Il Tempo, in sé fluire di momenti transeunti che vanno accolti, si apre a un "oltre" custode Eterno di valori trascendenti che vanno abitati. Vicende e realtà tendono alla suprema fusione nell'infinita Totalità, anima di ogni Speranza.

martedì 22 gennaio 2008

Grandezza dell'umana fragilità

Insicurezza, incertezza, dubbio; inquietudine, ansia, sofferenza: realtà non tanto da comprendere quanto da accogliere nel quotidiano scorrere del proprio vivere; inesorabile avvicendarsi di modi dell’esistenza. All’inquietudine subentra spesso un’irragionevole tranquillità, all’ansia segue una spavalda tranquillità, tra le sofferenze s’insinua stranamente un’improvvisa sicurezza, che rasenta un’incosciente apatia.

Diversità e contraddizioni che non si fanno spiegare facilmente, ma che inesorabilmente scandiscono gli attimi della via dell’uomo. L’uomo che si crogiola interiormente, ma vuole (e talora deve) apparire agli altri privo d’ogni problema; che soffre, ma si mostra pieno di esaltante felicità; che barcolla miseramente, ma che ostenta saldezza d’idee e tenacia di animo.

Sentimenti di simpatia cordiale e di antipatia totale; di amore profondo e di odio rancoroso; di generosità coraggiosa e di invidia incomprensibile; di solidarietà testimoniata e di egoismo meschino. Passioni di umiltà sorprendente e di superbia delirante; di lussuria estrema e di purezza angelica; di donazione ineffabile e di individualismo impressionante.

Ecco l’uomo: così semplice e così complesso, così chiaro e così misterioso, così ricco e così miserabile, così grande e così meschino.

Anziché accogliersi e accettarsi, preferisce sentirsi problema e spiegarsi. Sciupando l’intenso sapore della realtà umana, che è l’insieme meraviglioso di tante diversità, talora anche contraddittorie, ma sempre ugualmente esaltanti.

lunedì 21 gennaio 2008

Inquietudine

Insicurezza o, in verità, “male metafisico” (usando i termini agostiniani, cioè dolorosa esperienza dei suoi limiti, strazio spasimante per l’impotenza propria della natura umana)? Oppure, piuttosto, rifiuto profondo, se non addirittura rigetto inconsapevole, della natura umana nel suo imporsi realistico durante l’intero corso dell’esistenza individuale? E, quindi, l’inquietudine: lo stato d’animo generato dalla necessità ineludibile d’accettare il tormentoso “male metafisico”.

Orrore del proprio limite; angoscia di dover convivere sempre con il non-concluso, con il contingente, con il non-previsto. Incapacità di non gestire le proprie scelte, anzi di non poter mai essere certi della direzione della vita e della storia. Necessità di soccombere alla concatenazione dei fatti, che sfuggono, così, al nostro controllo, e talora non prefigurano alcun esito o alcuna finalità.

Facile etichettare questo stato d’animo in termini “psicanalitici”; difficile, invece, confessare che si tratta di un vero tremore metafisico, il quale, facendo prevalere i nostri sentimenti di fragilità, scatena quasi un orrore per il limite naturale dell’uomo e ci fa fuggire lontano da noi stessi, cercando altri “spazi reali” creati dalla ragione e dalle sue capacità dimostrative.

La conclusione agostiniana, però, non è una costruzione della ragione umana: l’essere umano, finito e contingente, troverà l’appagamento del suo bisogno di infinitudine e d’assolutezza, nell’Essere infinito e assoluto. Questo, però, conclude un itinerario, non spiega nè dà ragione al tormentoso suo realizzarsi: l’attesa dell’Assoluto può, veramente, generare tormenti di insicurezza di tremore esistenziale?

domenica 20 gennaio 2008

L'insicurezza

L’insicurezza è uno dei compagni inseparabili dell’essere umano: essere razionale e mortale. Nasce insieme a lui; e insieme a lui vive sino all’ultimo istante di vita.

Essa può essere la nemica dell’entusiasmo nel pensiero e nell’azione dell’uomo; ma può essere anche uno dei migliori suoi consiglieri, che lo guidano per la via della prudenza e della saggezza. In ogni caso è, comunque, causa di disagio diffuso e fonte di sofferenza continua e profonda.

Lo stato esistenziale della vita umana è “contingenza”: contingenza, però, che in sé non è né incertezza né dubbio. Dal momento della sua nascita, l’uomo esiste e vive: catapultato in una realtà a lui ignota e, quindi, contingente, egli deve affrontare un viaggio attraverso vicende che lo “sommergono” in una fittissima rete di rapporti e relazioni necessariamente contingenti, siano essi particolari che universali. Ogni uomo deve dire a se stesso: “Mi scopro esistente, ma intuisco benissimo che avrei potuto non esistere; e così, non so se, d’ora in poi, potrò decidere di continuare a esistere oppure di cessare d’esistere”.

L’insicurezza s’insinua in ogni angolo dell’animo umano; e s’insinua sempre, senza alcuna interruzione. L’uomo, evocato dal suo “nulla” con un atto cui lui non ha minimamente partecipato, si ritrova in situazioni assolutamente imperscrutabili: non gl’importa se sia stato un momento d’evoluzione o di creazione; egli non si rassegna a rimanere mistero a se stesso. Messe da parte le risposte, che gli hanno suggerito tante volte e spesso anche autorevolmente, in conformità alle profonde esigenze del suo spirito razionale e libero, sfidata e vinta ogni tentazione di paura o d’angoscia, dominato ogni senso di panico, dà l’avvio a un duro e delicato cammino di ricerca, durante il quale spera possa approdare a qualche conclusione “umana”.

Emerso dal suo nulla, s’intuisce tuttavia connotato da alcuni caratteri, che lo individuano e lo identificano: si sente uguale solo a se stesso; diverso da tutto e da tutti; solo, con un suo compito esclusivo, che solo lui può realizzare. Unico; ma non isolato; con una missione esclusiva che solo lui deve e può attuare, ma immerso in un ordine cosmico, di cui si sente parte e, quindi, necessitato a unirsi in una totalità, che tutto attua, proprio mentre conserva l’irripetibile individualità delle singole parti. Un’unità totale che non nega, anzi, richiede le unità particolari: non in nessi dialettici, ma in relazioni di storico realismo e di esistenziale operosità.

Ecco l’intimo “dramma” dell’uomo. Nelle vicende della sua vita non può e non deve avere sostegni necessari, ma ne sente il bisogno; né saprebbe chi e che cosa potrebbe essere un “sostegno” vero e costruttivo. Ragiona e parla; razionalizza e urla; si chiude e precipita nel dubbio; si arrende e lo assale una tragica malinconia, che distrugge le radici del suo vivere; si stanca e dispera; piange e riprende a pensare.

Evita, però, sempre e comunque, di ridursi alla banalità, perché la vita (cioè il tempo) passa, ma lui non vuole “passare”. Non perché ha paura di ritornare nel suo “nulla”, ma perché si sente fatto per la vita che dura e non finisce mai, che non finirà mai. Ecco perché vuole vivere il Tutto: per rimanere con e nel Tutto.

Rimane sempre presente, però, l’insicurezza: compagno inseparabile dell’uomo. Compagno bello, proprio perché costitutivo della natura dell’uomo.

martedì 15 gennaio 2008


Herbert Marcuse in Eros e Civiltà, nella Prefazione politica 1966, scriveva:

Eros e Civiltà: con questo titolo intendevo esprimere un’idea ottimistica, eufemistica, anzi concreta, la convinzione che i risultati raggiunti dalle società avanzate potessero consentire all’uomo di capovolgere il senso di marcia dell’evoluzione storica, di spezzare il nesso fatale tra produttività e distruzione, libertà e repressione – potessero, in altre parole, mettere l’uomo in condizione di apprendere la gaia scienza (gaya ciencia), l’arte cioè di utilizzare la ricchezza sociale per modellare il mondo dell’uomo secondo i suoi istinti di vita, attraverso una lotta concertata contro gli agenti di morte. Questa visione ottimistica si basava sull’ipotesi che non predominassero più i motivi che in passato hanno reso accettabile il dominio dell’uomo sull’uomo, che la penuria e la necessità del lavoro come fatica venissero ormai mantenuti in essere “artificialmente”, allo scopo di preservare il sistema di dominio. Allora avevo trascurato o minimizzato il fatto che questi motivi ormai in via di estinzione sono stati notevolmente rinforzati (se non sostituiti) da forma ancora più efficaci di controllo sociale. Proprio le forze che hanno messo la società in condizione di risolvere la lotta per l’esistenza sono servite a reprimere negli individui il bisogno di liberarsi. Laddove l’alto livello di vita non basta a riconciliare le genti con la propria vita e con i propri governanti, la ‘manipolazione sociale’ delle anime e la scienza delle relazioni umane forniscono la necessaria catarsi della libido. Nella società opulenta, le autorità non hanno quasi più bisogno di giustificare il dominio che esercitano. Esse provvedono al continuo flusso dei beni; esse provvedono a che siano soddisfatte la carica sessuale e l’aggressività dei loro soggetti; come l’inconscio, il cui potere di distruzione esse personificano con tanto successo, esse rappresentano insieme e il bene e il male, sicchè il principio di contraddizione non trova alcun posto nella sua logica”
(Prefazione politica a Eros e civiltà, pubblicata per la prima volta su “Nuovo Impegno”, anno II, n. 8, Pisa, maggio-luglio 1967, traduzione di Domenico Settembrini (noi citiamo dalla edizione Einaudi del 1964, pp. 33-24).

Il Marcuse prevedeva, o comunque si augurava, ottimisticamente (ma forse ingenuamente) che strutture sociale, istituzioni politiche e organizzazioni governative - che il mondo “civile” si andava costruendo sulle basi di concezioni liberistiche, animate, quindi, dall’unico “parametro valoriale” dell’economia di mercato – contenevano in sé qualche potenzialità di accrescimento di civiltà e d’ incremento di valori umani. Quasi si potesse sperare che condizioni economicamente più ricche si traducessero in situazioni umane più degne e a più reale dimensione dei fondamentali diritti personali.

Noi dubitiamo che si potesse nutrire ancora una simile speranza anche come possibilità eventuale. Soprattutto dopo quello che Jacques Maritain aveva scritto già nel 1936 e che confermerà proprio nel 1966, quando il Marcuse dettava le idee riportate sopra.

Il filosofo francese, infatti, nell’Umanesimo integrale (1936), dopo l’acuta analisi del mondo contemporaneo e nella prefigurazione di un futuro possibile per la futura umanità (condotte ovviamente dal suo punto di vista di “credente” e di neotomista, ma non per questo meno indicative), scriveva:

“C’è un ‘uomo vecchio’ da distruggere. E quale è quest’uomo? E’ l’uomo ‘piccolo borghese’, l’uomo del liberalismo borghese (…). Come, dal nostro punto di vista, potremo caratterizzarlo? (…). Tutta una metafisica idealistica e nominalistica è al fondo del suo comportamento. Di qui, il mondo da lui creato, il primato del segno: dell’opinione nella vita politica, del denaro nella vita economica. Quest’uomo borghese ha negato tutto il male e l’irrazionale in lui, in modo da poter gioire della testimonianza della propria coscienza, da essere contento di sé, giusto per se stesso. Egli prende dimora, così, nell’illusione e nell’inganno d’una falsa coscienza di sé nominalistica. Fa, d’altra parte, grande uso di moralismo e di spiritualismo, è animato da una devozione, spesso sincera e ardente, verso verità e virtù d’ordine naturale, ma le vuota del loro contenuto prezioso e le rende in qualche modo mitiche (…).

Quest’uomo borghese, che dispiace alla coscienza cristiana quanto alla coscienza comunista, il comunismo vuol mutarlo meccanicamente e dal di fuori, con mezzi tecnici e sociali (…). E per ciò aggredisce non solo quest’uomo borghese, ma l’Uomo nella sua stessa natura e nella sua dignità essenziale (…). Checché ne sia delle correzioni arrecate alla teoria per necessità di vita, la teoria conduce a fare dell’uomo una semplice energia della vita comune, perché, per la filosofia marxista, ogni valore trascendente, qualunque esso sia, è legato allo sfruttamento dell’uomo da parte dell’uomo."

(Umanesimo integrale, trad. it., Borla, Milano 1973, pp. 118-125).

Nel 1966, il medesimo Jacques Maritain, scrivendo Il contadino della Garonna, premetteva alcune pagine, nelle quali esponeva i motivi essenziali che invitavano – a suo modo di vedere – ad esultare grazie alle immense concrete conquiste che la Chiesa Cattolica e l’Umanità intera aveva realizzato grazie alla celebrazione delk Concilio Ecumenico Vaticano II. Tra l’altro scriveva:

“Si esulta al pensiero che è stata proclamata la libertà religiosa. Ciò che così si chiama non è la libertà che io avrei di credere o di non credere secondo le mie disposizioni del momento e di crearmi arbitrariamente un idolo, come se non avessi un dovere primordiale verso la Verità. E’ la libertà che ogni persona ha, di fronte allo Stato o a qualsiasi potere temporale, di vigilare sul proprio destino eterno cercando la verità con tutta l’anima e conformandosi ad essa quale la conosce, di ubbidire secondo la propria coscienza a ciò che ritiene vero riguardo alle cose religiose (la mia coscienza non è infallibile, ma io non ho mai il diritto di agire contro di essa)”
(Il contadino della Garonna, trad. it., Morcelliana, Brescia 1969, p. 11).

Sono passati circa quaranta anni: e forse le dottrine sia marxista che cattolica potrebbero avere bisogno di una rivisitazione di questi testi, magari con il supporto della breve ed incisiva opera di Tommaso d’Aquino Breve trattato dell’esistenza e dell’esistente, commentato dal Maritain e pubblicato dalla Editrice Morcelliana.

L’uomo contemporaneo potrebbe riscoprire i doveri che gli provengono dalla sua irrinunciabile ed inalienabile responsabilità storica.

INVOLUZIONE DI UN CONCETTO E CORRUZIONE DI UNA PRATICA

Per “Politica” si è intesa – sin dalle culture più antiche – una concezione di indiscusso contenuto etico, generalmente appannaggio di persone probe e di chiara moralità anche privata.

Di conseguenza, la pratica della “Politica” era pensabile solo come attività da affidare solo a delle personalità capaci di “guidare” la “città” soprattutto grazie al patrimonio morale della loro vita coerente ed onesta, tale da essere esempio a tutti e, massimamente alle nuove generazioni: la politica era, quindi, la maestra e l’educatrice dei popoli e dei singoli, che apprendevano così le tradizioni virtuose e i valori fondamentali mirati alla reciproca crescita globalmente umana.

Tali personalità, ovviamente, venivano richieste di dedicare un po’ della loro vita alla cosa pubblica: ed esse accettavano coerentemente ai loro principi di “servizio”. Mai avrebbero rivendicato un proprio “diritto di fare politica”, e tanto meno di costituire una “classe politica” esperta e capace.

Dopo il servizio “regalato” alla propria comunità, si ritiravano senza nulla pretendere, soddisfatti solo di “aver fatto politica”: e così contenti, assistevano alla vita pubblica della loro “città” guidata da altre persone ugualmente idonee e disponibili a “regalare un pò della loro vita alla cosa pubblica: ed esse accettavano coerentemente ai loro principi di servizio”.

Chissà su quale pianeta sono andati a finire questi uomini veri, destinati dalla storia a vivere in tempi in cui era possibile una vita umana e sociale veramente a dimensione d’uomo!