Il Tempo, in sé fluire di momenti transeunti che vanno accolti, si apre a un "oltre" custode Eterno di valori trascendenti che vanno abitati. Vicende e realtà tendono alla suprema fusione nell'infinita Totalità, anima di ogni Speranza.

domenica 26 ottobre 2008

LA VITA E’ UN “LUNGO SOGNO”

Arturo Schopenhauer, seguendo il pensiero di Kant, sostiene che la “realtà”, rimanendo sempre inconoscibile in sé, si rivela solo come rappresentazione del soggetto. Per questo diventa molto difficile distinguerla dal sogno. Scrive, infatti:

“Noi abbiamo sogni; non è forse tutta la vita un sogno? – o più precisamente: esiste un criterio sicuro per distinguere sogno e realtà, fantasmi ed oggetti reali? – L’addurre la minor vivacità e chiarezza dell’immagine sognata rispetto a quella reale non merita alcuna considerazione; dato che nessuno ancora ha avuto presenti contemporaneamente l’uno e l’altro per confrontarli, ma si poteva confrontare soltanto il ricordo del sogno con la realtà presente. Kant risolve cosí il problema: “Il rapporto delle rappresentazioni fra di loro secondo la legge della causalità distingue la vita dal sogno”. Ma anche nel sogno ciascun particolare dipende parimenti in tutte le sue forme dal principio di ragione, e questo si rompe soltanto fra la vita e il sogno e fra i singoli sogni. La risposta di Kant potrebbe, quindi, essere formulata cosí: il lungo sogno (la vita) ha in sé connessioni costanti secondo il principio di ragione, ma non le ha coi sogni brevi; sebbene ciascuno di questi abbia in sé la stessa connessione: fra questi e quello è dunque rotto il ponte, e in base a ciò si distinguono tra loro.
(...) L’unico criterio sicuro per distinguere il sogno dalla realtà è in effetti quello affatto empirico del risveglio, col quale in verità il nesso causale fra le circostanze sognate e quelle della vita cosciente viene espressamente e sensibilmente rotto.
(...) Calderon infine era preso cosí profondamente da questo pensiero, che cercò di esprimerlo in un dramma, che in un certo modo è metafisico: La vita è sogno.
Dopo tutti questi passi di poeti sarà concesso anche a me di esprimermi con una similitudine. La vita e il sogno sono le pagine di uno stesso libro. La lettura continuata si chiama la vita reale. Ma quando l’ora abituale della lettura (il giorno) è terminata e giunge il tempo del riposo, allora noi spesso seguitiamo ancora pigramente, senza ordine e connessione, a sfogliare ora qua ora là una pagina: ora è una pagina già letta, ora una ancora sconosciuta, ma sempre dello stesso libro. Una pagina letta cosí isolatamente è, invero, senza connessione con la lettura ordinata: tuttavia non rimane molto indietro a questa, se si pensa che anche il complesso della lettura ordinata comincia e finisce parimenti all’improvviso, e si deve, quindi, considerare solo come un’unica pagina piú lunga.
Anche se, dunque, i singoli sogni sono distinti dalla vita reale in quanto non entrano in quella connessione dell’esperienza, che costantemente continua per tutta la vita; anche se il risveglio rivela questa differenza; tuttavia è proprio quella connessione dell’esperienza che già appartiene, come sua forma, alla vita reale ed il sogno stesso mostra anch’esso una connessione, che si trova a sua volta in se stesso. Se, dunque, per giudicare scegliamo un punto di riferimento esterno ad entrambi, non troviamo nella loro essenza nessuna distinzione precisa e siamo, così, costretti a concedere ai poeti che la vita è un lungo sogno”. (A. Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione, I, 5).

Cos’è la realtà? Cos’è il sogno? Cos’è la vita? Tre domande che resteranno sempre senza una risposta certa. Ciascuno vede – e lo fa con estrema lealtà – la “sua” realtà e, se non intende oltrepassare i limiti dell’onestà intellettuale, non ne formula ipotesi interpretative, senza dubbio rispettabili, ma comunque prive di fondamento valido. Ciascuno elabora i “suoi” sogni, che, a differenza dei progetti, che sono qualcosa di inesistente che si vuol portare alla realtà (e, si solito, vengono partecipati ad altri senza alcuna remora), sono elaborazione positiva del proprio esistere (e, di solito, vengono tutelati all’ombra pudica del proprio lato intimo).
La vita, allora, è l’unione di realtà e sogno, cioè di razionalità umana (realtà) e di umanità integrale (sogno): la prima non deve soffocare la seconda, perché ne resterebbe annichilita la vita intera; la seconda non deve misconoscere la prima, perché ne uscirebbe gravemente mutilata la totalità dell’essere umano. Tutto – reale e sognato - è proiezione del singolo soggetto; ogni pretesa di possedere qualcosa come “reale oggettivo” è debolezza umana incapace di accettare e rimanere nei limiti umani; ogni tentativo o desiderio d’imporre ad altri il proprio modo di vedere è presunzione pericolosa, che oltraggia la libertà e la dignità della coscienza altrui.
I poeti definiscono la vita un “lungo sogno”. Parafrasando Schopenhauer, noi diremo che la vita è un libro unico, più o meno voluminoso, composto da tante pagine, sulle quali vengono scritte tante vicende “reali” e “sognate”: belle e brutte, felici e tristi, volute e fortuite. Le pagine, se lette isolate, perdono il proprio senso vero, autentico e compiuto; ma acquistano tutto il loro significato nell’ essere lette e intuite nel loro insieme. Così è la vita umana: è realtà d’ogni momento programmato e vissuto, ed è, insieme, sogno d’ogni istante covato e protetto. Il loro intrecciarsi tessono la vita d’ogni uomo, che sappia e voglia leggere l’intero volume della sua esistenza, con coraggio e senza paura di riconoscere e abbracciare l’intera sua scrittura.

mercoledì 22 ottobre 2008

L’UOMO E IL TEMPO: RAPPORTO DIALETTICO O SINCRONICO

Il tempo scorre, o meglio, fluisce. Ma non passa. Ora, lo scorrere e il fluire del tempo sono evidenze così forti che non necessitano di alcuna dimostrazione e, del resto, s’impongono come realtà così solide che non possono essere mai oggetto né di dubbio né di contestazione. Tuttavia, tentare di definire che cos’è il tempo (che non passa, ma che, comunque, scorre e fluisce) sembra impresa non solo difficile, ma addirittura impossibile. Lo stesso Agostino d’Ippona confessò di sapere molto bene cosa fosse il tempo, ma di essere assolutamente incapace di spiegarlo, appena ne fosse richiesto.
In una prospettiva negativa, si potrebbe dire che il tempo è l’insieme delle tre dimensioni del ”non-esserci” o, se si vuole, del “nulla”, cioè del passato, del presente e del futuro. Il passato, infatti, non c’è più; il futuro non c’è ancora; e il presente è l’attimo fuggente, nel quale il futuro “scorre” o “fluisce” nel passato. Il presente, quindi, è il passaggio - cioè, lo “scorrere”, che noi definiremmo meglio l’inarrestabile precipitare - della dimensione del “desiderio” nella buia voragine della dimensione della “memoria”. Una prospettiva negativa, questa, che apre le porte all’angoscia e alla disperazione; ma una prospettiva comunque razionale, che, consapevolmente o meno, viene teoreticamente accolta da non pochi pensatori, e viene praticamente fatta propria da numerosi uomini di età anche piuttosto giovane.
In una prospettiva positiva, il tempo è la solida realtà costruita e strutturata dall’operosa razionalità degli uomini. Ciò nonostante, anzi proprio per questo, il tempo chiede e pretende sommo rispetto da parte degli uomini. E’ l’uomo, infatti, che intesse e struttura la sostanziale realtà del tempo; ma, se egli, simultaneamente, non lo rispetta nel suo inarrestabile scorrere, perde inesorabilmente la propria battaglia. L’uomo, allora, non avanza e non cresce, anche se, paradossalmente, s’illude che questa sua non-crescita siano prudenza fruttuosa e saggezza pratica, grazie alle quali egli ritiene di dominare e governare il tempo. E non s’accorge, invece, – o non vuole riconoscere e accettare – che il tempo scorre e fluisce sempre e comunque, e che è lui che ne rimane schiacciato e annichilito. Senza sincronia con il tempo l’uomo rimane ombra senza significato, che o girovaga nei meandri d’un passato che ormai non incide per nulla nella storia, oppure volteggia nelle sfere eteree d’un futuro sempre vagheggiato come oggetto di pura speranza. In entrambi i casi egli non è che un leggero fuscello passivamente trascinato dalla corrente d’un fiume ora calmo ora irruente, ma in continuo movimento. E va avanti così, vivendo nella perenne illusione di condurre un’esistenza viva, valida e potente. L’uomo autentico, invece, vive rimanendo nel tempo, anche se non si riduce mai a un momento del tempo.
Il tempo – e Immanuel Kant ne è uno dei sommi cantori – non è un qualcosa di esterno all’uomo, in cui egli deve vivere e operare, ma è la struttura costitutiva dell’esistenza stessa dell’uomo. La vita umana, quindi, è tempo; la vita di ciascun uomo coincide con il “suo” tempo: e la vita è sempre il presente, che simultaneamente vivifica anche il passato e porta in vita il futuro. Se la vita è presente, non è, però, attimo destinato a “passare”, bensì momento, che s’estende in quel perenne fluire, che comprende ogni dimensione reale: il tempo è estensione illimitata e profonda e, nello stesso tempo, profondità che s’estende sino ai confini dell’infinito. Il tempo è vita, così come la vita è tempo: simultaneità d’ogni dimensione esistenziale.
Non è di particolare interesse – dal nostro punto di vista - conoscere o verificare se il tempo abbia una dimensione oggettiva, che, comunque, non sembra fuori posto accogliere come ipotesi interpretativa o come opportunità pratica. E’ indiscutibile, ad esempio, che, quando due o più persone cominciano a vivere insieme, sorge la necessità di un mezzo convenzionale di misurare il tempo, che permetta a ogni individuo di partecipare con razionalità e coerenza alla vita sociale del gruppo; senza una misura ‘oggettiva’ di tempo, quindi, nemmeno la società umana può esistere; ma senza la società umana non esiste civiltà; la misura oggettiva del tempo, allora, condiziona lo sviluppo stesso di una civiltà.
E’ da tutti condivisibile, però, che il tempo è un’impressione soggettiva e personale, per cui l’uomo ha coscienza del tempo. In questa prospettiva, pertanto, il senso della vita umana e il tempo coincidono: il segmento d’ogni esistenza umana, cioè, comprende un ben delimitato periodo di tempo, che “fluisce” nell’indeterminato “scorrere” del divenire cosmico. Incessante perfetta autonoma sincronia, che concretizza e compie l’essere di tutta l’umanità e di tutto il mondo: Il divenire della vitalità del cosmo, l’evoluzione dell’intero regno dei vegetali e degli esseri senzienti, il lento modificarsi biologico del corpo umano, la maturazione della coscienza degli uomini grazie all’esperienza individuale e collettiva, l’arricchimento e la crescita globale della qualità d’ogni forma di vita fino all’approssimarsi della consumazione del tempo. Evoluzioni, maturazioni, crescite che scorrono e fluiscono, ma non passano. Basta estendere a tutta la realtà la bella immagine, con la quale Francesco Bacone raffigura la realtà del cammino della scienza: ogni segmento temporale è un minuscolo nano seduto sulle spalle di un gigante.
Ci sembra questa l’essenza della contemporaneità autentica: non il vivere nello stesso periodo di tempo, bensì il pulsare simultaneo la medesima totalità della realtà dell’uomo e del mondo. Contemporaneità significa identità in empatia di idee, di pensieri, di sentimenti, di nostalgie, di speranze, di progetti, di sogni. Insomma, di desideri. Il ritorno al fascino del desiderio è uno degli elementi chiave della felicità, poiché il desiderio è ciò che ci attrae oltre a noi stessi; è voler ottenere qualcosa che non abbiamo, voler conoscere cose ancora sconosciute, entrare in relazione con l’inedito della vita. Il desiderio è aspirazione a un crescere illimitato: cioè, è fluire e scorrere della vita vivente.
Popoli ‘contemporanei’ sono, dunque, quelli sospinti dalla medesima sincronia di valori e di finalità; e civiltà ‘contemporanee’ sono quelle animate dai medesimi pensieri e dal comune sentire. Anche per la vita dei popoli e delle civiltà, contemporaneità è condivisione sincronica in perfetta empatia.
Massima espressione e realizzazione di questa “sincronia totale” è insita nelle scelte vere di “amore” tra gli uomini, e tra gli uomini e la natura. Sincronia d’amore significa assoluta assenza d’ogni elemento anche di egoismo e di altruismo. Egoismo e altruismo sono situazioni contaminate da estraneità e da dualità; sincronia, invece, è identità che intona e canta inni di sublime intimità umana. Nell’egoismo e nell’altruismo si nascondono (o possono nascondersi) secondi fini spesso camuffati da sollecitudine e generosità; nella sincronia c’è solo fusione totale, che, se raggiunta, niente e nessuno potrà mai più né deturpare né scindere, poiché è fusione reciproca, che coinvolge il complesso essere umano: corpo, sentimenti, parole, pensieri. Per questo dovrebbe stare alla base d’ogni relazione anche della società.
Il tempo, inteso e vissuto secondo queste dimensioni, consente all’uomo di penetrare e intuire il mistero dell’animo umano sia come individuo singolo sia nelle relazioni interpersonali. La dimensione più intima dell’uomo è inattingibile; ma non quando l’uomo è capace di raggomitolarsi su se stesso in profonda intensa penetrazione del suo esistere. Allora vivrà la sincronia con il Tutto: assaporerà (forse) l’acre sapore dell’amara sofferenza sempre mista alla dolce essenza di felicità nascosta. E’ una profonda comunicazione silenziosa, ma totale, di sé a se stessi. E’ il vero tempo esistenziale: momento in cui si pensa solo a se stessi, in cui si vive il proprio passato e il proprio futuro, ma nell’attimo del presente. Infatti, ciò che è stato fatto rimane integro e reale nel presente, e ciò che si progetta per il futuro è il contenuto del desiderio. Il tempo sincronico è, quindi, tempo di pieno autopossesso concreto: non c'è spazio per estraneità e nemmeno per dualità; c’è posto solo per le dimensioni dell’amore vero, cioè per ogni realtà che s’è fusa in unità inscindibile, sempre inviolata da qualunque forma di distinzione egoistica o di sublimazione altruistica. Nel rapporto sincronico con il tempo non ci sono realtà che s’oppongono e si superano, come accade nel rapporto dialettico, ma realtà che s’uniscono e si fondono in dimensioni di mistero intuibili solo dalle anime coraggiose e coerenti. Nel rapporto sincronico con il tempo l’uomo compie salti contro ogni ragione, ma secondo la totalità del cuore; decide scelte contro ogni buon senso, ma secondo l’integra totalità dell’animo. Salti audaci e felici, scelte avventate e fortunate, speranze senza confine e talismano sincero.
Il tempo, allora, è un’impressione soggettiva e personale; la sincronia è empatia totale e incondizionata. Il rapporto sincronico dell’uomo con il tempo è il rapporto che realizza il senso dell’esistenza e dà ragione al fluire dell’intero cosmo.

martedì 7 ottobre 2008

C'è FUTURO PER LA RIVOLUZIONE PROMESSA? QUARANT'ANNI DOPO IL '68.

Sta per concludersi l’anno 2008: anno che ha visto pubblicazioni, dibattiti, forum e persino “festival del pensiero” sul significato e l’eredità dell’ormai piuttosto lontano 1968, di cui s’è voluto “commemorare” la ricorrenza del quarantesimo anniversario.
Si rimane alquanto impressionati dal fatto che i maggiori e più assidui protagonisti di tutto questo fermento di opinioni e discussioni – talora fondate e ben articolate, talora suggestive ed astratte, talora fuorviate da preconcetti e ideologie – siano stati donne e uomini ora ultrasessantenni, e allora, quindi, più o meno ventenni. Sembra anche particolarmente significativo il fatto che quasi tutti questi protagonisti dei mezzi di comunicazione occupino attualmente posti di rilievo nei campi della politica, dell’economia, dell’accademia: insomma quelli che in genere sono considerati posti di comando e di governo: destinati, cioè, a imprimere la direzione alla storia dell’uomo e a irrompere nel corso della stessa natura biologica e fisica. Posti di governo, ovviamente, e non di potere! Almeno così s’affannano a puntualizzare. Cioè, posti di servizio verso l’uomo e la natura e non di dominio e di sfruttamento, di spirito di solidarietà umana e sociale e non di tatticismo di gestione aziendale e finanziaria.
Si tralascia di avanzare considerazioni nei confronti del mondo delle religioni: voluminosi compendi di articoli di fede proposti e più spesso imposti; strutture granitiche di chiese saldamente organizzate spesso in atteggiamento di autodifesa; dialogo da tutte ostentato, ma da quasi nessuna desiderato e tanto meno realizzato; connubi ibridi con i vari poteri dominanti, ovviamente - almeno a loro dire - al fine di “salvaguardarli” dall’errore e “guidarli” per la strada giusta. Tutto, certamente, nella fedeltà allo spirito della loro specifica vocazione e della loro peculiare missione, ma anche in conformità alla concretezza quotidiana imposta loro dalla necessità di agire nel tempo e nella storia; anche se non sempre, forse, hanno difeso, garantito e testimoniato le priorità vere dell’integralità delle dimensioni della persona umana. Si tralascia questo discorso, in quanto si oltrepasserebbero i limiti dell’antropologia e della sociologia e si sfonderebbe nel labirintico terreno della teologia e dell’etica. E il nostro interesse, invece, rimane sul più modesto e concreto campo dell’uomo storicamente vivente nelle proprie particolari irripetibili dimensioni individuali, che sono – almeno per noi - la più pressante urgenza per l’esistenza dell’uomo.
A questo livello il movimento del ’68 è stato l’intrecciarsi di almeno tre rivoluzioni: della coscienza, dell’economia e della politica. Il loro insieme ha determinato un vasto e profondo mutamento culturale: si eliminano alcune umilianti differenze tra esseri umani partecipi della stessa natura. Le donne, infatti, possono disporre della propria intelligenza e del proprio corpo, ponendoli al servizio delle finalità oggettivamente assegnate loro anche dalla natura e dalla storia; i lavoratori, poi, possono aprire bocca e rivolgere la parola al “padrone” non solo per il dovuto servile ossequio, ma anche per esprimere la propria idea e rivendicare alcuni loro diritti fondamentali; tutti i cittadini, inoltre, ottengono l’esercizio del diritto alla salute del proprio corpo e della propria mente, passando dal ruolo di “pazienti” ubbidienti al ruolo di soggetti attivi, degni d’essere informati e capaci anche di decidere secondo la propria scienza e coscienza sul destino reale della propria vita.
La parola magica, poi, fu: “I segni dei tempi”. Anche le culture più conservatrici si piccavano d’ostentare la loro capacità d’interpretare i segni dei tempi e di muoversi secondo le nuove esigenze storiche da essi dettate. Il tempo e la storia, intessuti dall’azione dell’uomo, erano ora realtà che l’azione dello stesso uomo poteva e doveva orientare con ragionevolezza. Non erano, quindi, la morsa che attanagliava l’uomo e lo determinava in ogni suo pensiero e in ogni sua azione, né d’altra parte l’uomo era il titano che abbaiava meschinamente alla luna delle necessità storiche. Nasceva il dialogo tra la storia e la libera scelta dell’uomo, che doveva decidere, all’interno delle concrete proposte della storia, quale itinerario intraprendere e quali ulteriori obiettivi raggiungere, sia a livello individuale e sia anche collettivo, essendo egli attore del suo destino e coattore delle vicende dell’intera umanità.
Il ’68, quindi, voleva scardinare i rapporti, su cui si fondavano le strutture sociali, economiche e morali della vita borghese del tempo. Anche se poi, nella realtà dei fatti, ci fu una sostanziale restaurazione del vecchio in ogni parte, tanto in ovest che ad est. Non è difficile riscontrare ed elencare nomi di persone, che divennero poi uomini di governo. Ma non è nemmeno difficile riscontrare ed elencare nomi di persone, che divennero uomini di potere, spesso contro i diritti conquistati proprio dal movimento culturale del ’68. E che contribuirono a ricreare una “situazione di guerra”, polemizzando contro tutto e contro tutti indiscriminatamente. Essere polemico, infatti, significa andare contro qualunque cosa o persona s’incroci nella propria strada o si presenti nella propria vita, e che rivendichi - con legittima e doverosa esigenza personale - una propria identità. Il polemico non riconosce e non accetta qualunque diversità, perché la vede un pericolo mortale contro la sua smania di omologazione, che diventa spesso mania d’onnipotenza. Chi fa sempre polemica, in sostanza, è un “idiota”: capace di vedere solo se stesso e tutto ciò che gli somiglia, e incapace di riconoscere le infinite diversità, che, se accettate, lo farebbero non solo più ricco e più bello, ma soprattutto più uomo. La natura dell’uomo, infatti, sembra essere aperta all’indefinito, per cui non possono esserci realtà, per quanto diverse, che potrebbero impoverirlo e limitarlo. Chi si apre alla diversità accresce se stesso e tutti gli altri.
Intristisce l’animo, poi, il vedere come la negazione delle diversità e il perseguimento dell’omologazione a tutti costi – cioè esattamente il contrario della rivoluzione tentata e iniziata dal movimento del ’68 - vengano fatti in nome d’un diritto e d’un’etica sociali fondati sulla “democrazia” e sulla “economia” d’ultima generazione: quelle, cioè, che riconoscono come unico valore reale il libero mercato per le concentrazioni economiche e l’accumulo di capitali. Nascono le società, allora, nelle quali tutto ha un prezzo, ma nessun valore. E la persona umana perde ogni dimensione di reale dignità, divenendo un pezzo di una struttura produttiva, vero fine e senso del vivere dell’umanità. Alla massa si sostituisce l’individuo: ed è difficile stabilire quale delle due ideologie sia più nemica dell’uomo.
Ecco, allora, la domanda che ci poniamo: c’è un futuro per la rivoluzione promessa? E non sembra estemporaneo ricorrere alla fiducia razionale che affonda le sue radici nel messaggio morale ed etico di Immanuel Kant: l’ideale, in quanto ideale, non potrà mai trovare ospitalità nella vita reale, perché il suo senso è di rimanere nel cielo del possibile raggiungibile; la realtà, d’altro canto, non può affidarsi al gioco di presunte mani invisibili, ma deve mirare a realizzare consapevolmente e il più possibile il senso dell’ideale, che indica la direzione della giustizia e della libertà.
Fuori da questa speranza fondata sull’umana ragione, è molto difficile trovare fiducia per un futuro che voglia dirsi ed essere degno della dignità dell’uomo.