Il Tempo, in sé fluire di momenti transeunti che vanno accolti, si apre a un "oltre" custode Eterno di valori trascendenti che vanno abitati. Vicende e realtà tendono alla suprema fusione nell'infinita Totalità, anima di ogni Speranza.

venerdì 10 dicembre 2010

Per “ORIENTARSI” BISOGNA RAGIONARE O CREDERE?

Il problema dei rapporti tra ragione e fede, nella cultura dell’Occidente, costituisce un groviglio di molte difficoltà e si presenta come il nodo di molti problemi, che bisogna sciogliere, se si vuole tentare una qualche soluzione riguardo al significato pieno e ultimo dell’esistenza dell’uomo, che vive su questa terra solo per un periodo di tempo ben determinato. La difficoltà maggiore del rapporto ragione-fede nasce dal fatto che esso coinvolge molti aspetti e genera molteplici problemi, che s’intersecano tra di loro, quali, le tensioni fra filosofia e teologia, i contrasti tra scienza e fede, le relazioni tra ragione e rivelazione, fino alla allo stesso rapporto vitale tra la fede e il campo pubblico della politica, cioè tra lo Stato e la Chiesa.
Per orientarsi nella vita, cioè per individuare dove ci si trovi e per decidere dove si voglia andare e dove si possa giungere realmente, in altri termini, per capire il senso vero della propria esistenza e, di conseguenza, operare le proprie scelte di vita, si deve dare ascolto soltanto a ciò che suggerisce la ragione umana oppure ci si deve affidare alla fede, che chiede una piena fiducia in qualcosa o in qualcuno, che starebbe al di sopra di tutti e di tutto e che governerebbe le vicende dell’umanità e le sorti di tutto il mondo? Cioè, la ragione e la fede sono tra di loro alternative sino a stare addirittura in opposizione oppure s’incontrano in un “matrimonio d’amore e d’accordo”, grazie al quale è possibile cogliere la verità ultima sul senso della vita dell’uomo, in quanto si uniscono i risultati della lucidità della ragione (che tende a penetrare anche nei misteri della fede, per congiungersi con essi e realizzare una sempre maggiore pienezza di conoscenza) e le proposte del mistero della fede (che offre livelli superiori di conoscenza e chiede di rischiarare più vivamente anche le stesse acquisizioni della ragione)? Questo significherebbe che ragione e fede non solo non si oppongono, ma addirittura s’incontrano e collaborano almeno in tre momenti: cioè, quando la ragione si dispone per aderire consapevolmente alle proposte della fede, quando essa coopera all’interno della fede stessa, per appropriarsi del contenuto della fede medesima, e quando la luce della fede corrobora, conferma, amplia e completa ogni acquisizione della ragione. La questione fondamentale, allora, rimane quella di trovare e definire il modello della ragionevolezza della fede cristiana, per verificare se il credere alla predicazione cristiana sia un atto ragionevole, per cui anche la fede cristiana, perché venga accolta in conformità alla dignità della natura umana, esiga (da parte sua e per sua stessa natura) di essere prima pensata dalla ragione del credente. Per definire questo modello di ragionevolezza, è necessario dimostrare almeno due premesse: da una parte, che non esiste un modello di ragione unico ed esclusivo e, dall’altra parte, che la fede cristiana non può essere relegata nell’ambito esclusivo delle emozioni e dei sentimenti o anche accolta per una sua utile funzionalità sociale o per un qualche bisogno dell’anima umana, magari depressa e in cerca di consolazione.
In ogni caso, tra la voce della ragione e la voce della fede è necessario tentare di trovare una convivenza, forse difficile, ma comunque necessaria. Per meglio comprendere questa situazione, è opportuno ricordare un dato storico. Quando s’iniziò ad estendere il Vangelo fuori dal mondo ebraico, la fede cristiana s’incontrò con la cultura greca; e quest’incontro fu decisivo per la vita e la predicazione della fede cristiana. Infatti, I predicatori del Vangelo, a cominciare da san Paolo, quando annunciavano l’insegnamento di Gesù Cristo ai cittadini ebrei, si recavano nelle sinagoghe, cioè in luoghi di culto religioso; ma quando vollero rivolgersi ai cittadini greci, cioè a uomini pagani, dovettero andare nella “piazza” (nella agorà); quindi, i primi apostoli cristiani ebbero come interlocutore ebreo “il sacerdote”, ma come interlocutore pagano dovettero affrontare “il filosofo greco”, al quale essi proposero la loro fede in quanto “vera” e, perciò, meritevole della giusta attenzione e degna d’essere accolta da chiunque ricercasse la verità mediante la ragione, cioè l’unico mezzo di cui la natura ha dotato l’uomo. L’apostolo cristiano, allora, annunciava e proponeva una verità, che, in quanto tale, si poteva e si doveva affermare davanti a ogni essere ragionevole. Questo fatto storico assume ulteriore importanza, se si considera che il filosofo greco intendeva la filosofia come “un esercizio del pensiero, della volontà, di tutto l’essere, per cercare di pervenire a uno stato (cioè, la sapienza), che d’altronde era quasi inaccessibile all’uomo”.
Il ripensamento di questo fatto storico fa comprendere come ragione e fede non sono due capacità che si sommano tra loro e nemmeno investono due campi diversi e tanto meno opposti. Ciò significa che nella loro struttura ragione e fede non si giustappongono, ma è dall’interno di ciascuna di esse che si richiamano e si postulano reciprocamene. Infatti, se la fede (cristiana in questo caso) incontra la ragione, è anche vero che la ragione (la filosofia greca) incontra la fede. A meno che una delle due non voglia “autolimitarsi”, esse si integrano in un dialogo fecondo; ma, qualora una delle due volesse irrigidirsi in posizioni di superba autosufficienza, ne conseguirebbe un suo impoverimento, che la condannerebbe a inutile sterilità. Da questo chiarimento storico consegue, inoltre, che l’atto del credere è un atto ragionevole e non contro ragione: esiste, dunque, una profonda sintonia e una perfetta armonia fra ragione e fede umana. Questa è la grande intuizione di sant’Agostino, sulla quale egli costruisce la sua dottrina della conoscenza e dalla quale partirà anche la speculazione di san Tommaso d’Aquino.
In estrema sintesi, la domanda fondamentale che bisogna porre è questa: si può accettare che la ragione dell’uomo non verifichi la verità delle risposte che vengono date dalla fede ai grandi interrogativi, quali quelli del “da dove vengo” e del “verso dove vado”, e quelli etici circa l’esercizio della propria libertà? È questa oggi una domanda che non può più essere censurata; anzi esige una risposta urgente, data la situazione storica, in cui l’Occidente è venuto a trovarsi a causa dell’esaltazione o di una ragione mutilata di fede o di una fede mutilata di ragione, entrambe incapaci di risposte pienamente umane e, quindi, di un vero dialogo tra culture e religioni diverse, di cui oggi s’avverte un così urgente bisogno.
Scendendo sul terreno del concreto e delle proposte, non si può sottacere che uno degli ostacoli maggiori e più pericolosi è costituito dalla tenace arroganza di certe parti del mondo della scienza e della teologia di possedere solo esse l’unica indiscutibile verità. Da una parte, infatti, alcuni settori della ricerca scientifica vogliono imporre come indiscutibile ogni loro nuova conquista “sperimentale” senza alcun argine morale o implicanza etica; dall’altra parte, alcune concezioni teologiche esigono un assenso acritico, incondizionato e indipendente da ogni valutazione razionale. Invece, se, lungi dall’affidarsi a una presunta infallibilità dei “fatti” scientifici o dall’aggrapparsi a un’ostinata inviolabilità d’un’opinabile “trascendenza” prospettata come assolutamente indiscutibile, ci si affidasse alla piena e totale “razionalità umana”, forse gli uomini dialogherebbero veramente tra di loro e l’umanità non assisterebbe a così frequenti e cruente lotte, frutto di assoluta irrazionalità. Infatti, la piena e totale “razionalità umana” non è solo ragione e fede, ma è costituita anche da intuizioni e percezioni, da emozioni e sentimenti, da affetti e desideri, da delusioni e speranze, da paure e coraggio. Cioè, un insieme sublime di facoltà, che sostanziano la mirabile ricchezza dell’essere umano, fatto certamente per se stesso, ma aperto anche all’altro; amante di sé, ma bisognoso dell’altro; desideroso di “comandare” e d’intervenire nelle vicende del mondo, ma disposto anche a “ubbidire” ai principi che fanno vivere questo mondo stesso. Questo è il suggerimento d’ogni saggia, umana filosofia, che, sulle orme dell’antico “filosofo greco” Platone e del vecchio “filosofo cristiano” Agostino, indica nella “modestia” della ricerca filosofica della verità l’unica via per una vita individuale serena (se non felice) e una convivenza tra i popoli e le nazioni non belligerante (se non pacifica). Questa “modestia filosofica”, infatti, ricorda a ogni uomo che, per quanto grande e potente egli sia, rimane sempre un essere fallibile: tutte le sue facoltà sono certamente sublimi, ma anche fallibili e, quindi, continuamente ripensabili ed emendabili. E questo può realizzarsi solo grazie a una cultura fondata sul dialogo retto e sincero.