Il Tempo, in sé fluire di momenti transeunti che vanno accolti, si apre a un "oltre" custode Eterno di valori trascendenti che vanno abitati. Vicende e realtà tendono alla suprema fusione nell'infinita Totalità, anima di ogni Speranza.

lunedì 5 gennaio 2015

LA RIFORMA DEL TERZO SETTORE, URGE UNA RIVOLUZIONE CULTURALE

Pubblicato da "Affari Italiani", Mercoledì, 3 dicembre 2014

La riforma del terzo settore, urge una rivoluzione culturale
di Cosimo Scarcella*

Il Presidente del Consiglio, intervenuto al convegno organizzato per la Giornata internazionale delle persone con disabilità, ha comunica che la delega sulla riforma del Terzo settore andrà in Aula nei primi mesi del prossimo anno. La Commissione Affari Sociali a Montecitorio, di fatto, dopo aver ascoltato nelle ultime due settimane le realtà interessate e comunque coinvolte al problema, è in grado di aprire i termini per la presentazione degli emendamenti e per la discussione nei dettagli sul testo del Disegno di Legge Delega da portare alle Camere. Si tratta, in sostanza, di legiferare sul modello d’impresa sociale, che si ha in mente di promuovere, realizzare e sostenere.

Nel testo approvato dal Consiglio dei Ministri il 10 luglio 2014 è già chiara la visione globale del governo, che sottende sia i motivi che gli obiettivi della riforma proposta; cioè, riordinare la normativa che disciplina attualmente il terzo settore, corredandola di più adeguati strumenti atti a formare un sistema sociale, che garantisca a ogni cittadino la partecipazione responsabile e personale per la crescita, l’occupazione e lo sviluppo di tutti. In termini diversi: coinvolgere l’intera società cosiddetta civile a divenire promotrice autonoma di bene comune. A tal fine è davvero rilevante lo spirito e la serietà, che animano il legislatore: determinare rigorosamente i confini d’ogni attività di terzo settore; favorire i principi di sussidiarietà orizzontale e verticale sanciti nella Costituzione; deliberare valide forme di sostegno giuridico e finanziario; incoraggiare l’evoluzione del mondo del non profit in impresa sociale, soggetto anche economico e, quindi, creatore di occupazione, sviluppo e ricchezza comune.

Sono note le perplessità che provengono da varie direzioni e riguardanti diversi aspetti dell’aggrovigliato mondo del non profit e del complicato comparto dell’intero volontariato. Si teme, infatti, che resti tutto nuovamente scritto nel libro dei buoni propositi per la scarsezza di risorse e che si continui a “usare” il terzo settore come stampella dell’economia pubblica dello Stato e dell’economia privata del Mercato. Settore, appunto, “terzo”: che viene, cioè, solo dopo i primi due, e solo per raccoglierne i residui inutili, onerosi e soprattutto non redditizi; nella migliore delle intenzioni, considerati opportuno strumento per colmare le inefficienze e danni causati dalla crisi dell’attuale modello socio-politico-economico dominante nell’Occidente. Oltre alle incertezze provenienti da questi assetti istituzionali, non meno forti sono i dubbi, che nascono per il ruolo e il coinvolgimento degli Enti Locali, che sono in definitiva i concreti “gestori” delle iniziative del terzo settore e del volontariato. Unanime, infatti, è la condivisione del proposito di ampliare i settori economici, in cui potranno operare le nuove imprese sociali - come il commercio equo e solidale, l’inserimento dei disoccupati, l’accoglienza sociale, il microcredito -; diversificata e, quindi, discutibili e tutti da verificare sono, invece, altri aspetti vitali per la solidità e la sopravvivenza d’ogni futura impresa sociale. Non ci si può non preoccupare, per esempio, di definire il limite minimo dei ricavi dal mercato di ciascuna impresa, di stabilire il limite massimo della distribuzione degli utili, di riconoscere la capacità imprenditoriale di ottenere un ritorno sul capitale sociale. A questo riguardo sembra necessario, pertanto, inventare e introdurre nuovi e adeguati modelli di valutazione e di controllo.

Ogni movimento culturale e ogni progetto di vita sociale ed economica nasce e si alimenta d’un proprio insieme di valori logicamente elaborati, verificati dall’esperienza e confermati dai risultati. Di conseguenza sembra vano porsi al di fuori del sistema Stato e criticarlo per azioni che vanno aldilà dell’economia pubblica; e così per l’economia privata di Mercato. Qualora non se ne condividano le ragioni, è lecito segnalare gli effetti negativi per tutti e invitare a correggere alquanto il passo. Ma giammai ad auto annullarsi e cedere il posto a chi vuole essere promotore d’una nuova modalità di vita. Ragionevole sembra essere, invece, proporre una propria visione alternativa di vita privata e comunitaria e, attraverso confronti leali e liberi, collaborare per orientare al meglio la società in ogni sua componente.

La riforma del Terzo settore ha senza dubbio bisogno dell’adeguamento di norme e regole da erogare da parte delle Istituzioni, ma necessità sopra e prima di tutto d’una profonda rivoluzione culturale da parte della società tutta, finora spesso solo fruitore di beni e servizi attesi e pretesi come un diritto inalienabile. Pertanto, senza snaturare la propria ragion d’essere, per il mondo del Terzo settore è ormai ineludibile che tutti coloro che operano in esso diventino soggetti autonomi e indipendenti, quindi produttivi e in grado di finanziare almeno in parte i propri scopi. Senza questo rinnovamento culturale i soggetti della società civile operanti anche nel Terzo settore continueranno a rimanere beneficiari di beni e servizi, ma non diverranno anche soggetti d’arricchimento collettivo e d’incremento di bene comune. E’ in questione, quindi, un cambio di mentalità, sintetizzato nel famoso appello di Kennedy: “Non chiedere quello che il tuo Paese può fare per te, chiediti invece quello che puoi fare tu per il tuo Paese”. E’ questa la scommessa da vincere. Far ripartire il Paese - come da ogni parte s’invoca – è sicuramente possibile sperando in un futuro magnifico, ma da realizzare grazie alla responsabilità nel presente da parte d’ogni cittadino. E’ impensabile ormai che immense energie umane siano ridotte a supplire carenze di servizi pubblici spesso del tutto assenti; è assurdo che preziose capacità professionali restino soffocate da crisi dell’Impresa; ed è disumano che popoli interi restino vittime del mercato del solo profitto ad ogni costo. Comunque, è indubbio che esseri umani vivano esclusi da ogni forma di vita umanamente sostenibile è da addebitare a ogni singolo uomo e cittadino, sordo allo spirito di sussidiarietà anche orizzontale, che sprona la coscienza dell’uomo verso sentimenti di solidarietà. Pertanto, se le Istituzioni e il Mercato non possono né debbono delegare all’opera assistenzialistica dei privati i loro doveri, nemmeno la società del Terzo settore può usare le negatività di governanti e imprenditori come alibi per evitare i propri doveri d’iniziativa e produttività destinate al bene comune. Per dare vita a forme di vita singola e collettiva più a dimensione d’uomo, è auspicabile davvero un rinnovamento (rivoluzione) culturale globale, che coinvolga tutte le coscienze e tutte le volontà. Così potrà avere buon esito anche la riforma del Terzo settore.
*filosofo

E' FINITA L'ERA DELLA RAPPRESENTANZA POPOLARE

Pubblicato da "Affari Italiani", Giovedì, 20 novembre 2014

IL COMMENTO - Il popolo italiano non elegge già da tempo i suoi "deputati" né li delega a legiferare a nome suo e per il bene di tutti. Ormai deve prendere soltanto atto d'ogni operato dei vari soggetti designati e cooptati dagli schieramenti politici e dalle altre forze che contano... Di Cosimo Scarcella

Giovedì, 20 novembre 2014 - 16:21:00

Il popolo italiano non elegge già da tempo i suoi "deputati" né li delega a legiferare a nome suo e per il bene di tutti. Ormai deve prendere soltanto atto d'ogni operato dei vari soggetti designati e cooptati dagli schieramenti politici e dalle altre forze che contano. Osservando lo scenario odierno offerto dai partiti politici, si capisce finalmente cosa hanno voluto dire molti pensatori assennati e disincantati, quando hanno definito i parlamenti il "mercato delle vacche". Nei mercati di rione, infatti, è normale il "tirare sul prezzo" il più possibile dalle parti contrattanti, con reciproca furbesca attenzione, però, al punto di rottura, che farebbe perdere l'affare sia al compratore che al venditore. A questo sembra essere ridotta la politica italiana di questi ultimi mesi. Politica, in sé e per sé, è abilità di risolvere problemi e soddisfare bisogni reali dei cittadini, che si presentano indubbiamente diversi e talora perfino opposti e, quindi, che vanno legittimamente e saggiamente mediati. Portavoce naturali delle singole voci popolari sono i partiti politici. I governi che si succedono al potere, di conseguenza, hanno il duplice dovere di difendere l'identità della propria parte politica e, nello stesso tempo, di captare i bisogni e intuire i valori delle altre parti. La storia della Repubblica Italiana documenta che è stato questo l'ideale regolativo dei vari governi, almeno fino a un ventennio fa: da Alcide De Gasperi e Togliatti a Enrico Berlinguer e Aldo Moro. E questo è il significato autentico anche del paradosso delle "convergenze parallele", che si dice abbia pronunciato Aldo Moro durante il congresso di Firenze della D.C. nel 1959: concetto assurdo in matematica, ma fondamentale per una politica sana e un governo buono, in quanto le molteplici "parallele" socio-politiche ed economico-finanziarie devono convergere il più possibile in ogni iniziativa governativa, al fine di perseguire il bene comune.

Non susciterebbe stupore, quindi, il fermento che anima palazzi e piazze italiane in questi ultimi mesi: in una normale vita democratica sarebbe ottimo segno di dialettica viva e costruttiva. La cosa, però, insospettisce, anzi spinge ad analizzarne e capirne le motivazioni reali e le finalità forse taciute. Da ogni parte, infatti, s'ostentano dichiarazioni di difesa degli interessi generali e di rivendicazione del bene del popolo, quando nella sostanza dei fatti il popolo risulta del tutto dimenticato o accontentato con qualche briciola residua (forse anche casuale e indiretta, ma certo non disinteressata). I protagonisti della politica odierna sembrano, infatti, mercanti attenti agli affari propri, che mirano a concludere a ogni costo e a ogni prezzo, e perciò attenti solo al punto di rottura: pronti sì alle schermaglie e agli scontri, ma anche disponibili ai compromessi d'ogni genere. Comportamento dettato - si predica - dal proposito di salvaguardare gli equilibri di bilancio, le coperture economico-finanziarie, la difesa dei vari diritti, la dignità delle relazioni internazionali, ecc. Ovviamente - si precisa solennemente - con l'annuncio formale (qui veramente unanime o quasi) che l'unico vero destinatario finale di tutto è il popolo, il quale vedrà (non certo dall'oggi al domani, a tempo opportuno) i frutti copiosi della crescita, dell'occupazione, della rinascita della scuola e della ricerca, del riassestamento del territorio, dell'equità sociale, ecc. Nel frattempo, però, i diversi contrattanti s'assicurano l'affare proprio.

Si è ben lontani, sembra, dall'era della politica della rappresentanza popolare, in cui la classe politica rappresentava veramente e solamente (o soprattutto) il popolo, che di fatto aveva il potere - grazie a leggi e riforme adeguate - di decidere di volta in volta di confermarla o di sostituirla. E' finita quell'era. Osservando alcuni fenomeni attuali, si ha la sensazione che c'è qualcosa di diverso, che si miri a qualcos'altro; ed è una sensazione che genera perplessità per il futuro della nostra democrazia rappresentativa. E' doveroso, senza dubbio, demolire ideologie sorpassate dalla storia e palesemente inutili, ma è pericoloso instaurare procedimenti destinati (forse pure inconsapevolmente, ma non per questo meno nocivi) a smentire e capovolgere la democrazia rappresentativa. Conservare il Parlamento, ma esautorarlo e addomesticarlo all'Esecutivo, allo scopo di mostrare l'impotenza di quell'istituzione, per risaltare la potenza del gruppo dirigente e richiedere il necessario contributo di forze sociali ed economico-finanziarie "estranee"; svuotare il Senato d'ogni competenza di controllo sulla Camera dei Deputati; demolire le funzioni parlamentari apparentemente rispettate, ma nei fatti raggirate come inutili remore; puntare su riforme istituzionali ben cucite su misura; progettare una legge elettorale, che riduce sostanzialmente a farsa il voto dei cittadini. E il tutto con una frenesia, che toglie ogni lucidità di giudizio e limita la possibilità di riflettere e di ponderare i fatti, quasi si abbia paura che s'intuisca qualcosa di più e che si capisca meglio. Ma il popolo italiano non è quello cinquecentesco immaginato dal vecchio Machiavelli. E' quello che s'è costruito grazie alla democrazia rappresentativa sulle macerie di due guerre e di due funesti totalitarismi. E lo conferma il fatto che a tutt'oggi il partito più numeroso è quello dei non-voto, che si gonfia sempre più nel silenzio dell'avversione dignitosa.

ALDO MORO NON E’ TUTTO MORTO!


Pubblicato da "Affari Italiani", Mercoledì, 12 novembre 2014

Giunge con soddisfazione la notizia che è stata conclusa l’inchiesta condotta sul caso Moro, dopo le interessanti dichiarazioni di Enrico Rossi, ex ispettore di PS. Il Procuratore generale di Roma, Luigi Ciampoli, riferirà nella competente Commissione parlamentare. E’ conclusa, dunque, l’inchiesta. Ma nell’animo - particolarmente di chi ha vissuto quei terribili avvenimenti - riaffiorano brutti ricordi e riemerge ancora un forte senso d’incredulità. Il rapimento e l’uccisione di Moro hanno inferto allora un colpo mortale non solo e non tanto a un partito politico, ma anche e soprattutto a tutto il nostro Paese. Ferita così grave e profonda che ancora oggi è veramente difficile prevedere fino a quando rimarrà ancora aperta, con tutte le sue conseguenze. Erano già passati quattro anni dal tragico episodio, quando l’allora Segretario della DC Flaminio Piccoli, tentando di intravedere qualche filo di chiarezza, asseriva che “dire che non abbiamo mai avuto dubbi varrebbe riconoscere che siamo di pietra. Ogni coscienza che si rispetti, dinnanzi ad eventi così spaventosi, s’interroga, si esamina, ricorda momenti e decisioni e li riguarda sotto ogni aspetto, per la ricerca di una verità, che sia portatrice almeno di serenità e di pace”. Non pochi dubbi restano ancora, e forse non si capirà mai la verità delle motivazioni vere e delle finalità politiche occultate, che condannarono a morte Aldo Moro. Non bastano, comunque, celebrazioni e attestazioni. Dimenticando e condannando alla sterilità alcuni suoi validi insegnamenti – consigliati con la vita e testimoniati con la morte da martire del servizio al bene di tutti – forse rimarrebbe “assassinato” di nuovo.

Il giorno del sequestro Moro stava recandosi a Montecitorio, dove Giulio Andreotti avrebbe presentato il nuovo governo, per la cui nascita era stato decisivo il contributo dato da Moro. Circa tre mesi prima, in un clima di grande confusione tra tutti i partiti e all’interno di ciascun patito, egli aveva pronunciato un discorso ai gruppi parlamentari della D.C., durante il quale aveva sostenuto: “Possiamo dire che abbiamo cercato, seriamente e lentamente, la verità: la verità, diciamo in senso politico, cioè la chiave di risoluzione delle difficoltà politiche”. Nella politica operosa e produttiva, quindi, non debbono avere alcuno spazio né la superficialità né l’improvvisazione; tutto va deciso e realizzato con lungimiranza, per vedere oltre l’immediato, e con abilità di mediazione, per trovare risoluzioni condivise il più possibile. Quello di Moro era un abito interiore convinto, che traspariva anche dal suo atteggiamento esteriore, che in quei tempi era molto significativo. Aveva, infatti, un incedere compassato e mai studiato, ponderato e sostenuto, ispirante sempre rispetto sincero: era lo specchio d’un uomo intento a osservare e esercitato a riflettere, consapevole delle proprie responsabilità politiche e morali, in anni di crisi grave e profonda in ogni campo.

Da prigioniero nel “carcere” delle Brigate Rosse, quaranta giorni prima della morte, scriveva a Zaccagnini, allora segretario della Dc, consigliandogli disponibilità a trattare “qualche concessione” con i brigatisti, e concludeva: “Tenere duro può apparire più appropriato, ma qualche concessione è non solo equa, ma anche politicamente utile. Se così non sarà, l’avrete voluto e, lo dico senza animosità, le inevitabili conseguenze ricadranno sul partito e sulle persone. Poi comincerà un altro ciclo più terribile e parimenti senza sbocco”. Nel partecipare all’audizione del Procuratore Generale, tutti i partecipanti ripensino almeno a due direttrici, che Moro ha lasciato in eredità. La verità e il dialogo. “Quando si dice la verità – aveva ammonito lo statista pugliese, non bisogna dolersi di averla detta. La verità è sempre illuminante. Ci aiuta a essere coraggiosi”. E aveva insistito che non basta dirla la verità, “per avere la coscienza a posto: noi abbiamo un limite; noi siamo dei politici, e la cosa più appropriata e garantita, che noi possiamo fare, è di lasciare libero corso alla giustizia, e fare in modo che un giudice, finalmente un vero giudice, possa emettere il suo verdetto”. Per la soluzione più efficace dei problemi d’ogni natura, Moro suggerisce sempre il metodo del dialogo: purchè sia leale e ispirato solo al bene comune; rimane intatta la sua testimonianza, secondo cui la terapia nel pensare e nell’agire politico non è il mutare tecniche operative, ma vivere i valori. Testimoniandoli sino a offrire la propria vita.

"ELOGIO FUNEBRE DEL REGIME PARLAMENTARE”

Pubblicato da "Affari Italiani", Sabato, 8 novembre 2014

“Noi assistiamo alle esequie di una forma di governo”, disse il 19 dicembre 1925 al Senato, nel celebre discorso di rifiuto della legge sulle prerogative del Capo del governo, Gaetano Mosca giurista, politico, senatore e membro del governo Salandra. La riforma che veniva proposta era certamente compatibile, se si guardava alla lettera dello Statuto Albertino allora in vigore, ma la sostanza, che si voleva venisse approvata, era davvero preoccupante, in quanto si sanciva che i singoli ministri non dipendevano più dal Capo dello Stato (allora il re), ma dal Capo del Governo, e si stabiliva che lo stesso Consiglio dei Ministri da “organo collegiale” diventava “organo consultivo”.

Tutto il potere, pertanto, veniva riposto nelle mani del Capo del Governo, il quale creava i ministri, poteva destituire quelli in carica, poteva modificarne le deleghe, poteva attribuirsi le decisioni su questioni di reciproca competenza e aveva perfino il potere di stabilire l’ordine del giorno delle Camere. Il punto più enigmatico, tuttavia, era il problema della fiducia che doveva reggere il Capo del Governo: egli, infatti, restava al potere non solo al di fuori del volere delle Camere, ma persino al di fuori della volontà del Capo dello Stato (allora il re). Nel disegno di legge era scritto espressamente che il Capo del Governo veniva mantenuto al potere dal “complesso di forze economiche e politiche e morali, che lo hanno portato al Governo”. Era qui che si nascondeva l’ambiguità: chi erano quelle strane forze extraparlamentari tanto potenti da non essere soggette al parere neppure del Capo dello Stato. E Gaetano Mosca – maestro di Diritto, fondatore della Scienza Politica nelle università italiane, teorico della “classe politica” – diede voto contrario.

Annunciando il proprio voto contrario, Mosca avvertiva che nei fatti, sotto l’apparenza di strumenti presentati e caldeggiati come più adatti a un governo fattivo ed efficace, si stava cambiando un intero sistema di governo, che coinvolgeva e comprometteva diritti civili, equità sociali, doveri politici e persino valori morali d’una nazione intera già in piena crisi morale ed economica del dopoguerra. Cambiamenti probabilmente non solo opportuni, ma addirittura necessari. Ma erano proprio le motivazioni e le finalità, che si diceva voler perseguire mediante tale cambiamenti che richiedevano prudente valutazione della realtà presente e saggia previsione delle possibili conseguenze future. Egli riteneva che un rinnovamento esageratamente rapido e intempestivo era un “salto nel buio” dettato dall’impulso frenetico d’una “nuova generazione, che crede di sapere tutto e di poter tutto mutare”. Terminava, perciò, le sue parole – sempre dettate con stile dimesso e umile - dichiarando che sentiva come suo “forte dovere di ammonirla”.

Consapevole di alcune reazioni prevedili, Mosca volle raffigurare i sentimenti che lo animavano nel suo comportamento e nella sua decisione, ricordando all’Assemblea l’addio di Ettore ad Astianatte: il tragico epilogo omerico d’una virtù morale e combattiva.

Sono passati circa novant’anni: forse non pochi per rileggere la nostra storia, prendendo qualche utile lezione.

DUE “RIFORMATORI” DEL XX SECOLO: PAPA MONTINI E JACQUES MARITAIN

Pubblicato da "Affari Italiani", Mercoledì, 22 ottobre 2014

Domenica 19 ottobre 2014: in piazza san Pietro una marea di folla fissava per ore intere la gigantografia d’un papa non molto noto ai più, perché (forse) tanto in vita che dopo la morte era rimasto sempre schivo e poco propenso ad apparire. Scetticismo e contentezza s’alternavano e si susseguivano nell’apprendere che papa Montini (1897-1978), uomo di chiara fama e di profonda cultura, veniva riconosciuto anche dalla chiesa cattolica romana - da lui guidata con costante prudenza anche durante gli “anni di piombo” – degno di venerazione per le sue virtù eroiche: spesso incompreso e talora dimenticato, veniva ora riscoperto fino a consacrarlo agli onori degli altari.

Montini percorse tutte le tappe nella vita ecclesiastica fino ad accettare il gravoso “servizio pontificale”; mantenne costantemente ferrea fedeltà ai suoi doveri pastorali e intatta coerenza ai dettami della sua coscienza. Anche da papa rimase ‘nel mondo’, ne esaminò i problemi, prodigandosi generosamente per la loro migliore soluzione; ne condivise le angosce, spendendosi ad alleviarle. Seppe riconoscere, stimare e frequentare anche “laici” saggi, onesti e anch’essi servitori degli uomini: basti ricordare, per esempio, l’amicizia con Aldo Moro (1916-1978) e la frequentazione di Jacques Maritain (1882-1973). Questo pensatore, addirittura, quindici anni più anziano, lo ispirò sempre soprattutto per la sua rivendicazione della ”integralità” dell’uomo, cioè della persona umana, che deve occupare la centralità d’ogni pensiero e d’ogni azione, essendo essa fondamento e fine del bene comune autentico. Non a caso, alla chiusura del Concilio Vaticano II, il papa Montini consegnò simbolicamente proprio al filosofo Maritain il messaggio indirizzato “agli uomini di scienza e del pensiero”, riconoscendolo così degno rappresentante degli intellettuali.

L’8 dicembre 1965, infatti, papa Paolo VI chiudeva il Concilio Vaticano II; il successivo 31 dicembre il filosofo Maritain poneva fine a “Il contadino della Garonna”, in cui esternava la sua esultanza, annunciando: “E’ stata ora proclamata la libertà religiosa. Ciò che così si chiama non è la libertà che io avrei di credere o di non credere secondo le mie disposizioni del momento e di crearmi arbitrariamente un idolo, come se non avessi un dovere primordiale verso la Verità. E’ la libertà che ogni persona umana ha, di fronte allo Stato o qualsiasi altro potere temporale, di vigilare sul proprio destino eterno, cercando la verità con tutta l’anima e conformandosi ad essa quale la conosce, e di ubbidire secondo la propria coscienza. La mia coscienza non è infallibile, ma io non ho mai il diritto di agire contro di essa”.

Sono convincimenti che sembrerebbero nascere dalla mente d’un fautore dell’antropocentrismo del rinascimento o sgorgare violenti addirittura dalla bocca d’un audace promotore dell’individualismo illuminista. Invece sono sofferte affermazioni dell’ultraottantenne filosofo francese, che Paolo VI continuava ad ascoltare e meditare. Il sodalizio culturale Maritain-Pacelli, in effetti, risaliva già a quarant’anni prima, quando, sfidando le opposte dottrine marxiste e neofasciste, nel 1925, Maritain aveva pubblicato i “Tre Riformatori. Lutero, Cartesio, Rousseau”, in cui criticava fermamente i principi professati dai tre “riformatori”: “l’avvento dell’io” di Lutero; “l’incarnazione dell’angelo” di Cartesio; “il santo della natura” di Rousseau. Riconosciuta e rispettata l’oggettività della realtà storica in cui avevano operato i tre pensatori, Maritain analizzava con indagine seria i contenuti e gli esiti delle idee proposte dai tre, concludendo che in ogni caso si era trattato di riforme illusorie. Infatti, Lutero falliva, perché il suo spirito mancava di religiosità; Cartesio doveva fallire, perché dubitava dello stesso strumento razionale; Rousseau sarebbe stato condannato a sbagliare, perché si fondava sul preconcetto dell’intrinseca malvagità della dimensione sociale degli uomini. Maritain, comunque, si professava anche aperto e disponibile a ogni seria ulteriore meditazione, da concretizzarsi mediante il rispetto reciproco e l’esplicazione della verità lealmente creduta da ciascuno.

Dopo appena due anni, il trentenne sacerdote Montini, nella “Festa dell’Epifania 1928”, firmava la sua traduzione del saggio maritainiano, dichiarando: “Se la sapienza di queste limpide pagine potesse convincere qualche giovane che s’ha da essere cauti a parlar di riforme, cioè ad inventare sistemi nuovi e mai prima scoperti, e a procedere nel pensiero e nella vita con la spavalda e avventurosa libertà degli egoisti e dei rivoluzionari, credo che sarebbe raggiunto scopo sufficiente e opportuno neanche per i nostri tempi e per il nostro paese”.

Maritain per aver scritto questo lavoro aveva sopportato critiche e ironie; Montini, per averlo condiviso, tradotto e diffuso, era atteso da ostilità e malevolenze. Tra i due pensatori s’instaurarono una frequentazione e un‘amicizia vive e solide. Nel 1978, infatti, due mesi prima di morire, papa Montini indicò come “atto importante” dell’intera sua azione pontificale quella solenne “Professione di fede”, che dieci anni prima aveva pronunciato in piazza San Pietro a nome di “tutto il popolo di Dio”. La genesi di quella professione di fede è testimoniata dalle lettere del comune amico card. Elvetico Charles Journet, ora raccolte nel volume 3 della “Correspondence Journet-Maritain” pubblicato nel 1998. Vi si legge come fu incaricato proprio Maritain a preparare un testo adeguato alle intenzioni del pontefice. Il filosofo stese il contenuto della professione solo “come bozza”, che il cardinale avrebbe presentato al papa, il quale, però, lo accettò subito, ritenendo un “miracolo che tutti i punti difficili sono stati toccati e riposti in luce”.

Chiunque voglia dedicarsi a “riformare” qualcosa con serietà e senza manie di protagonismo, chiunque senta il bisogno (o il dovere) d’impegnarsi con leale generosità per il bene comune, potrebbe trovare feconda ricchezza di suggerimenti nell’approfondire il pensiero e nel ripercorrere il modello di vita di questi due protagonisti, che hanno scritto la storia recente, attingendo copiosamente all’esperienza anche del passato, cui hanno guardato con umile rispetto e profonda gratitudine.

CRESCITA ECONOMICA E DIGNITA’ UMANA

Pubblicato da "Affari Italiani", Mercoledì, 15 ottobre 2014

In “Il Sole24ore” di domenica 12 ottobre 2014 è stata annunciata la pubblicazione della nuova edizione del saggio “Investire in conoscenza. Crescita economica e competenze per il XXXI secolo”, scritto dal Governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco. Dalla lettura delle pagine inedite anticipate nel dominicale del quotidiano è possibile dedurre alcune riflessioni ispirate a speranza e, nello stesso tempo, improntate a preoccupazione. “La peggiore recessione dal dopoguerra – scrive l’autore - non è solo conseguenza della crisi finanziaria del 2007-08. E’ il risultato di un forte e diffuso indebolimento della capacità del nostro Paese di crescere e competere”. Le cause bloccanti in questi ultimi decenni, pertanto, non sono da attribuire solo alla congiuntura economica sfavorevole, ma anche a molti “nodi irrisolti”, quali l’allargamento spesso repentino dei mercati, l’imporsi di nuovi protagonisti, l’insufficiente tecnologia disponibile per riordinare i contesti del lavoro e, soprattutto “le carenze nella dotazione, qualitativa e quantitativa, di capitale umano”, sprovvisto delle nuove abilità necessarie per sostenere la sfida dei mercati. Da ciò l’autore induce, con ragione, la necessità che in Italia vengano preparati per tempo profili professionali nuovi e disponibili a ricoprire i sempre ultimi ruoli richiesti dagli sviluppi tecnologici e dal variare della domanda dei mercati.

Viene chiamato in causa, così, l’intero sistema socio-economico, educativo e formativo italiano. E la mente corre agli anni post-sessantottini, durante i quali, con i decreti delegati del 1974, nacquero i cosiddetti “organi collegiali” con lo scopo di “rivoluzionare” natura, finalità e metodi dell’istruzione e dell’educazione delle nuove generazioni, grazie a un più facilitato e più esteso accesso ai diversi gradi d’istruzione e grazie, soprattutto, all’interazione fattiva con la società definita “più vasta comunità sociale e civica”. Ottimismo astratto, fondato sul presupposto che sia gli ambienti educativi sia la società fossero, ciascuna per propria natura, comunità educanti. Sono trascorsi quarant’anni e i risultati sono sotto gli occhi di tutti.

Anche da quest’esperienza nascono ora le perplessità sui rapporti tra esigenze socio-economiche proprie d’ogni nazione e sul come sia possibile associare quantità e qualità dei cittadini: elementi ugualmente necessari in ogni società democratica attuale e di domani. La democrazia, infatti, s’ispira nell’organizzazione della vita al principio dell’uguaglianza legale e, principalmente, reale. Ideale anche questo ottimo, ma che può covare il rischio dell’appiattimento o della massificazione, qualora non si armonizzino procedimenti amministrativi opportuni, metodi didattici adatti e mezzi economici proporzionati. Quantità e qualità, infatti, potrebbero sembrare contrapposte, ma in realtà stanno e debbono rimanere sempre e comunque associate. Ora, è indubbio che con le semplici riforme (anche odierne) meccaniche e funzionali all’immediato si fa poco per la qualità formativa dei giovani e per la reale crescita globale (quindi anche economica) di tutta la società. I popoli progrediscono, di fatto e nel senso pieno della parola, solo se s’investe in primo luogo sulla qualità; e, per raggiungere quest’obiettivo, servono esperienza, lungimiranza, competenza, audacia: chi progetta la formazione dei profili professionali del presente e del futuro deve tenere presente che i propri interventi investiranno coloro che nascono oggi e avranno vent’anni nel 2034. Riformare i processi formativi significa avere una concreta e adeguatamente ampia prospettiva generazionale, e non il soddisfacimento d’esigenze immediate e contingenti.

La parte conclusiva dello scritto del Visco, poi, fa sorgere qualche preoccupata considerazione, ovviamente suggerita dal buon senso e dalla ragionevolezza. “Le conoscenze tradizionali – assicura l’autore - resteranno un bagaglio irrinunciabile, ma andranno inserite in un contesto dinamico in cui assumerà importanza crescente ciò che gli educatori definiscono come ‘competenza’ (…). L’esercizio del pensiero critico, l’attitudine alla risoluzione dei problemi, la creatività e la disponibilità positiva nei confronti dell’innovazione, la capacità di comunicare in modo efficace, l’apertura alla collaborazione e al lavoro di gruppo costituiscono un nuovo ‘pacchetto’ di competenze, che possiamo definire ‘competenze del XXXI secolo’”. Quest’elenco, però, a ben riflettere, ha costituito, costituisce e dovrà costituire l’essenza e la ragion d’essere dell’azione educativa e formativa d’ogni tempo, per cui la differenza specifica del “pacchetto” ritenuto necessario nel nostro secolo si potrebbe forse sintetizzare nel maggiormente veritiero fornire (più che ‘formare’) capacità “per far fronte in modo efficace a situazioni spesso inedite e certamente non di routine”. Le perplessità nascono, allorquando si tenta di capire quale sia concretamente la natura delle invocate situazioni nuove: si tratta di situazioni da “utilizzare” per il benessere materiale e morale dei cittadini oppure contesti che pretendono di “utilizzare” la dignità dell’uomo e del cittadino, manipolando il senso della vita e marcando il destino della qualità dell’esistenza quotidiana?

L’evolvere storico della vita dei popoli globalmente intesa va senza dubbio compresa, accolta e coadiuvata nel suo “crescere e competere”; ma è necessario anche riconoscere ogni valida aspirazione dei singoli e in particolare delle ultime generazioni, evitando polemiche faziose, aprendosi a confronti sereni e nello stesso tempo intransigenti nel loro bisogno di coerenza e di seria verifica. Ogni proposta d’innovazione va formulata con spirito razionale e costruttivo, senza del quale può manifestarsi il malessere sordo, che induce molti, soprattutto i giovani, ad atteggiamenti irrazionali e distruttivi. Non si può tollerare che il fine (l’uomo che dispone d’una sola vita) sia ridotto a mezzo strumentale: l’uomo è fatto per vivere aspirando alla “felicità” sua e degli altri, e giammai per diventare “mezzo” per il perseguimento di mete private o di gruppo. Alla salvaguardia di questo diritto inalienabile sono chiamate tutte le “agenzie formative” di qualunque natura; ogni altra loro attività ha valore se è compatibile con la salvaguardia della libertà e la dignità umane. Anche la crescita economica e la concorrenza dei mercati.

FEDELTA’ POLITICA E COERENZA MORALE

Pubblicato da "Affari Italiani", Giovedì, 28 agosto 2014

Il Governo che impone al Parlamento il voto palese, motivandolo come atto richiesto dall’importanza e dall’urgenza del provvedimento presentato. Il Parlamento che ne contesta le circostanze, esigendo la regolarità e rivendicando la legittimità del voto segreto a tutela della propria autonomia legislativa. Da una parte il voto palese rappresentato (o comunque fatto percepire) come costrizione ricattatoria; dall’altra parte il voto segreto temuto (o minacciato) come opportunità di ritorsioni e occasione di resa dei conti. Da una parte i partiti, che invocano e pretendono la fedeltà politica dei parlamentari da loro fatti eleggere; dall’altra parte i parlamentari che rivendicano il rispetto del loro mandato popolare e della propria coscienza. La questione potrebbe ridursi a un’interessante dissertazione astratta sul rapporto politica-morale, se non coinvolgesse il destino della democrazia repubblicana italiana, la ragion d’essere dei partiti politici, la sorte dell’equità civile, la difesa della giustizia sociale, la tutela del vivere quotidiano dei cittadini. Le Istituzioni, pertanto, garanti massime della democrazia italiana, rischiano di diventare affossatori di democrazia e usurpatori di sovranità popolare; e questo proprio mentre s’adoperano per attuare fondamentali riforme istituzionali (senato, regioni, provincie, legge elettorale, riforma dl sistema giudiziario, assetti economico-finanziari).

I cittadini italiani, in verità, assistono per lo più disincantati e scettici alle vicende della politica italiana interna ed estera. Essi, infatti, sanno correttamente che l’idea e l’attuazione delle democrazie col tempo si sono evolute e continuano a evolversi, lasciando giustamente la sfera dell’astrattezza, per immergersi nella concretezza del governo dei popoli. Sono anche convinti, però, che da quest’evoluzione non scaturisce (e non dovrebbe mai scaturire), quale conseguenza inevitabile, un decadimento dell’idea e dell’etica, che sostanziano ogni democrazia autentica: questa, infatti, prima d’essere una tra le possibili forme di governo, è in primo luogo una visione generale della vita e uno stile di condotta privata e pubblica. Da qui il loro convincimento che anche l’attuale “democrazia del numero” è uno svolgimento positivo e costruttivo delle democrazie, a patto, però, ne restino salvaguardati i valori etici e gli obiettivi politici caratterizzanti. Ciò che oggi preoccupa i cittadini elettori (votanti e non-votanti) è il dover assistere al deterioramento della morale individuale e il decadimento dell’etica pubblica, come indicano alcuni segnali pericolosi. Si pensi, per esempio, alla trasformazione del ruolo degli eletti che ha alterato sostanzialmente anche il dettato costituzionale. Ovviamente anche la Costituzione non è testo sacro ispirato dall’alto; può, quindi, anzi deve essere aggiornata, adeguata, emendata. E’ necessario, però, che ciò sia fatto da chi ne abbia avuto mandato specifico e, soprattutto, con indiscutibile lealtà d’intenti ed evidente trasparenza di procedimenti.

Ed è proprio questo che genera perplessità negli italiani. Assistono, infatti, all’affannosa corsa a “far passare” provvedimenti proposti come strumenti d’una maggiore efficienza gestionale; in realtà, però, benché propugnati come mezzi di “stabilità e crescita”, di fatto implicano modiche sostanziali di princìpi essenziali, peraltro sanciti come fondamentali dalla Costituzione. Senza nascondersi che è molto incerto che tutto ciò arrechi qualche utilità alla vita del cittadino. A confermare la diffidenza dell’italiano politicamente “laico” (quindi, osservatore disinteressato, imparziale e sereno) non è solo ciò su cui si legifera, ma anche il modo con cui in questi ultimi tempi si opera in politica, sia nei palazzi e sia nelle piazze. Infastidiscono e suscitano sospetto l’arroganza dei partiti che il numero dei votanti di turno designa “maggioritari” e la baldanza di dirigenti, che rivendicano per sé il compito di decidere contenuti, tempi e modi della vita pubblica, sempre vigili a salvaguardarla dagl’intralci provenienti sia dai partiti indicati “minoritari” dal numero dei votanti sia da chi all’interno della cosiddetta “coalizione di maggioranza” tenti di discostarsi dalla linea dettata dai propri dirigenti. Ovviamente s’invoca sempre la necessità del dialogo aperto e disponibile a ogni contributo, salvo poi a non rintracciarne mai alcuno valido e appropriato. Inoltre, non si perde occasione per sottolineare e recriminare l’importante numero degli elettori non votanti; addirittura nei loro confronti s’è coniato il termine “astensionisti”, come se il non recarsi alle urne sia sempre e comunque una scelta d’irresponsabile disinteresse e non (anche e soprattutto) una decisione meditata, sofferta e perfino obbligata dai fatti, secondo l’insegnamento anche di Platone.

Si conosce da tutti la necessità della tempestività risoluta necessaria ai governanti. Ma già cinque secoli fa il Machiavelli, commentando e suggerendo l’antico pensiero di Tito Livio, metteva in risalto il valore della “imitazione” del passato e insegnava, anche a tal fine, in cosa doveva consistere la “virtù” del governante efficiente: saggio equilibrio di perspicacia dell’intelligenza. per comprendere ogni situazione, e di forza volitiva sicura, ma sempre suggerita e valutata dalla complessità dei problemi. Ma questo richiede il contributo di tutti. Da tutti, quindi, si richiede un momento di autocritica. Di primaria importanza, per esempio, è il ponderare le conseguenze possibili dell’uso attuale del voto segreto e del voto palese, in quanto i rischi cui si può incorrere non 6sembrano né pochi, né astratti, né lontani. Da una parte, infatti il voto segreto da espressione di responsabilità politica e da salvaguardia di libertà di coscienza e divenuto circostanza per l’esplosione d’inespressi risentimenti e occasione per la resa dei conti; il voto palese, dall’altra parte, da strumento legislativo condiviso, spedito e limpido è divenuto strumento di ricatto e di coercizione.

Tralasciando considerazioni d’altra natura, è innegabile che in questo modo risultano confusi i confini e stravolti i ruoli tra fedeltà politica e coscienza morale e si generano pericolosi equivoci avallati spesso da colpevoli silenzi. Non si tratta di sconfessare e capovolgere la secolare conquista di Machiavelli, rivendicando oggi l’autonomia della morale dall’egemonia della politica; si tratta di rinverdire con nuova linfa vitale la deontologia politica, cioè riscoprire le ragioni etiche, che danno senso all’azione politica, da parte di tutti i cittadini, ognuno nel ruolo che ha scelto o che gli è stato affidato. Sopravvalutare le ragioni della politica significherebbe valicare i confini dello stato etico: sarebbe utile, allora, meditare sulle circostanze e sui contenuti del “Manifesto degli intellettuali antifascisti”, scritto nel 1925 da Benedetto Croce. Sopravvalutare il ruolo delle esigenze del privato significherebbe assolutizzare gli egoismi, avversari d’ogni possibile azione veramente politica. Alcide De Gasperi – che seppe perché, quando e come dedicarsi alla politica e intuì quando e come uscirne - insegna che il politico è democratico quando possiede e pratica il “metodo democratico”, cioè quando cerca il dialogo e rispetta la deontologia propria della politica: un governante ottimo – ammonisce – rispetta i valori con fedeltà costante e grande coerenza. Queste, però, non un valore in sè e per sè, ma sempre agganciate a una scelta, che abbia valore in sé e che ne fondi la validità.

A battere un terreno più concreto ci indirizza Enrico Berlinguer, audace innovatore politico: “I partiti – dichiara già nel 1981 a Eugenio Scalfari - non fanno più politica, e questa è l’origine dei malanni d’Italia”. E Aldo Moro, martire per la coerenza, avverte: “Per fare le cose, occorre tutto il tempo che occorre” e raccomanda il rispetto del ruolo degli organi intermedi: “Il decentramento nella gestione degli interessi comuni – ammonisce - è uno strumento dell’avvicinamento del potere agli amministrati e dell’umanizzazione di esso come garanzia del suo retto fine”. Insegnamenti necessari anche nei nostri tempi. In momenti di particolare smarrimento ci soccorre comunque l’esperienza di Mahatma Gandhi: “Meglio un milione di volte sembrare infedeli agli occhi del mondo che esserlo verso noi stessi”.