Il Tempo, in sé fluire di momenti transeunti che vanno accolti, si apre a un "oltre" custode Eterno di valori trascendenti che vanno abitati. Vicende e realtà tendono alla suprema fusione nell'infinita Totalità, anima di ogni Speranza.

lunedì 5 gennaio 2015

"ELOGIO FUNEBRE DEL REGIME PARLAMENTARE”

Pubblicato da "Affari Italiani", Sabato, 8 novembre 2014

“Noi assistiamo alle esequie di una forma di governo”, disse il 19 dicembre 1925 al Senato, nel celebre discorso di rifiuto della legge sulle prerogative del Capo del governo, Gaetano Mosca giurista, politico, senatore e membro del governo Salandra. La riforma che veniva proposta era certamente compatibile, se si guardava alla lettera dello Statuto Albertino allora in vigore, ma la sostanza, che si voleva venisse approvata, era davvero preoccupante, in quanto si sanciva che i singoli ministri non dipendevano più dal Capo dello Stato (allora il re), ma dal Capo del Governo, e si stabiliva che lo stesso Consiglio dei Ministri da “organo collegiale” diventava “organo consultivo”.

Tutto il potere, pertanto, veniva riposto nelle mani del Capo del Governo, il quale creava i ministri, poteva destituire quelli in carica, poteva modificarne le deleghe, poteva attribuirsi le decisioni su questioni di reciproca competenza e aveva perfino il potere di stabilire l’ordine del giorno delle Camere. Il punto più enigmatico, tuttavia, era il problema della fiducia che doveva reggere il Capo del Governo: egli, infatti, restava al potere non solo al di fuori del volere delle Camere, ma persino al di fuori della volontà del Capo dello Stato (allora il re). Nel disegno di legge era scritto espressamente che il Capo del Governo veniva mantenuto al potere dal “complesso di forze economiche e politiche e morali, che lo hanno portato al Governo”. Era qui che si nascondeva l’ambiguità: chi erano quelle strane forze extraparlamentari tanto potenti da non essere soggette al parere neppure del Capo dello Stato. E Gaetano Mosca – maestro di Diritto, fondatore della Scienza Politica nelle università italiane, teorico della “classe politica” – diede voto contrario.

Annunciando il proprio voto contrario, Mosca avvertiva che nei fatti, sotto l’apparenza di strumenti presentati e caldeggiati come più adatti a un governo fattivo ed efficace, si stava cambiando un intero sistema di governo, che coinvolgeva e comprometteva diritti civili, equità sociali, doveri politici e persino valori morali d’una nazione intera già in piena crisi morale ed economica del dopoguerra. Cambiamenti probabilmente non solo opportuni, ma addirittura necessari. Ma erano proprio le motivazioni e le finalità, che si diceva voler perseguire mediante tale cambiamenti che richiedevano prudente valutazione della realtà presente e saggia previsione delle possibili conseguenze future. Egli riteneva che un rinnovamento esageratamente rapido e intempestivo era un “salto nel buio” dettato dall’impulso frenetico d’una “nuova generazione, che crede di sapere tutto e di poter tutto mutare”. Terminava, perciò, le sue parole – sempre dettate con stile dimesso e umile - dichiarando che sentiva come suo “forte dovere di ammonirla”.

Consapevole di alcune reazioni prevedili, Mosca volle raffigurare i sentimenti che lo animavano nel suo comportamento e nella sua decisione, ricordando all’Assemblea l’addio di Ettore ad Astianatte: il tragico epilogo omerico d’una virtù morale e combattiva.

Sono passati circa novant’anni: forse non pochi per rileggere la nostra storia, prendendo qualche utile lezione.

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