ringraziare personalmente i miei nuovi amici». 

Segue un’immediata postilla: «Andrò a Stoccolma, ma non vorrei fare discorsi». È quasi mezzogiorno. Lo prende un dubbio: «E se poi non vinco? E se poi decidono di cambiare opinione?». Ride nervoso. Gli ricordo che il Nobel coincide con i 50 anni di Ossi di seppia. «Il volume costava sei lire», risponde. «Ne furono stampate mille copie. Dovetti darmi da fare per convincere parenti e amici a prenotarlo. Il primo titolo che avevo proposto era "Rottami".

Il tempo scorre lento. Si parla di giornali: «Ho sentito che quello di Scalfari, “La Repubblica”, uscirà in un formato quasi tabloid. Che convenienze ci sono?». Poi il discorso passa al «Corriere»: «Chi c’è nella stanza dove stavo io con il povero Emanuelli? Via Solferino è diventata troppo lontana per le mie gambe. Devo muovermi ogni giorno, me l’ha ordinato il medico, ma non fare tanta strada. Se andrò a Stoccolma dovrò tirare fuori lo smoking. È da quando ho smesso di fare il critico musicale che non lo indosso più». «Ha scritto poesie in queste ultime settimane?», domando. «No, sono appena rientrato da una lunga vacanza a Forte dei Marmi. Adesso posso concedermi lunghe vacanze. Andavo alla spiaggia tutte le mattine. Ma non ho scritto poesie». Non sembra sincero del tutto. In qualche cassetto forse c’è qualcuno di quei foglietti su cui ha sempre abbozzato le sue poesie: quei foglietti che un’antica domestica, Maria Bordigoni, trovava nelle sue tasche e buttava via. Maria non sapeva leggere. Le interessava ricuperare i fiammiferi o i bottoni che si erano staccati.

Sarebbe forse ora di fare qualche domanda sull’intera sua vita, sull’intera sua opera. «Globale è un aggettivo che detesto», replica subito: «Messaggi? I messaggi è meglio non mandarli». Si stenta a superare il muro del paradosso. Montale è sempre stato così. L’imminenza del Nobel non l’ha cambiato. Concede una brevissima frase: «Per me la poesia è un invito alla speranza», ma subito se ne ritrae. «Ho sempre provato un po’ di vergogna a sentirmi chiamare poeta. Nei registri degli alberghi, mi sono sempre qualificato come giornalista». «E dopo il Nobel?», azzardo. «Magari diventerò Papa. Se c’è tanta avanguardia, tanto dissenso nella Chiesa, perché un borghese non potrebbe diventare Papa?».

È l’ultimo paradosso. Sono le tredici. Arriva la telefonata dell’ambasciatore di Svezia. La Gina apre la radio, stanno dando la notizia. Mettono in onda un’intervista di qualche anno fa, quando uscì Satura. La radio è in cucina. Per chi crede nella poesia e in Montale, non è un momento come tanti altri. Questo non se andrà mai dalla memoria. Una cucina, una pentola che fuma, le pareti vuote, il senso d’una distanza che nemmeno il Nobel riesce a valicare. Fuori c’è la città. C’è anche l’indifferenza della città. La sua «decenza quotidiana» forse è una lezione troppo ardua.