Il Tempo, in sé fluire di momenti transeunti che vanno accolti, si apre a un "oltre" custode Eterno di valori trascendenti che vanno abitati. Vicende e realtà tendono alla suprema fusione nell'infinita Totalità, anima di ogni Speranza.

lunedì 1 gennaio 2007

IL "SOGNO" DI GIOVANNI KEPLERO - PROGETTARE UN MONDO REALMENTE POSSIBILE


INDICE
NOTA BIOBIBLIOGRAFICA

CAPITOLO PRIMO
Dall'Astronomia Nuova all'Armonia del mondo: uno stesso ordine governa cosmo e umanità
CAPITOLO SECONDO
Il Sogno ovvero Astronomia della Luna: L'astronomia tra fisica celeste e filosofia politica
CAPITOLO TERZO
Keplero e il suo tempo: Politica e Società, Cultura e Scienza
CAPITOLO QUARTO
Realismo politico e utopia
APPENDICE
Traduzione del Somnium sive astronomia lunaris

SI PROPONGONO ALCUNI BRANI DEL LAVORO, CHE POSSONO MOSTRARE LA NATURA E IL PROGETTO DELL’OPERA:

PROEMIO DELL'EDITORE
Keplero, nella nota 2 al testo del libro che segue, espone le motivazioni per le quali negli anni precedenti si era dedicato all’osservazione e allo studio della Luna.
Nell’anno 1593, a Tubinga, scrisse alcune tesi ad uso di Besold, il quale, a sua volta, si assunse l’incarico di difenderle in una pubblica disputa di fronte a Vito Müller, allora preside e professore di lingua latina e greca. Di queste tesi di Keplero non è rimasta traccia; a meno che non si debba ritenere che esse siano state in parte trasferite nel Sogno, dal momento che egli stesso afferma che è stata sua scelta felice l’aver deciso di osservare le creature viventi sulla Luna già dal tempo della dissertazione scritta a Tubinga nel 1593, e di riportarne successivamente i risultati anche nell’Ottica e nella Geografia lunare (il Sogno). Risulta comunque assolutamente certo che Keplero, dopo aver compiuto i suoi primi tentativi in queste ipotesi e dopo averne avuto conferma dal Nunzio sidereo di Galilei, s’è dedicato all’astronomia lunare. Tutto questo è testimoniato dalle seguenti espressioni che noi leggiamo nella Dissertazione: “Quando ho riportato nell’Ottica (a pagina 287) l’opinione di Plutarco (intorno alle macchie lunari), non ho dubitato di muovergli opposizione e, con motivazioni contrarie, di collocare le parti continentali nelle macchie e nelle zone terse e trasparenti, invece, l’energia delle acque; e per questa mia tesi ho riscosso il plauso convinto del Wackher (Consigliere del Re e Membro del Consiglio dell’Imperatore, sempre molto favorevole a Keplero). Durante la precedente estate (1609) mi sono dedicato alla riflessione critica su questi argomenti (credo che la natura ha cominciato per mezzo mio a smuovere faticosamente quello che poco dopo ha ottenuto per mezzo di Galilei) tanto che, per compiacere lo stesso Wackher, ho fondato anche una nuova astronomia, per così dire, a uso di quelli che abitano sulla Luna, cioè, in parole chiare ed esplicite, ho costituito una specie di geografia della Luna”.
Da allora, fino al 1623, il Sogno non compare in alcun luogo, ad eccezione soltanto di un’espressione, nella quale Keplero, senza nominare esplicitamente il libro, tuttavia si riferisce con certezza ad esso: quando nell’Epitome dell’astronomia copernicana scrive: “La Luna ha un terrapieno (in un altro luogo lo chiamo volvipieno)”.
Nel 1623 scrive al Bernegger: “Due anni fa, appena tornai a Linz, cominciai a ricomporre o piuttosto ad abbellire e rendere più chiara l’Astronomia della Luna. In verità, sono rimasto fermo per attendere, inutilmente, il libro La faccia visibile della Luna del greco Plutarco, che non mi è stato inviato da chi m’aveva promesso di mandarmelo da Vienna. Dalla lettura della traduzione di Silandro mi sembra di intuire che cosa il filosofo abbia voluto dire nelle lacune; tuttavia mi fermo e aspetto: infatti, se potrò leggere in greco anche i passi che precedono e seguono queste lacune, risolverò meglio la cosa. Che cosa sarebbe se venissero pubblicate in un unico libro l’Astronomia lunare mia e quella di Plutarco? E non sarebbe pure raccomandazione valida quella che vengano aggiunte anche le Storie vere di Luciano? Ascoltiamo anche il parere di Lingelshemio, che tu mi raccomandi e al quale desidero essere presentato, trattandosi d’un uomo quale tu mi descrivi.
Nel mio studio ci sono tanti problemi quanti righi tracciati: e, per di più, da risolvere in parte dal punto di vista astronomico, in parte dal punto di vista fisico, in parte dal punto di vista storico. Ma cosa vorresti fare? Quanti sono quelli che reputeranno degno d’affrontarli e di risolverli? Gli uomini, com’essi dicono, vogliono che le inezie di questa maniera vengano cacciate via con una leggera fiancata, e non sono facilmente disponibili a corrugare la fronte per simili passatempi. Per questo ho deciso di risolvere ogni cosa, aggiungendo alla fine del testo delle note in ordine successivo. Un esperimento fatto con il telescopio, che ho acquistato recentemente, mi ha offerto una visione meravigliosa e assolutamente notevole: città e muri, circolari stando alla forma dell’ombra da loro proiettata. Che dire di più? Campanella ha scritto la Città del Sole; che cosa sarebbe se noi scrivessimo la Città della Luna? Forse sarebbe impresa mirabile mettersi a descrivere con i colori vivaci i costumi ciclopici del nostro tempo. Vorremmo oltrepassare il limite delle terre, per andare a rifugiarci negli immaginari imperi lunari? Ma perché usare scappatoie, dal momento che non furono al riparo né Moro nell’Utopia né Erasmo nell’Elogio della pazzia; anzi entrambi dovettero difendersi? Abbandoniamo, dunque, interamente questa pece politica e dimoriamo nei verdi boschi della filosofia naturale. E’ stato dato ordine a Mütschelio di richiedere a Ratisbona il libro dei conti e di inviartelo. Ti saluto e ti affido a Dio. Linz, 4 dicembre 1623”.
Bernegger rispose: “Lingelshemio trova grande conforto al suo esilio, grazie allo studio molto approfondito di tutti i tuoi scritti, che riesce a trovare presso di me; è un uomo, infatti, molto dotto anche nelle scienze matematiche. Egli, quando poco fa ha appreso da me che tu hai intenzione di dare alle stampe le tue Note allegate all’Astronomia della Luna unitamente al libro sullo stesso argomento di Plutarco, s’è rallegrato moltissimo e m’ha raccomandato di pregarti con parole suadenti, affinché tu non voglia né trascurare né differire alcun tuo impegno, che possa ritornare di pubblico beneficio. Dell’opera di Plutarco ho l’edizione greca in 8° dello Stefano, tutta ben ordinata in 6 tomi. Se vuoi, ti manderò il tomo in cui c’è il libro La faccia visibile della Luna. Non prima, però, d’avermi guadagnato, grazie alla mediazione di Gotofredo il giovane, l’amicizia di Nicola Rigaltio; ha il mio Pachimerio greco e gli serve per colmare le lacune del codice regio (è, infatti, bibliotecario del Cristianissimo). Che cosa sarebbe se potesse procurare codesto libro di Plutarco? Cercherò di saperlo per lettera alla prima occasione. Qui tieni il trattato sulle meteore di Habrecht; infatti hai visto certamente quello di Schickard, che, benché sia stato accresciuto, è stato tradotto in tedesco. Stammi bene, mio carissimo e straordinario amico. Strasburgo, 4/14 febbraio 1624”.
Keplero a queste comunicazioni rispose con poche parole riguardanti il Sogno, in quanto la maggior parte della lettera era dedicata ai figli del Barone di Starhemberg, sostenitore da lunga data di Keplero (“sono suo ospite quotidiano”, scrive Keplero): prega il Bernegger di rivolgersi a loro e ottenere che lo accolgano nelle loro case e gli assicurino un “pasto frugale, come si conviene a nobili studiosi”. Concludendo questa lettera datata 19/29 marzo 1624, Keplero aggiunge: “Di Plutarco, per il momento, vorrei avere trascritti almeno i paragrafi che riguardano ciò che precede e ciò che segue le parti mancanti dell’edizione del Silandro; nel frattempo verrà forse fuori qualche aiuto dalla biblioteca Gallica”.
Keplero ritorna al Sogno con pochi cenni nell’anno 1629, quando affronta con il Bernegger il problema della pubblicazione del Compendio Mathematico. “Che cosa sarebbe – scrive nel mese di marzo – se ti sottoponessi, giusto per celiare, la mia Astronomia della Luna ossia gli aspetti visibili degli astri? Certamente per noi, che veniamo cacciati dalle terre, questo sarà viatico che ci accompagna nelle peregrinazioni e nelle migrazioni verso la Luna. A quel mio libro aggiungo La faccia visibile della Luna di Plutarco tradotto interamente e nuovamente da me e integrato in parecchie lacune con apporti derivati dall’esperienza: cosa che è stata impossibile a Silandro, non essendo egli fisico di professione”.
Se escludiamo questi luoghi citati, noi non troviamo alcun altro riferimento relativo al Sogno, né nelle opere pubblicate né in altre. Il figlio di Keplero, Ludovico, dopo la morte del padre ritornò in patria da Basilea, dove professava la medicina, e trovò il cognato Jakob Bartsch occupato nella pubblicazione del Sogno, che aveva già iniziata suo padre prima di cominciare il viaggio alla volta di Ratisbona. Jakob Bartsch, però, lasciò da parte le faccende riguardanti la stampa del libro e andò nella città di Lauban nella Slesia, dove morì il 5 agosto 1632. L’opera rimase incompiuta anche per la stampa. Così venne nelle mani di Ludovico, il quale riferisce inoltre che sua madre, vedova, era andata da lui con le copie incomplete del Sogno, aveva implorato il suo sostegno e lo aveva supplicato di portare a compimento la stampa del volume. Pagate a Francoforte sul Meno le spese di stampa, il libro è stato pubblicato nel mese di settembre dell’anno 1634.
Non si possono sintetizzare i punti essenziali del Sogno in poche parole; per questo rimandiamo il lettore direttamente al libro, nel quale scoprirà l’ingegno di Keplero ovunque risplendente, leggerà le sue ipotesi astronomiche, formulate e scritte in ordine ben definito nei libri sopra citati, applicate qua e là nelle ricerche speculative sulla Luna.
Noi vogliamo raccomandare solo quanto segue. Keplero nel suo Sogno imita l'esposizione di Silla nel lavoro di Plutarco La faccia visibile della Luna, che è stato posto alla fine di questo volume. Keplero colloca la narrazione del suo Sogno all’inizio del libro, facendovi seguire le numerosissime note illustrative. Le annotazioni di Keplero al libro di Plutarco erano state collocate dal figlio Ludovico, che curava la pubblicazione dell’opera del padre, all’interno del testo, creando così al lettore difficoltà non piccole e piuttosto frequenti; per questo noi, conservando lo stesso metodo del Sogno, abbiamo collocato anche queste annotazioni alla fine del testo, numerandole in ordine progressivo. Infine, bisogna notare che Keplero ha confrontato la sua traduzione con quella dell’edizione del Silandro (realizzata a Francoforte nel 1592), e parimenti con quella dell’edizione “greca del Wechel in ottava”; noi, però, abbiamo tralasciato di riportare la numerazione a margine delle pagine di quest’ultima (pp. 1696-1742), che pure era stata trascritta.
NOTA BIO-BIBLIOGRAFICA
Giovanni Keplero si rivela uno dei più grandi scienziati che la storia dell’astronomia registri. I suoi trattati sulla fisica celeste conservano alla memoria di tutti i tempi le famose tre leggi del moto dei pianeti da lui scoperte e formulate; e non sono meno importanti suoi apporti nel campo dell’ottica. Particolarmente significativo è il titolo che egli scelse per una delle sue prime opere, nella quale dimostrava tesi matematiche e provava certezze fisiche, che avrebbero rivoluzionato la tradizionale scienza dei cieli: pienamente consapevole, la intitolava, appunto, Astronomia Nova. Keplero, infatti, mostrando fondata sicurezza speculativa, estrema audacia intellettuale e, nello stesso tempo, forte rigore scientifico, eliminava definitivamente la necessità di ricorrere a deferenti ed epicicli nell’interpretazione dei moti planetari, e superava il principio, dominante nell’astronomia antica e medievale e condiviso dallo stesso Copernico, secondo il quale tutti i movimenti celesti dovevano essere perfetti e, perciò, circolari e uniformi nella velocità.
Promotore convinto della teoria eliocentrica sin dai primi anni delle sue ricerche, Keplero non si è mai posto come protagonista o antagonista nel dimostrare, nel difendere e nel diffondere il copernicanesimo, né ha mai assunto atteggiamenti di confronto; il suo contributo all’affermarsi sempre più vasto della nuova visione del sistema solare, però, fu indubbiamente decisivo. Gli astronomi del suo tempo, infatti, accettavano senza molte difficoltà il copernicanesimo inteso come teoria astronomica e ne condividevano le formulazioni matematiche esposte in tabelle redatte in conformità all’ipotesi eliocentrica, ma ne rifiutavano nettamente l’eliocentrismo inteso come fisica celeste, appunto perché consapevoli e preoccupati per le conseguenze scientifiche, dottrinali, politiche e teologiche che ne derivavano. Keplero, invece, trascurò i poco pericolosi aspetti matematici della dottrina copernicana, ne contestò l’assioma accettato quasi universalmente della circolarità delle orbite celesti e, andando all’essenzialità veramente nuova della dottrina, ne accolse la centralità del Sole, molto compromettente ma, a suo parere, altrettanto evidente e innegabile.
Giovanni Keplero nasce prematuramente il 27 dicembre1571, a Weil nel Ducato di Württemberg, da genitori luterani e in un centro in cui la maggior parte degli abitanti è cattolica. Viene battezzato secondo la fede cattolica, anche se poi riceverà educazione e formazione improntate ai dettami e alle dottrine della Riforma, alla quale rimarrà sempre legato con atteggiamento di ossequio devoto, ma nello stesso tempo di spirito libero e critico, attirando inimicizie e persecuzioni tanto su di sé quanto sulla sua famiglia: dovrà ben due volte abbandonare la propria casa, svendere i propri averi, sballottare di qua e di là moglie e figli, perché perseguitato, sia da parte dei Protestanti che da parte dei Cattolici, per motivi di ortodossia religiosa, spesso pretestuosi, mai comunque veramente sostanziali. Queste esperienze annoverano Keplero tra le grandi menti, che tra il Cinque e Seicento hanno dedicato il loro pensiero per trovare argomentazioni teoriche e per suggerire comportamenti pratici, mirati alla conciliazione tra le confessioni religiose soprattutto cristiane, ritenendola la condizione prima e fondamentale per spegnere i vari focolai di guerra e instaurare una vita a reale dimensione dell’umanità, fatta di pace tra i popoli e di rispetto della reciproca dignità; Keplero va collocato, pertanto, accanto agli spiriti irenici ed ecumenici di Sarpi, di Grozio, di Bacone, di Isaac Casaubon e di altri, quali Giovanni Andrea, Comenio, Dury, Hartlib e i Vescovi Andrewes e Overall e ancora Wotton, Hall, e gli olandesi Utembogaert e Bertius.
Di famiglia di modeste condizioni economiche e sociali, nel 1584 entrò, con l’aiuto di una borsa di studio posta a sua disposizione dai duchi di Württemberg, nel seminario di Heidelberg, con l’intenzione di diventare predicatore. All’età di vent’anni s’iscrisse alla Facoltà di Teologia presso l’Università di Tubinga e studiò teologia, matematica e astronomia; conseguì titolo di “Magister Artium”. A Tubinga, tra gli altri insegnanti, ebbe come professore di matematica Michael Mästlin, il quale, pur insegnando le dottrine tolemaiche, era un convinto assertore del copernicanesimo; e fu proprio Mästlin a far conoscere al giovane studente Keplero la nuova teoria eliocentrica.
Terminati, dopo tre anni, gli studi di teologia, Keplero è invitato a recarsi a Graz, in Austria, presso lo studio che i Protestanti vi avevano aperto, per insegnare ufficialmente matematica. Accetta, anche se non senza grandi perplessità. Il suo animo, infatti, fino allora era stato votato alle meditazioni teologiche e aveva sognato un futuro di “sacerdote” della parola di Dio. Ma la natura del suo spirito, piuttosto critico e indipendente, si mostrava sempre più inadatto agli studi teologici; certe idee di Keplero rivelavano già simpatie verso le posizioni predicate dal calvinismo, e, quindi, quanto mai diverse dall’ortodossia luterana e distanti dall’insegnamento ufficiale dell’università di Tübinga, soprattutto riguardo la dottrina intorno all’Eucaristia. La teologia rimarrà, comunque, una delle sue grandi passioni, e i problemi religiosi continueranno ad interessarlo, svelando sempre la segreta vocazione teologica anche all’interno delle sue ricerche scientifiche.
Keplero, mentre insegna matematica nel Seminario luterano di Graz, mantiene nella città austriaca rapporti amichevoli e scambi culturali con alcuni Gesuiti, consolidando sentimenti di reciproca stima, nonostante la diversità religiosa: saranno proprio i padri Gesuiti a intervenire negli anni successivi presso le autorità cattoliche a favore di Keplero, garantendo per la sua onestà intellettuale e la probità morale, evitandogli, almeno per qualche anno, le sofferenze di un improvviso ed intempestivo “esilio”. In questo periodo, oltre ad insegnare matematica, tiene corsi di matematica, di astronomia e di letteratura; prepara calendari astronomici, associandovi anche previsioni di natura astrologica; stende la sua prima grande opera, il Mysterium Cosmographicum.
All’inizio del 1600 un decreto imperiale sanciva l’espulsione di tutti i protestanti; Keplero, nonostante l’amicizia e la stima degli ambienti cattolici e soprattutto di alcuni padri gesuiti gli consentissero di fermarsi a Graz senza subire pressioni o ingiunzioni di alcuna natura, preferì ubbidire al decreto e lasciare Graz, restando senza lavoro. Proprio in questo momento ricevette l’invito da Tycho Brahe a recarsi presso di lui a Praga, dove avrebbe potuto collaborare alle osservazioni dei cieli che l’astronomo danese stava conducendo con un nutrito gruppo di allievi, e contemporaneamente dedicarsi alle sue ricerche scientifiche. Brahe aveva creato e organizzato nell’isola di Hven un osservatorio molto attrezzato, dove aveva trasferito con sé il frutto di preziose osservazioni planetarie, compiute per oltre un ventennio con nuove tecniche e nuovi strumenti di misura e grazie alle quali poté determinare la posizione degli astri sulla sfera celeste con una precisione di circa due minuti d’arco, cioè il massimo che si poteva ottenere allora. I due studiosi convissero e collaborarono per pochissimo tempo e, tuttavia, sufficiente perché alla morte di Tycho, nel 1601, Keplero gli potesse succedere come matematico imperiale. Keplero non aveva una buona vista e spesso era costretto a servirsi di osservazioni altrui; utilizzerà, quindi, di buon grado le osservazioni di Tycho Brahe e dedurrà le sue famose leggi del movimento dei pianeti. Stando a Praga, infatti, compose la sua opera principale l’Astronomia Nova seu physica coelestis, in cui formulò le prime due leggi da lui denominate e alle quali giunse servendosi, appunto, delle misure compiute da Tycho sulle posizioni del pianeta Marte.
Nel 1612, salito al trono imperiale Mattia, Keplero lasciò la corte di Praga e si trasferì a Linz, continuando però a ricoprire l’incarico di matematico imperiale. Si assentò dalla capitale boema per un po’ di tempo, perché dovette stare a Tubinga, dove sua madre Caterina Guldenmann, accusata di stregoneria, era stata sottoposta a processo, conclusosi con la sua assoluzione nel 1621, probabilmente grazie all’influenza del figlio ormai noto e importante. Ma questi avvenimenti della madre avranno dolorose e gravi ripercussioni sulla vita umana e sull’attività scientifica di Keplero; furono proprio queste ripercussioni che determinarono, tra l’altro, le vicissitudini del Somnium: il consenso riscosso dalle tesi esposte in quest’opera sarà vissuto dallo scienziato come la migliore prova della grettezza mentale dei suoi oppositori e della magnanimità del suo animo, rimasto fedele alle proprie scoperte e alle proprie idee. In questo periodo, nonostante le turbolenze della guerra dei Trenta Anni, Keplero lavorò alla compilazione delle future Tabulae Rudolphinae e alla composizione dell’Harmonices Mundi e l’Epitome Astronomiae Copernicanae.
Giovanni Keplero morirà a Ratisbona il 15 novembre del 1630.
L’opera di Keplero è ricca d’importanti contributi scientifici, ma anche sempre piena di denso e profondo pensiero filosofico, di natura spirituale e d’ispirazione pitagorico-neoplatonica: scienza, filosofia e religiosità restano intatte, intersecate e mescolate in un originale ripensamento, nel quale il primato è comunque sempre assegnato all’interiore mondo del soggetto che ricerca - animato da rigorosa speranza scientifica unita ad afflati di fede religiosa - nel grande libro della natura scritto da Dio la prova dei desideri e delle ipotesi ch’egli delinea con la propria ragione liberamente protesa verso ogni verità nuova. Keplero rimase sempre contemporaneamente scienziato, filosofo e teologo: egli dedicò l’intera sua esistenza a contemplare i cieli, con l’incessante brama di scoprirne ogni meraviglia, perché era convinto che l’uomo doveva rendersene partecipe con il lavoro della sua mente e l’onestà dei suoi sentimenti.
Keplero pubblica, a Tübingen nel 1596 con l’appoggio di Mästlin, il Mysterium Cosmographicum, che aveva ideato a Graz. Si tratta di un lavoro, nel quale l’autore dà prova di rigore nei calcoli sempre rielaborati in maniera molto personale, e di sistematicità nelle ricerche sempre interpretate con acutezza d’intuito. Keplero, dopo molti anni, nel 1621, ancora persuaso delle sue tesi sostenute nell’opera, decise di darne alle stampe una seconda edizione arricchita di annotazioni importanti, al fine d’integrarne o aggiornarne alcune parti. “Mi sono proposto - scrive in apertura del Mysterium Cosmographicum - di dimostrare con questo libro che Dio Ottimo Massimo, nella costruzione del mondo e nella disposizione dei cieli, guardò ai cinque solidi regolari che tanto sono stati celebrati fin dal tempo di Pitagora e di Platone e che dispose numero, proporzioni e movimenti delle cose celesti secondo le proprietà di quei corpi (…). Di tre questioni ero particolarmente impegnato a ricercare la ragione per la quale esse sono così e non in altro modo: il numero, l’estensione e il periodo degli orbi. La mirabile armonia delle cose immobili – il Sole, le Stelle fisse, lo Spazio – che corrispondono alla Trinità di Dio Padre, Dio Figlio e Spirito Santo m’incoraggiò in questo tentativo. Non nutrivo dubbi che le cose mobili mi avrebbero svelato la stessa armonia di quelle immobili”. Keplero fa riferimento ai cinque solidi perfetti della geometria euclidea (tetraedro, cubo, icosaedro, ottaedro e dodecaedro), nelle cui superfici rimanevano circoscritte le orbite sferiche dei sei pianeti allora conosciuti. Ci narra, inoltre, come il 1595, mentre preparava una lezione da tenere ai suoi scolari sulle congiunzioni consecutive di Saturno e Giove, che presentavano un salto di otto segni zodiacali nel circolo massimo dell’eclittica, inscrisse un triangolo fra le orbite dei due pianeti e notò che si poteva osservare, geometricamente, come l’orbita di Giove era la metà di quella di Saturno. Trasferì questo concetto anche ai due pianeti Marte e Giove, ma, non avendo sortito alcun risultato positivo, si servì delle figure tridimensionali: inscrisse, allora, nelle orbite gli unici cinque poliedri regolari, studiati da Euclide e formulò la seguente proporzione: “L’orbe della Terra è la misura di tutti gli altri orbi. Circoscrivi ad essa un dodecaedro, la sfera che a sua volta lo circoscrive è quella di Marte. Alla sfera di Marte circoscrivi un tetraedro, la sfera che lo contiene è la sfera di Giove. Alla sfera di Giove circoscrivi un cubo, la sfera che lo racchiude sarà quella di Saturno. Nell’orbe della Terra inscrivi un icosaedro, la sfera inscritta in esso è quella di Venere. A Venere inscrivi un ottaedro, in esso sarà inscritta la sfera di Mercurio. Qui trovi la ragione del numero dei pianeti” (in Gesammelte Werke, a cura di Max Caspar, Monaco 1938, vol. I, pp. 11-13). Secondo Keplero era assurdo, quindi, pensare che tutto ciò fosse attribuibile solamente alla casualità e, spinto dalla sua fede nell’esistenza di un Creatore, concluse che tutto obbediva ad un disegno del Creatore. Ora toccava a lui penetrarlo, intuirlo il più intimamente possibile e diffondere presso tutti gli uomini la conoscenza di queste meraviglie create da Dio e sempre presenti nel mondo e nei cieli. Appare chiaro come il Mysterium Cosmographicum è una visione copernicana dell’universo, in quanto si basa non solo sull’eliocentrismo, ma soprattutto sulla persuasione che la teoria copernicana era la sola finalmente in grado di fornire le distanze relative dei pianeti dal Sole, distanze che non era possibile calcolare con la precedente astronomia tolemaica: questa, infatti, non diceva nulla circa la reale situazione spaziale dei diversi pianeti rispetto al centro del sistema planetario, poiché le diverse “orbite” erano immaginate l’una contigua all’altra. Keplero, invece, intravide proprio in questo il principale merito della nuova cosmologia copernicana e non tanto nel fatto che essa offriva una soluzione più convincente per spiegare le “anomalie” dei moti planetari. Fu per questo che abbracciò senza riserve Copernico e nello stesso tempo professò: “Prometto che non dirò nulla che sia contrario alle Sacre Scritture” ” (in Gesammelte Werke, a cura di Max Caspar, Monaco, 1938, vol. I, p. 14). In questa medesima opera Keplero ci riferisce d’aver osservato che i periodi (e dunque le velocità lineari) di rivoluzione dei pianeti intorno al Sole erano in “armonia” con le loro distanze: cioè, quanto più un pianeta era lontano dal Sole, tanto più lentamente compiva la sua orbita. Ma se il Creatore - com’egli pensava - aveva fatto in modo che i periodi delle orbite dei pianeti corrispondessero alle loro distanze, era ragionevole indurrei che avesse fatto anche corrispondere quelle distanze a qualcosa di prestabilito. Egli cercò invano, all’epoca, di trovare una regolarità nelle diverse velocità dei distinti pianeti. Ciò costituirà la scoperta del contenuto della sua “terza legge” del movimento dei pianeti; per ora si limita a dare una spiegazione solo “qualitativa”: al centro, il Sole è come il motore e l’anima del movimento dei pianeti, ma il suo influsso decresce con la distanza, in modo simile a quanto accade alla luce, che, partendo da una certa sorgente luminosa, diminuisce la sua intensità con la distanza.
Tycho Brahe aveva letto il Mysterium Cosmographicum di Keplero, e non ne aveva condiviso il contenuto, in quanto gli sembrava una pura cosmologia costruita astrattamente ed aprioristicamente, senza alcun fondamento sperimentale e induttivamente stabilito. L’astronomo danese, infatti, assegnava grande valore alle prove scientifiche stabilite sulla sperimentazione e sull’osservazione; egli in Danimarca ne aveva raccolte numerose e le aveva accuratamente notate e catalogate, con l’intento di calcolare tavole astronomiche nuove e tali che sostituissero quelle già esistenti, tutte molto imprecise, com’egli stesso aveva constatato durante il suo lavoro a Hven. Le nuove tavole, denominate Tabulae Rudolphinae in onore dell’imperatore Rodolfo, avrebbero dovuto sostituire, secondo i suoi progetti, le trecentesche spagnole Tavole Alfonsine, che raccoglievano la tradizione dell’astronomia araba, e le Tavole Pruteniche, fondate sull’astronomia copernicana e pubblicate nel 1551da E. Reinhold. Egli, tuttavia, valutava positivamente il genio del giovane Keplero e ne ammirava la grande forza nel lavoro e perseveranza fuori del comune. Keplero, assunto come calcolatore in aiuto del maestro nella riduzione dei dati delle osservazioni, aveva il compito di studiare l’accordo delle osservazioni con la teoria del moto lunare. Preparare le tavole delle posizioni del pianeta Marte era compito assegnato al danese Christian Severin, detto Longomontano, il quale, però, mostrò molte difficoltà a condurre a porto il lavoro; per questo fu dato incarico a Keplero di dedicarsi anche alle tavole del pianeta Marte.
Tycho Brahe continuava a ritenere valido il sistema geometrico ereditato da Copernico; pertanto, secondo l’astronomo danese, non si poteva derogare all’assioma fondamentale, secondo il quale “tutti i moti dei corpi celesti erano circolari e uniformi, oppure una composizione di essi”; Keplero, invece, era di parere diverso: come aveva già asserito nel Mysterium Cosmographicum, non era assolutamente necessario rimanere ancorati a simile assioma. La collaborazione fra i due scienziati non si prefigurava, quindi, certamente facile. La morte del maestro, però, avvenuta nel 1601, lasciò campo libero a Keplero, il quale, nominato matematico imperiale nella corte di Praga, quale successore di Tycho Brahe, ricevette l’incarico di continuare il lavoro delle Tavole Rudolfine, procedendo in conformità alle osservazioni astronomiche del suo predecessore; ma, ora, Keplero era libero di affrontare il problema dell’orbita del pianeta Marte come riteneva più opportuno. Prosegue nelle sue ricerche e, come risultato del lavoro di questi anni, apparve nel 1609 Astronomia Nova, nella quale Keplero presenta la legge delle aree e quella sulla forma ellittica delle orbite planetarie. E’ particolarmente significato il fatto che lo scienziato, nell’introdurre le risultanze delle sue ricerche che avrebbero dato vita ad un’astronomia non solo rinnovata, ma veramente “nuova”, affronta due ordini di problemi di capitale importanza: il primo concernente alcuni concetti di meccanica che daranno vita ad una visione “fisica” e non più solo “geometrica” del sistema solare, e l’altro riguardante i suoi primi tentativi, quasi sistematici, di dimostrare che non c’è contraddizione o incompatibilità tra Sacre Scritture e tesi copernicane, e che c’è anzi ortodossa possibilità concreta di armonizzarle in una visione veramente scientifica e, nello stesso tempo, sinceramente religiosa; era ormai un problema che, varcati i confini della chiesa cattolica romana, cominciava a diventare importante anche fra i protestanti tedeschi, ponendo in serie difficoltà tanto gli scienziati quanto i teologi disponibili al nuovo e all’inedito.
Keplero provò ripetutamente tutti i possibili schemi geometrici per rintracciare eventuali accordi tra i dati acquisiti mediante l’osservazione delle orbite dei pianeti, ma giungeva sempre alla conclusione che era necessario tentare ipotesi interpretative nuove. E la scelta di Marte gli riuscì opportuna, in quanto era il pianeta che aveva la eccentricità più grande fra i pianeti maggiori del sistema solare, e gli effetti dell’ellitticità erano maggiormente percettibili rispetto a quelli della circolarità. Risultava ribadita l’esigenza di costruire una visione fisica, e non più solamente geometrica, delle orbite planetarie, cercando, quindi, non l’eventuale costruzione geometrica, ma le possibili cause fisiche del moto: si trattava di scoprire la causa che determinava il fatto che, quanto più Marte era vicino al Sole, tanto più veloce era il suo moto, fenomeno che aveva osservato anche per gli altri pianeti, la cui rivoluzione intorno al Sole era tanto più lenta quanto più grande la loro orbita. Dopo calcoli faticosi e ipotesi audaci pervenne a quella che è detta “legge delle aree”, denominata poi “seconda legge di Keplero”, in cui si stabilisce che il raggio vettore che unisce il pianeta al Sole disegna aree uguali in tempi uguali, ossia che quanto più breve è la distanza del pianeta dal Sole tanto più velocemente gira il raggio vettore. Ottenuto questo risultato, fu facile vedere che la curva geometrica descritta dal pianeta era precisamente una ellisse e che il Sole occupava uno dei due fuochi, conclusione conosciuta come “prima legge di Keplero”.
Keplero voleva capire il ruolo del Sole. Esso occupava un posto centrale e, quindi, doveva essere la causa del movimento dei pianeti; il suo “influsso” sembrava legato e dipendente dalla distanza; siccome riteneva ancora, però, che l’influsso solare diminuisse in proporzione inversa alla distanza, e non al quadrato della distanza, egli non ipotizzò la legge di gravitazione universale. Vide giusto, invece, quando ipotizzò che l’attrazione reciproca fra la Terra e la Luna è la causa che determinava il fenomeno delle maree, e, tuttavia, non estese questa intuizione anche agli altri pianeti. Rimaneva il problema di capire come una forza di attrazione potesse generare le orbite, e pensò di poterlo risolvere con il ricorso al campo magnetico, fruendo della recente ipotesi avanzata da William Gilbert, secondo cui la Terra agiva come una calamita. Keplero suppose che il Sole, se fosse stato anch’esso una calamita in rotazione attorno al proprio asse, avrebbe potuto trascinare nel suo moto i pianeti, concepiti pur’essi come altre calamite. Più tardi Keplero doveva scoprire che il Sole aveva sì una rotazione assiale, ma in realtà molto lenta, con un periodo medio sulla superficie di circa 27 giorni. E questa è una delle tante testimonianze della concretezza e della induttività del procedere scientifico di Keplero, il quale, per giungere alle sue formulazioni teoriche, fece sempre affidamento sulla bontà e sulla precisione delle osservazioni astronomiche fatte da Tycho Brahe, attribuendo ad esse sempre priorità quando vi erano discordanze rispetto ad un possibile schema teorico suggerito per l’orbita di Marte. E’ lui stesso a confidarci come, non contento di uno scarto di 8 minuti primi (normalmente ritenuto elemento insignificante) fra teoria ed osservazioni, considerò il precedente schema teorico ancora inadatto, tornando nuovamente al lavoro per formularne uno più adeguato. Riemerge l’unicità, almeno da questo punto di vista, dell’Astronomia Nova nella letteratura astronomica: in essa Keplero descrive tutte le sue ricerche: tanto i successi come i fallimenti; e rimane opera di difficile lettura: è il documento del suo sforzo immane per giungere, dopo otto lunghi anni di tentativi e di ipotesi, alle prime due leggi del moto planetario.
Per correggere la posizione dei pianeti e calcolarne opportunamente le orbite, era necessario considerare con la maggiore precisione possibile il fenomeno della rifrazione atmosferica. Keplero fu, quindi, quasi costretto a dedicarsi allo studio di fenomeni ottici. Sono di questo periodo, infatti, alcune importanti opere di ottica, quali Ad Vitellionem Optica Astronomica del 1604, e l’opuscolo Dioptrice del 1611. E’ in quest’ultimo lavoro, occasionato dalla pubblicazione nel 1610 del Sidereus Nuncius di Galileo, che Keplero mostra le sue non comuni competenze in campo ottico. Riprendendo lo schema del cannocchiale galileiano, col quale lo scienziato pisano aveva fatto le sue prime scoperte astronomiche, Keplero suggerisce di sostituire la lente concava, impiegata come oculare, con una lente biconvessa la quale, anche se invertiva l’immagine, consentiva di sfruttare meglio la lunghezza focale dell’obiettivo principale, anch’esso costituito da una lente principale biconvessa. Nel Dioptrice si descrive questo nuovo tipo di strumento ottico, che verrà anche esposto e poi messo in pratica dall’astronomo gesuita tedesco Christoph Scheiner nel suo volume Rosa Ursina del 1630. Questo telescopio, che sarà chiamato “astronomico” per differenziarlo dal cannocchiale terrestre galileiano, consentirà per la prima volta di fare misure di posizione sulla sfera celeste assai precise mediante l’impiego di un micrometro oculare. Grazie a quest’importante miglioramento tecnico, le successive osservazioni astronomiche sulle posizioni dei pianeti confermeranno le scoperte di Keplero, ma permetteranno anche la scoperta di nuovi fenomeni, come l’aberrazione della luce, all’inizio del Settecento, primo indizio di un movimento di traslazione della terra.
Keplero, quando nel 1611 si trasferisce a Linz, procede nella compilazione delle Tavole Rudolfine, continuando nel suo incarico di matematico di corte e giovandosi della pubblicazione delle tavole dei logaritmi di base naturale preparate da Nepero. Fra il 1618 e il 1621 prepara e poi pubblica l’Epitome Astronomiae Copernicanae, un libro che, scritto sotto forma di domanda e risposta, servì a dare ampia diffusione del sistema copernicano, benché contenga cenni anche ad altri sistemi cosmologici. Nell’Epitome vengono messe a frutto le molteplici conoscenze kepleriane, dalla geografia alla trigonometria sferica e non mancano pure considerazioni geometriche sui poliedri regolari già sviluppate nel suo Mysterium Cosmographicum, le leggi sulle orbite planetarie ed anche le sue teorie sulle “armonie celesti”. L’opera, però, viene inclusa dal sant’Uffizio nell’Indice dei libri proibiti per le sue dottrine eliocentriche.
Keplero e Galilei entrarono in contatto nel 1596 in occasione della pubblicazione del Mysterium Cosmographicum. Seguendo una consolidata consuetudine, l’autore inviò copia dell’opera ai professori di astronomia delle diverse università d’Europa e, quindi, anche al Galilei, il quale rispose con una lettera di ringraziamento, in cui confidava che anch’egli, ormai da tempo assertore del copernicanesimo, desiderava far conoscere i suoi argomenti in favore di tale ipotesi, ma aspettava tempi opportuni. Incoraggiato da questa risposta, Keplero scrisse nuovamente a Galileo, proponendogli di fare osservazioni simultanee, in Germania e in Italia, per tentare di scoprire la parallasse annua delle stelle, un risultato che avrebbe rappresentato una dimostrazione geometrica, decisiva e definitiva, del moto di rivoluzione terrestre intorno al Sole. Ma non se ne fece nulle, in quanto lo scienziato pisano non dette seguito alla proposta. L’esperimento sarà realizzato solo due secoli dopo, quando saranno costruiti strumenti con un potere risolutivo idoneo. Qualche anno dopo, nel 1611, Galilei inviò copia del Sidereus Nuncius a Keplero chiedendogli un parere sulle scoperte fatte con il telescopio. Keplero ne rimase entusiasta e redasse lunghe considerazioni di apprezzamento, che raccolse nella Dissertatio cum nuncio sidereo. Nonostante questi rapporti di stima, tuttavia i due scienziati erano animati da interessi e metodi piuttosto diversi. Keplero rimaneva eminentemente l’astronomo, dedito ai calcoli e impegnato a cercare argomentazioni capaci di fondare le sue teorie sulla base dell’ingente quantità di osservazioni effettuate da Tycho Brahe; Galileo, invece, prediligeva la sperimentazione fisica e tentava di provare i moti della terra con intuizioni audaci e argomenti un po’ avventati e talora anche errati: lo stesso Sidereus Nuncius era una relazione su ciò che egli poteva osservare dei corpi celesti, ma senza l’utilizzazione del telescopio per misurare le “posizioni” degli astri sulla sfera celeste. Keplero, ad esempio, dedicò sforzo e fatica ingenti per pervenire alla formulazione delle tre leggi del moto dei pianeti intorno al Sole. Galilei, invece, credette di aver già trovato una prova del movimento della Terra grazie a una interpretazione personale del fenomeno delle maree, riguardo al quale Keplero, nell’introduzione alla Astronomia Nova, ne aveva ipotizzato la causa nella reciproca attrazione tra Terra e Luna, estendendo l’ipotesi copernicana, secondo la quale tutti i corpi celesti potevano essere considerati “centri di attrazione”; l’astronomo pisano, nel 1632, nel suo Dialogo sui massimi sistemi qualificherà come “puerile” la teoria delle maree suggerita da Keplero, ritenendola derivata dall’uso di “forze occulte”. I rapporti fra i due scienziati, in verità, non furono mai troppo cordiali: sia sufficiente pensare che Galilei non fece mai alcun riferimento alle leggi dell’orbitamento enunciate da Keplero, né mai menzionò l’idea di “orbite ellittiche”. Del resto anche la ricerca storiografica si è dedicata alle vicende galileiane più di quanto abbia fatto per quelle kepleriane: le opere di Galilei furono ben presto tradotte in diverse lingue, quelle di Keplero rimasero poco diffuse e conosciute, anche perché il suo linguaggio era a volte difficile da capire, mentre quello di Galileo realizzava talora dei veri pezzi antologici della letteratura scientifica italiana.
Keplero si soffermava a riferire tutti i particolari del cammino che l’avevano condotto alle sue scoperte, gli eventuali tentativi falliti, il raggiungimento della soluzione finale; e non mancavano le frequenti e talora appassionate considerazioni spirituali, con cui confessava il suo profondo vero appagamento nel credere che la ragione ultima di tutto il creato riposava nel Creatore Sommo: cioè, tutto contribuiva tutto a tenerlo lontano dai linguaggi nuovi della scienza moderna. Sembrava che, scelto l’abbandono della via di predicatore luterano, avesse deciso di divenire sacerdote eterno della natura come opera di Dio, nella quale doveva rimanere esaltata l’armonia descritta dai numeri pitagorici e dalle proporzioni geometriche e, in certa misura, anche da un sottile e non sempre celato gusto per l’astrologia.
Nel 1619 Keplero, quasi completando un suo vasto campo di ricerche che andava coltivando già dal 1599, pubblicò l’Harmonices Mundi Libri V, che possiamo considerare a giusta ragione una vera opera conclusiva e il suo autentico testamento scientifico e culturale. Vi rimane dominante la dottrina dei Pitagorici, i quali, intuite le proporzioni e l’armonia immanenti nei numeri, erano approdati a una concezione “mistica” dell’aritmetica e avevano considerato la musica come l’aspetto empirico di dell’armonia stessa. Era ragionevole, pertanto, che in tutto il cosmo creato, e quindi anche nelle cose naturali, vi fosse immanente un’armonia rappresentabile con i numeri. Queste idee, riprese da Platone ed elaborate successivamente durante il medioevo da altri filosofi, furono meditate e diffuse durante tutto il rinascimento dai neoplatonici. Nel II secolo, però, vi era stato Claudio Tolomeo che, coltivando interessi per l’acustica, aveva scritto Harmonica, opera appunto di acustica in tre libri, nella quale, autore applicava i suoi concetti anche al movimento degli astri, dando così vita all’idea di una “armonia celeste”.
Keplero rimeditava queste concezioni sulla scorta delle sue idee esposte nel Mysterium Cosmographicum, in cui evidenziava come il sistema planetario presentasse certe combinazioni e rispondesse a certi rapporti basati sulle figure geometriche dei solidi regolari: le armonie (ovvero le proporzioni armoniche) produrrebbero sullo spirito umano effetti di varia natura, l’origine celeste di questi effetti offrirebbe anche una spiegazione dell’influsso degli astri sulla vita terrena, e fonderebbero alquanto alcune congetture dell’astrologia. Nel Libro V Keplero applica tutto ciò ai moti dei pianeti attorno al Sole, derivandone una visione dell’armoniosa opera del Creatore di grande valore estetico; nei quattro libri successivi espone sistematicamente tutta la sua teoria sulla “musica delle sfere celesti”, che correda di tavole numeriche e di partiture musicali, nelle quali notava i suoni originati da ogni pianeta. Ne risulta un’immensa quantità di assiomi, di calcoli, di proposizioni e di tavole che Keplero compone per pervenire alla dimostrazione delle proprietà razionali dell’armonia celeste: un lavoro che documenta la profondità delle convinzioni di questo grande scienziato del Seicento; un lavoro che, finora quasi dimenticato dalla storia della scienza, deve essere rivalutato nella sua originaria importanza e collocato nella sua giusta luce.
La visione dell’armonia di Keplero costituisce un fatto importante nella storia della scienza, in quanto il nostro scienziato contribuisce a definire la separazione e nello stesso tempo il coinvolgimento dell’elemento soggettivo e di quello oggettivo, usare una terminologia cara a Ernst Cassirer. I risultati della scienza kepleriana, e in particolare i concetti di armonia, di forza e di legge, sono dovuti al nuovo modo di porsi del rapporto tra induzione e deduzione, tra pensiero e realtà, tra ipotesi e verifica. I due momenti costituiscono un’unità senza fondersi reciprocamente. Vi è l’esigenza di conoscere oggettivamente il cosmo in sé e per sé, ma è solo il punto di partenza; ogni elemento dedotto viene certificato dall’osservazione dei fatti, che debbono confermarlo o negarlo; così come ogni nuova costruzione ideale va controllata con i riferimenti al dato di fatto. Keplero evita, in questo modo, i due opposti errori dell’apriorismo intellettualistico che potrebbe alterare i dati oggettivi e mistificarne le interpretazioni, e della confusione di a posteriori disordinati e caotivi, privi di legami logici e collegamenti ontologici. Keplero perviene al concetto del cosmo intero, e non solo degli astri, ordinato e armonico grazie all’attività libera del suo pensiero, che intuisce in sé l’esigenza dell’armonia totale e ne cerca la veridicità nel mondo datogli dell’esperienza. Così nasce Harmonices Mundi, in cui è dominante un’interpretazione più o meno fantastica del cosmo. Si pensi a come lo scienziato ci narra la scoperta di quella che verrà chiamata la “terza legge di Keplero” sul movimento dei pianeti: interrompe le riflessioni speculative sull’armonia celeste per segnalare che cercava da tempo il rapporto dei movimenti dei pianeti fra di loro; prende l’avvio dal Mysterium Cosmographicum, da 22 anni ancora incompleto perché non riusciva a trovarne la regola; “trovati i veri intervalli degli orbi grazie alle osservazioni di Tycho Brahe – scrive nel 3° capitolo del libro V - dopo molto lavoro continuo finalmente fu trovata la genuina proporzione dei periodi dei pianeti alla dimensione delle orbite (...). Se mi domandi quando, fu l’otto di marzo dell’anno 1618, però i calcoli davano risultati infruttuosi, e quindi li ho rifiutati come falsi. Alla fine, ritornando all’assalto il 15 di maggio, si schiarirono le tenebre. La convergenza fra le osservazioni di Tycho Brahe durate 17 anni e la mia elucubrazione era tale che all’inizio io pensavo di sognare e di aver commesso una petizione di principio. Però è verissimo ed esatto che il rapporto fra i periodi di due pianeti qualunque è in precisa proporzione alla potenza di 3/2 delle due distanze”. La deduzione della terza legge rappresenta una sorta di parentesi all’interno del libro: dopo aver fornito anche il giorno della scoperta, l’autore riprende le sue fantastiche considerazioni sulle armonie dell’universo. Sarà Newton che, partendo dai principi della meccanica all’interno della sua teoria della gravitazione, modificherà leggermente la terza legge di Keplero, con l’introduzione delle masse planetarie.
Quando Keplero lasciò con rammarico l’università di Tübingen per prendere il posto di professore di matematica nello studio protestante di Graz, sapeva di dover lasciare la teologia e la predicazione. Ma proprio a Graz capì che il suo ruolo nella storia era di dedicarsi al lavoro di matematico e di astronomo, instaurando un nuovo e quasi privilegiato rapporto con Dio stesso. Quando scoprì le correlazioni fra le dimensioni delle orbite planetarie e le forme dei poliedri regolari non dubitò di pensare d’essere stato partecipe di uno dei segreti della creazione; “io – confessa all’amico Mästlin nella lettera del 3 ottobre 1595 - desideravo diventare teologo e per lungo tempo ero angosciato; ma ecco, guarda come Dio sarà ora lodato attraverso il mio lavoro in astronomia”, e conclude – come scrive a Herwath von Hohenburg nella lettera 26 marzo 1598, - che “gli astronomi sono sacerdoti del Dio Altissimo in rapporto al Libro della Natura, per cui è nostro dovere non cercare la nostra gloria, ma la gloria di Dio sopra ogni altra cosa”, idea che riprenderà nella dedica all’imperatore dell’Epitome Astronomiae: “comprendo il mio ruolo come quello di un sacerdote del Dio Creatore al servizio di Vostra Maestà Imperiale”.
Nel parlare di Dio, Keplero privilegia l’immagine di Dio “geometra” e “musicista”. Pitagorismo, cristianesimo e neoplatonismo confluiscono in un’originale visione in cui si fondono in unità mirabile razionalismo e misticismo, spirito scientifico e anelito religioso, pessimismo della ragione e ottimismo della volontà. L’universo mostra, nella sua struttura e nelle sue armonie, le tracce della bontà divina, così come nella storia dell’umanità si rivelano la divina sapienza e l’umana insipiente malvagità. a cattiveria umana. Nell’Harmonices Mundi, pur mantenendo una chiara distinzione fra il credo cristiano e l’idolatria pagana, riprende l’Inno al Sole del platonico Proclo: il Sole, che è solo solo “immagine” di Dio, è la causa e l’origine della sublime immortale musica dei cieli: il loro canto armonico si riversa nello spazio, lo permea e ne dirige ogni moto. Notevoli sono alcune delle sue intuizioni sull’accesso a Dio attraverso la natura; e probabilmente l’eredità kepleriana più significativa sta nella passione con cui sviluppò la sua ricerca “alla presenza di Dio”, con la consapevolezza che le sue fatiche per scoprire le leggi del moto dei cieli erano vere preghiere a Creatore di tutto. Così concludeva la sua Harmonices Mundi: “Interrompo di proposito e il sonno e la vastissima speculazione, esclamando dinanzi a tanto spettacolo con il Re suonatore di cetra: grande è il Signore nostro, grande è la sua virtù, e la sua sapienza non ha confini; lodatelo voi, o cieli, e lodatelo voi, o Sole, o Luna, o Pianeti, qualunque senso per percepire e qualunque lingua adoperiate per manifestare il vostro Creatore; lodatelo voi, o armonie dei cieli, lodatelo voi che osservate le armonie manifeste; loda anche tu, anima mia, il Signore creatore tuo finché vivrò; infatti da Lui, per Lui e in Lui ci sono tutte le cose, “tanto le cose sensibili, quanto le cose intellettuali”, tanto quelle che ignoriamo del tutto, quanto quelle che conosciamo, che sono poi una piccolissima parte, giacché non si può ancora andare oltre. A Lui la lode, l’onore e la gloria nei secoli dei secoli. Amen”.
Dal capitolo 2do: Il "Sogno" di Keplero ovvero Astronomia della Luna - L'ASTRONOMIA TRA FISICA CELESTE E FILOSOFIA POLITICA
L’opera postuma di Keplero - iniziata a Tubinga nel 1593 e terminata a Sagan nel 1630 - copre un arco di tempo lungo quanto l’intera sua attività di studioso e di ricercatore. In essa, quindi, troviamo registrati e documentati sia i momenti più significativi delle sue scoperte nel campo della fisica astronomica e sia le tappe fondamentali delle sue riflessioni filosofiche e religiose, che hanno sempre camminato di pari passo. L’opera definitivamente conclusa comprende, pertanto, le prime audaci ipotesi “rivoluzionarie” e “copernicane” del giovanissimo studente di Tubinga (nell’ultimo decennio del 1500), le mature convinzioni dell’astronomo che, pur nella lucida consapevolezza dei rischi connessi, professa (nel “pericoloso” primo decennio del 1600) la sua dottrina scientifica, quale unica realtà vera, anche se in contrasto con tutti gli insegnamenti ufficiali impartiti nelle università, le provate e sofferte conclusioni dello studioso tormentato e dell’uomo travagliato, che (per tutto il secondo e il terzo decennio del 1600) anela solo ma rimanere coerente con le risultanze della “sua” scienza e con i dettami della propria coscienza.
In questa prospettiva cessa di apparire presunzione o atto di ingenua vanagloria la risposta che scrive al Bernegger nel 1929, l’anno prima che lo cogliesse la prematura morte. All’amico, che gli chiede consiglio per qualche testo di matematica, suggerisce: “ Che cosa sarebbe – scrive nel mese di marzo – se ti sottoponessi, giusto per celiare, la mia Astronomia della Luna ossia gli aspetti visibili degli astri? Certamente per noi, che veniamo cacciati dalle terre, questo sarà viatico che ci accompagna nelle peregrinazioni e nelle migrazioni verso la Luna. A quel mio libro aggiungo La faccia visibile della Luna di Plutarco tradotto interamente e nuovamente da me e integrato in parecchie lacune con apporti derivati dall’esperienza: cosa che è stata impossibile a Silandro, non essendo egli fisico di professione”.
A porre mano di persona, per dare definitiva ed esaustiva sistemazione alle sue ricerche, è spinto da motivi personali veramente stringenti. “ Due anni fa - aveva scritto, infatti, nel 1623 al Bernegger - appena tornai a Linz, cominciai a ricomporre o piuttosto ad abbellire e rendere più chiara l’Astronomia della Luna. In verità, sono rimasto fermo per attendere, inutilmente, il libro La faccia visibile della Luna del greco Plutarco, che non mi è stato inviato da chi m’aveva promesso di mandarmelo da Vienna (…). Che cosa sarebbe se venissero pubblicate in un unico libro l’Astronomia lunare mia e quella di Plutarco? E non sarebbe pure raccomandazione valida quella che vengano aggiunte anche le Storie vere di Luciano? (…). Nel mio studio ci sono tanti problemi quanti righi tracciati: e, per di più, da risolvere in parte dal punto di vista astronomico, in parte dal punto di vista fisico, in parte dal punto di vista storico. Ma cosa vorresti fare? Quanti sono quelli che reputeranno degno d’affrontarli e di risolverli? Gli uomini, com’essi dicono, vogliono che le inezie di questa maniera vengano cacciate via con una leggera fiancata, e non sono facilmente disponibili a corrugare la fronte per simili passatempi. Per questo ho deciso di risolvere ogni cosa, aggiungendo alla fine del testo delle note in ordine successivo. Un esperimento fatto con il telescopio, che ho acquistato recentemente, mi ha offerto una visione meravigliosa e assolutamente notevole: città e muri, circolari stando alla forma dell’ombra da loro proiettata”. E, dando spazio alla sua ironia, certo non distruttiva, ma pregna di amarezza, continua: “Che dire di più? Campanella ha scritto la Città del Sole; che cosa sarebbe se noi scrivessimo la Città della Luna? Forse sarebbe impresa mirabile mettersi a descrivere con i colori vivaci i costumi ciclopici del nostro tempo. Vorremmo oltrepassare il limite delle terre, per andare a rifugiarci negli immaginari imperi lunari? Ma perché usare scappatoie, dal momento che non furono al riparo né Moro nell’Utopia né Erasmo nell’Elogio della pazzia; anzi entrambi dovettero difendersi? Abbandoniamo, dunque, interamente questa pece politica e dimoriamo nei verdi boschi della filosofia naturale”.
E’ l’amarezza dell’uomo perseguitato ingiustamente, che voleva portare a termine i suoi studi, turbati ma non scalfiti dal comportamento di uomini tanto potenti quanto ignoranti. Keplero aveva steso – sul canovaccio della Dissertazione del 1593 - l’Astronomia della Luna nel 1609 a Praga e l’aveva fatta circolare manoscritta in copie limitate. Fu proprio la diffusione di quest’opera a cacciarlo in guai seri, come egli stesso ci riferisce nella nota 8 del Somnium: “Non so se l’autore dell’audace satira intitolata Conclave di sant’Ignazio si sia imbattuto in un esemplare di questo mio libretto; ad ogni modo mi tocca espressamente sin dal principio. Andando avanti, appunto, conduce il povero Copernico davanti al tribunale di Plutone, dove, se non mi sbaglio, si accedeva attraverso le voragini del monte Hekla (vedi le note nn. 2, 5, 9). Voi, amici, che conoscete i miei fatti e quale sia stato il vero motivo del mio viaggio recentissimo in Svezia, e soprattutto se qualcuno di voi per caso ha avuto tra mano prima d’ora il manoscritto, capirete benissimo che codesto libretto è stato per me e per i miei familiari di male augurio. Ed io sono d’accordo con voi. Il presagio di morte è sicuramente grande in una ferita mortale che viene inferta, nel veleno che viene bevuto; e non appare minore il presagio di sterminio familiare nella diffusione di questo scritto, che tu crederesti una scintilla caduta su un’esca ben asciutta; crederesti, cioè, che queste parole da me scritte siano state raccolte da animi interiormente malvagi e capaci di congetturare solo ciò che è nero. Eppure il primo esemplare fu portato, nel 1611, da Praga a Lipsia e da lì a Tubinga, dal barone di Volckerstorff e dai suoi precettori per gli studi e per il comportamento. Cosa manca perché crediate che si è chiacchierato (soprattutto se ad alcuni il nome della mia Fiolsilde sembrava di malaugurio a motivo della sua arte) di questa mia favola nei negozi da barbiere? Di certo, proprio da quella città e da quella casa sono nate le chiacchiere e le calunnie su di me negli anni immediatamente successivi; questi discorsi, raccolti da animi ostili, divennero immediatamente un grande incendio nella pubblica fama, alimentato e gonfiato dall’ignoranza e dalla superstizione. Se non m’inganno, in questo modo comprenderete che sarebbe stato possibile che la mia famiglia non soffrisse vessazioni durate sei anni e che io stesso non fossi costretto al recente viaggio dell’anno passato: bastava che non avessi violato gli ordini datimi in sogno da questa Fiolsilde. Mi è molto piaciuto, quindi, vendicare questo mio sogno dalle molestie che ho riferito. Per gli avversari costituirà un’altra punizione”.
LETTERA DI LUDOVICO, figlio di GIOVANNI KEPLERO A FILIPPO LANGRAVIO DI ASSIA
Principe illustrissimo ed eccellentissimo, clementissimo signore. Mio padre Giovanni Keplero, matematico imperiale, ormai piuttosto stanco di osservare i movimenti della massa terrestre, cominciò a sognare intorno all’astronomia e ai movimenti del corpo lunare. Non so, però, che presagio fu per lui questo sogno! Per noi suoi figli fu certamente presagio di grande lutto. Vogliamo, però, sperare che per lui sia stato abbastanza propizio, anzi veramente molto desiderato. Ora, mio padre, dopo aver composto questo Sogno e averlo preparato per darlo alle stampe, fu preso (oh! dolore!) da un altro sonno più pesante, anzi mortale; e il suo spirito volò oltre la regione lunare, al cielo (come speriamo), lasciando noi suoi figli esposti alle offese di Marte e alle miserie di questo mondo, e per di più privi quasi d’ogni sostegno temporale. In verità, il chiarissimo e dottissimo Jakob Bartsch, medico e professore di matematica all’Accademia di Strasburgo, mio cognato, aveva intrapreso la stampa del volume; però, prima che potesse portarla a termine, fu colto anch’egli da improvviso e mortale malore, e morì.
Nel frattempo, io ero tornato in Germania da un viaggio, che avevo intrapreso insieme a un barone austriaco. Non avendo da due anni alcuna notizia sulle condizioni dei miei familiari, da Francoforte scrissi loro in Lusazia perché mi informassero se fossero in vita e come stessero. Ed ecco che mi raggiunse la mia matrigna, vedova con quattro figli orfani e assolutamente senza denaro. Per di più in un momento di grande confusione e in un luogo per nulla adatto a causa dell’alto costo dei viveri. Aveva portato dietro di sé le copie incomplete di questo Sogno, e implorava il mio sostegno personale e l’impegno a ricercare e ottenere l’aiuto anche di altri: mi chiedeva che portassi a compimento la stampa delle copie di questo libro. A questo punto, però, che cosa di buono potevo sperare per me da questo Sogno, visto che per mio madre e per mio cognato era stato foriero di morte? Sentivo, tuttavia, che per me suo figlio era doveroso, non dico accrescere col mio ingegno la sua fama, ma almeno non lasciare nell’ombra, nel limite delle mie possibilità, il nome veramente illustre e onorevole di mio padre. Non potei, quindi, rifiutarmi; anzi mi diedi subito da fare.
A quest’opera, però, manca ancora un patrono. E sarà certamente molto difficile trovarne uno tra i militari: questi, infatti, sono poco interessati all’astronomia del globo lunare; anzi sono costretti a stare molto attenti a non rimanere colpiti e feriti da palle di moschetto o di cannone. Per questo, o principe illustrissimo, non ho potuto trovare alcuno più degno di te, che possa patrocinare questo libretto: a te, infatti, è molto familiare lo studio della matematica e ti è del tutto alieno il furore delle guerre. E’ del tuo generoso patrocinio che ha già usufruito mio padre, quand’era ancora in vita. Ora, i suoi figli orfani nutrono ferma fiducia in te, e ti pregano, per il mio tramite, di non negare ancora una volta il tuo patrocinio nei confronti sia loro sia di questo Sogno. Innalzano, pertanto, preghiere ardentissime a Dio ottimo e massimo, affinché voglia conservare a lungo tutte le energie del corpo e dello spirito tanto tue che dell’illustrissima consorte, e lo pregano di tenere lontano ogni impeto di guerra e ogni assalto militare.
Tu, intanto, eccellentissimo principe, godi a lungo ottima salute per servire Dio e la patria. Scritta a Francoforte sul Meno l’18 settembre 1634. Resto obbligatissimo alla tua illustrissima altezza: Ludovico Keplero, professore di medicina.
IL SOGNO ovvero ASTRONOMIA DELLA LUNA (Dalla traduzione parziale del solo testo, senza note scritto da Keplero nel 1593)
Nell’anno 1608, mentre infuriavano le contese tra i fratelli l’Imperatore Rodolfo e l’Arciduca Mattia, e le loro azioni richiamavano alla mente di tutti esempi attinti dalla storia della Boemia, io fui preso dalla curiosità propria del popolo e dedicai il mio animo alla lettura di leggende boeme. Mi venne tra le mani la storia dell’eroina Libussa, molto celebre per le sue arti magiche. Una notte, dopo aver contemplato le stelle e la luna, mi distesi sul mio letto e m’addormentai profondamente. Durante il sonno mi sembrò di leggere un libro che avevo acquistato al mercato. Il suo tenore era il seguente.
Mi chiamo Duracoto (1); la mia patria è l’Islanda (2), che gli antichi denominarono Tule. Mia madre si chiamava Fiolsilde (3). E’ morta da non molto tempo (4); e questo m’ha dato la possibilità di scrivere. Prima, in verità, ardevo dal forte desiderio di farlo; ma lei, finché fu in vita, fu sempre molto attenta acciocché io non scrivessi (5). Diceva, infatti, che ci sono numerosi e pericolosi nemici delle arti (6), i quali, incapaci per l’ottusità della loro mente di comprendere molte cose, le interpretano falsamente e con cattiveria, giungendo a fissare leggi immutabili assolutamente funeste per gli uomini (7). E non pochi sono stati condannati proprio in nome di quelle leggi (8) e sono stati fatti inghiottire dalle voragini del monte Ecla (9). Non mi ha rivelato mai il nome di mio padre (10); mi diceva solo che era stato pescatore e che era morto all’età di centocinquant’anni, quando io avevo tre anni e ricorreva più o meno il settantesimo anno del loro matrimonio (11).
Durante gli anni della mia prima fanciullezza mia madre, tenendomi per mano e sollevandomi di tanto in tanto sulle sua spalle, soleva condurmi frequentemente verso i gioghi più bassi del monte Ecla (12), specialmente in prossimità della festa in onore di san Giovanni, quando il sole è visibile per tutte le 24 ore e non lascia alcuno spazio per la notte (13). Lei, allora, raccoglieva delle erbe accompagnandosi con molti riti e le cuoceva in casa (14); soleva, poi, fare dei sacchetti con pelli di capra, riempirli di queste erbe e portarli a un porto vicino per venderli come protettori delle navi (15). In questo modo si procurava il sostentamento.
Una volta per curiosità slegai uno dei sacchetti. Quando mia madre, ignara, lo stava vendendo, fuoriuscirono le erbe e le piccole stoffe ricamate a mano (16). La privai così del piccolo guadagno. Mia madre, però, accesa d’ira, per poter trattenere ugualmente il denaro che aveva ricevuto, cedette al padrone della nave me al posto del sacchetto. Il giorno successivo, però, questi salpava inaspettatamente dal porto e grazie al vento favorevole navigò verso Bergen della Norvegia (17). Dopo alcuni giorni cominciò a spirare la borea (18); e lui, condotto tra la Norvegia e l’Inghilterra, si diresse verso la Danimarca percorrendo lo stretto, poiché aveva delle lettere di un vescovo islandese (19) da consegnare al danese Tycho Brahe, che abitava nell’isola di Huen. Io, ancor giovinetto di quattordici anni, ero molto ammalato sia per gli sballottolamenti della nave sia per lo strano tepore dell’aria (20). Il padrone, perciò, quando approdò, mi affidò a un pescatore dell’isola insieme alle lettere (21) e salpò nuovamente, dopo aver detto che sperava di ritornare.
Tycho Brahe, avute nelle mani le lettere, manifestò molta felicità e cominciò a chiedermi molte cose (22); ma io, che non conoscevo la lingua, non capii se non poche parole (23). Per questo incaricò i moltissimi studiosi che teneva presso di lui (24) di parlare frequentemente con me; così, grazie alla liberalità di Brahe (25) e all’esercizio, in poche settimane fui in grado di parlare in maniera accettabile la lingua danese. Né io mi mostravo meno pronto a parlare di quanto essi lo fossero a chiedere. Mi meravigliavo, infatti, di molte cose nuove e ne raccontavo loro anche molte della mia patria, suscitando la loro meraviglia.
Fece ritorno il padrone della nave, e mi richiese indietro. Ottenne, però, un rifiuto. La cosa mi fece molto piacere (26).
Le rivelazioni astronomiche mi piacevano molto. Brahe e i suoi allievi scrutavano la luna e le stelle tutte le notti con strumentazioni meravigliose (27). Mi richiamavano alla mente mia madre, che pure soleva colloquiare assiduamente con la Luna (28).
Grazie a questa occasione, quindi, io, semibarbaro di origine e di condizione molto povera, pervenni alla conoscenza della più nobile fra le scienze. E questo mi preparò la strada per imprese maggiori.
Infatti, dopo aver trascorso alcuni anni in quest’isola, alla fine fui preso da un grande desiderio di rivedere la patria; ritenevo, infatti, che per me, grazie alle conoscenze acquisite, non sarebbe stato difficile emergere in mezzo alla mia gente inesperta e raggiungere, perciò, una certa dignità. Salutato, allora, il mio benefattore e chiestogli perdono per la partenza, venni a Copenhagen, dove incontrai per caso come compagni di viaggio alcuni che mi presero volentieri sotto il loro patrocinio per la mia conoscenza della lingua e della regione. Così ritornai in patria cinque anni dopo averla lasciata.
La prima gioia del mio ritorno fu d’aver trovato mia madre ancora tra i viventi e che esercitava le arti di un tempo. Anch’io ero vivo e onorato: così, posi fine al suo lungo e sofferto senso di colpa per aver perduto il figlio per temerarietà. L’anno volgeva al periodo autunnale (29), e si sarebbero succedute quelle nostre lunghe notti, fino al mese del Natale di Cristo, nelle quali il Sole appare appena un po’ a mezzogiorno e subito dopo si nasconde di nuovo (30). Mia madre, libera dalle sue abituali occupazioni, non si staccava mai da me, non si allontanava da me ovunque mi presentassi con lettere di raccomandazione: chiedeva informazioni ora intorno alle terre dove ero stato, ora intorno al cielo; ed era oltre modo felice che io avessi imparato quella scienza. Confrontava tutto quello che ella aveva acquisito con la sua diretta esperienza con quanto io le andavo raccontando (31); e allora diceva d’essere già pronta a morire, poiché avrebbe lasciato il figlio quale erede della sua scienza, che era la sola cosa che possedeva (32).
Io, per natura molto desideroso d’imparare sempre cose nuove, le chiesi a mia volta che mi parlasse e di quelli che aveva potuto avere per maestri in mezzo a un popolo così lontano da tutti gli altri. Allora, un giorno, presosi il tempo necessario per parlare, rievocò ogni cosa dall’inizio alla fine, più o meno con queste parole.
O Duracoto figlio mio, è stato provveduto non solo per gli altri paesi nei quali sei stato, ma anche per la nostra patria. Infatti, benché ci tormentino il freddo, le tenebre e altri disagi, di cui mi rendo conto soltanto ora, dopo essere venuta a conoscenza della felicità delle altre regioni, tuttavia anche noi abbondiamo di intelligenze vivaci (33); disponiamo di spiriti molto sapienti (34), i quali, detestando l’eccessiva visibilità e lo strepito degli uomini degli altri paesi, desiderano le nostre ombre e conversano con noi in intima familiarità. Tra questi ce ne sono in particolare nove (35), e uno di essi (36) è a me noto in maniera singolare, anche perché è di gran lunga il più mite di tutti e non fa assolutamente alcun male (37): il suo nome è costituito da ventuno lettere (38), con il suo aiuto vengo trasportata immediatamente nelle regioni che ti addito (39), ovvero, se talora mi trattengo dall’andarvi a causa dell’eccessiva lontananza (40), ricercandone vengo a conoscere tanto quanto se fossi andata sul posto (41): molte cose che egli m’ha narrato sono tali e quali a quelle che tu hai visto con i tuoi occhi, o hai appreso dalla parola, o hai attinto dai libri. Vorrei, ora, in primo luogo che tu, accompagnato da me, divenissi spettatore di quella regione, della quale quello spirito mi ha parlato tante volte e che sono veramente meravigliose. Egli la chiama Levania (42).
Non frappongo alcun ostacolo, perché ella invochi il suo maestro; mi siedo al suo fianco, pronto ad ascoltare tutta la narrazione del viaggio e tutta la descrizione della regione. Era già primavera; la Luna era una falce crescente, in congiunzione con il pianeta Saturno nel segno del Toro, quando il Sole discese sotto l’orizzonte (43). Mia madre si ritira senza di me (44) in un angolo vicino (45); pronuncia a voce alta poche parole (46), con le quali fa conoscere la sua petizione; compiuti alcuni riti, ritorna (47) e, protesa la palma della mano destra per imporre silenzio, si siede accanto a me (48). Facciamo appena in tempo a coprirci il capo con i vestiti (così come si era convenuto) (49), quand’ecco si leva un gemito di una voce balbettante e roca (50), e senz’indugio comincia a parlare così in lingua islandese.
Il demone51 di Levania52.
A cinquantamila miglia germaniche53 sta collocata54 nell’alto dei cieli l’isola di Levania; il cammino da essa verso la Terra e dalla Terra verso di essa è accessibile molto raramente55; però, quando esso è praticabile, è certamente facile per i miei simili56; ma per gli uomini che volessero venire trasportati è quanto mai difficile, e sempre con grandissimi rischi per la loro vita57. In queste nostre comitive non vengono accolti i sedentari, i grassi, i gracili58; scegliamo, invece, quelli che passano la vita maneggiando assiduamente i cavalli, quelli che vanno frequentemente con le navi nelle Indie, quelli che sono avvezzi a cibarsi di pane duro, di aglio, di pesci essiccati e di cibi ripugnanti59. Per noi sono adatte, in primo luogo, le vecchiette magre e asciutte60, per le quali sin dalla loro fanciullezza è propria consuetudine cavalcare caproni notturni o forcuti bastoni o consunti mantelli, per scorrazzare negli immensi spazi dell’universo. Non è adatto, perciò, nessuno che provenga dalla Germania; non respingiamo, invece, i corpi magri degli spagnoli61.
Si compie l’intero cammino, nella sua interezza, in massimo quattro ore62. E a noi, che siamo sempre molto occupati, non è permesso iniziare il viaggio63 prima che la Luna cominci a eclissare il suo lato orientale; essa, infatti, una volta divenuta del tutto luminosa, se noi ci attardiamo nel cammino, rende vana la nostra partenza. L’occasione si presenta così rapida che in quei momenti prendiamo come nostri compagni solo pochi uomini, e solo quelli che sono veramente premurosi64. Piombiamo, allora, a schiera su qualche uomo di questo genere e, spingendolo tutti insieme dal basso, lo trasportiamo in alto65. Il primo impatto è per lui durissimo66; e in realtà viene spinto con violenza così forte, come se venisse sparato con potente polvere esplosiva e lanciato su per i monti e i mari67. Per questo sin dall’inizio deve essere immediatamente sopito con sostanze narcotiche e oppianti68, deve essere adeguatamente sistemato con le membra aperte69, in modo che il corpo non sia sostenuto interamente dal bacino, né il capo venga sospinto in blocco con tutto il corpo, ma in modo che l’urto rimanga distribuito fra le singole membra. Allora nascono nuove difficoltà: il grande freddo70 e la mancanza di respiro71. Per il primo disponiamo di una forza congenita72, alla seconda possiamo rimediare tenendo vicino alle nostre narici delle spugne inumidite73. Compiuta la prima parte del cammino, il trasporto diventa più facile74. Allora abbandoniamo i corpi in balia dell’aria libera, e ritiriamo le mani75. I corpi si raggomitolano come ragni, e noi li trasportiamo quasi con il solo nostro volere76, finché la loro mole corporea finalmente si dirige spontaneamente verso il luogo fissato 77. Ma per noi questa circostanza (??p?) è poco utile, perché troppo lenta78, e perciò, come ho detto, acceleriamo e precediamo i corpi con la volontà, affinché non subiscano alcun danno nell’impatto durissimo con la Luna.
Gli uomini sono soliti, quando si destano, lamentarsi per l’indicibile spossatezza di tutte le membra, dalla quale si riprendono piuttosto tardi per poter poi camminare79.
Si presentano, inoltre, molte altre difficoltà, che sarebbe lungo passare in rassegna. Esse non recano alcun danno a noi. Noi, infatti, abitiamo stretti tutti insieme nell’ombra della Terra in tutta la sua estensione80; appena l’ombra tocca la Luna, siamo tutti già pronti a saltare giù, quasi da una nave sulla terra81, e lì ci rifugiamo rapidamente in spelonche e in luoghi tenebrosi82, affinché il Sole, che poco dopo inonderà di luce i campi aperti, non ci scacci dai nostri rifugi e ci costringa a inseguire l’ombra che va svanendo rapidamente83. In tali luoghi ci viene concessa tregua per esercitare i nostri ingegni secondo i moti dell’animo, lì discorriamo con i demoni di quel luogo e, instaurati buoni rapporti d’amicizia, appena il luogo comincia a mancare della luce del Sole84, spaziamo nell’ombra a schiere unite; se poi l’ombra con la sua punta tocca anche la Terra – cosa che per lo più accade85 – ci gettiamo sulla Terra anche noi insieme alle schiere alleate; e questo non ci è permesso solo quando gli uomini vedono il Sole eclissarsi. Per questo gli uomini hanno paura delle eclissi del Sole86.
E questo basti per quanto riguarda il viaggio sulla Luna.
Mi rimane ora da riferire sulla conformazione di questa provincia; e inizierò, secondo il modo di fare dei geografi, dall’osservazione dei fenomeni del suo cielo.
In tutta Levania gli aspetti delle stelle fisse si presentano uguali a quelli che appaiono a noi87; in essa, tuttavia, i movimenti e le grandezze dei pianeti si presentano in maniera del tutto diversa da come si vedono qui, sicché l’intero sistema astronomico risulta completamente diverso.
Pertanto, come i nostri geografi suddividono l’orbe della Terra, in relazione all’osservazione dei fenomeni celesti, in cinque zone, così in Levania si segnano due emisferi88, cioè quello dei subvolvi e quello dei privolvi89. Di questi, il primo gode continuamente della sua Volva, la quale per loro assolve al ruolo che per noi abitanti della Terra svolge la Luna; il secondo emisfero, invece, è privo in perpetuo della vista della Volva90.
Il circolo che divide i due emisferi passa, proprio come il nostro coluro dei solstizi, per i poli del globo, e si chiama divisore91.
Spiegherò, adunque, in primo luogo le cose che sono in comune ai due emisferi.
Tutta Levania è soggetta all’alternarsi dei giorni e delle notti come noi92; però, per i residenti sulla Luna questa alternanza non accade con variazioni annuali93. Infatti, in tutta Levania i giorni sono pressappoco uguali alle notti; però, mentre per i privolvi il loro giorno è regolarmente più breve della propria notte, per il subvolvi è, invece, più lungo94. Si illustrerà successivamente ciò che varia con un ciclo di otto anni. Inoltre, in entrambi i poli il Sole per metà rimane nascosto in cambio della notte, e per metà splende, girando circolarmente intorno ai monti95. La Luna, del resto, sembra ai suoi abitanti stare ferma e immobile, e gli altri astri girarle intono, non meno di quanto faccia la Terra per noi uomini96. La notte e il giorno insieme durano quanto un nostro mese: il Sole, infatti, appare un intero segno dello Zodiaco in più del giorno prima97. Come per noi durante un anno il Sole si leva 365 volte e le stelle fisse 366 volte, ovvero, più precisamente, durante quattro anni il Sole si leva 1461 volte e le stelle fisse 1465, allo stesso modo per gli abitanti della Luna durante un anno il Sole si leva 12 volte, la sfera delle stelle fisse 13 volte, ovvero più precisamente durante 8 anni il Sole gira 99 volte e la sfera delle stelle fisse 107 volte. Ma per loro è più familiare il ciclo annuale di 19 anni nostri. Durante tutto quest’anno, infatti, il Sole sorge 235 volte, e le stelle fisse 254 volte98.
Per i subvolvi che stanno al centro, ossia nella parte più interna, il Sole sorge quando a noi la Luna appare all’ultimo quarto; per i privolvi che stanno al centro, invece, il Sole sorge quando a noi la Luna appare al primo quarto. Quelli che chiamo spazi centrali o intermedi si devono intendere come semicircoli che, condotti perpendicolarmente al divisore, passano per i poli e per gli spazi intermedi, e che potrebbero chiamarsi semicerchi del semivolvano99.
C’è, poi, un circolo intermedio ed equidistante dai poli, che corrisponde al nostro equatore terrestre (e per questo sarà designato con questo nome) e che divide due volte in due luoghi opposti tanto il divisore quanto il semivolvano. Il Sole passa su tutti i punti equatoriali tutti i giorni più o meno perpendicolarmente ed esattamente in due giorni opposti dell’anno. Per tutti gli altri luoghi, che stanno verso i poli, il Sole al momento di mezzogiorno si allontana dallo Zenit100.
Anche in Levania hanno una qualche alternanza l’estate e l’inverno. Ma non bisogna né paragonarla al variare delle stagioni sulla Terra, né pensare che il loro succedersi accada sempre nei medesimi luoghi e nel medesimo periodo dell’anno. Risulta, infatti, che nello spazio di dieci anni, supponendo sempre che il luogo rimanga immutato, l’estate lunare passa da una parte dell’anno sidereo alla parte opposta. Infatti, in un ciclo di 19 anni siderei, ovvero di 235 giorni, è estate venti volte nella parte dei poli, ed è altrettante volte inverno; mentre essi si verificano 40 volte all’equatore101; gli abitanti della Luna, perciò, hanno ogni anno 6 giorni estivi e i rimanenti invernali, così come noi terrestri abbiamo i mesi estivi e invernali102. Quest’alternanza stagionale si sente appena intorno all’equatore, poiché il Sole in quei luoghi non si sposta oltre i cinque gradi da una parte o dall’altra. Si sente maggiormente, invece, in vicinanza ai poli: quei luoghi hanno o non hanno il Sole a semestri alterni, come presso di noi sulla Terra avviene per quelli che abitano in uno dei poli. Pertanto, anche il globo di Levania è diviso in cinque fasce climatiche corrispondenti in qualche modo a quelle della Terra. Tuttavia, la zona torrida segna a stento dieci gradi, come anche quelle artiche; tutte le altre sono somiglianti alle nostre zone temperate103. Inoltre, la zona torrida passa per il mezzo degli emisferi, cioè con metà della longitudine per i subvolvi e l’altra metà per i privolvi.
Dalle intersezioni dei circoli dell’equatore e dello zodiaco si generano anche quattro punti cardinali, come sono per noi i punti di equinozio e di solstizio, e da quelle intersezioni inizia il circolo zodiacale104. Però, il movimento delle stelle fisse, da quell’inizio in poi, è molto veloce, e infatti si compie in vent’anni tropicali; le stelle fisse, cioè, percorrono l’intero zodiaco in un’estate e in un inverno, la cui durata abbiamo già determinato in vent’anni; fatto, questo, che per noi abitanti della Terra avviene a stento in 26.000 anni105.
E questo è sufficiente per quanto riguarda il primo movimento.
La teoria sistematica dei moti successivi per gli abitanti della Luna non è meno diversa da come appare a noi; anzi è molto più complicata che per noi, in quanto i sei pianeti Saturno, Giove, Marte, Sole, Venere e Mercurio, oltre alle tante ineguaglianze che essi hanno in comune con noi, presentano per loro anche altre tre diversità: due in longitudine, e precisamente il periodo di un giorno lunare e il periodo di un anno, che è di otto anni e mezzo; e la terza in latitudine, ed esattamente il periodo di 19 anni. Infatti, i Privolvi medi, a parità di condizioni, vedono il Sole più grande quando è al suo culmine che quando sorge, e i Subvolvi, invece, lo vedono più piccolo106; agli uni e agli altri insieme, però, pare che il Sole fletta dall’eclittica di alcuni minuti, alternativamente e direttamente ora verso quelle ora verso queste stelle fisse107. Questi oscillamenti vengono ricondotti alla loro situazione iniziale, come ho detto precedentemente, nello spazio di 19 anni. Tuttavia, questo mutamento impiega un po’ più di tempo per i Privolvi; un po’ meno, invece, per i Subvolvi108. E benché si supponga che il Sole e le Stelle fisse nel primo movimento camminino uniformemente intorno a Levania, tuttavia il Sole, a Mezzogiorno, mentre per i Primolvi non avanza quasi per nulla rispetto alle Stelle fisse, per i Subvolvi, invece, è velocissimo. Naturalmente, succede il contrario a mezzanotte. Per questo sembra che il Sole rispetto alle Stelle fisse faccia quasi dei salti, un salto per ogni giorno109.
Le stesse cose sono ugualmente vere per Venere, per Mercurio e per Marte; sono, invece, quasi impercettibili per Giove e per Saturno110.
Del resto, questo movimento diurno non è neppure identico a sé stesso nelle stesse ore di tutti i giorni, ma nella medesima ora del giorno talvolta tanto quello del Sole quanto quello delle Stelle è più lento; ed è più veloce nella parte opposta dell’anno111. Questo rallentamento si sposta attraverso i giorni dell’anno, in modo da verificarsi ora in un periodo estivo ora in un periodo invernale, che in un altro anno aveva assistito a una accelerazione; un ciclo intero è completato in uno spazio poco minore di nove anni112. Pertanto, per lentezza naturale (non, come avviene per noi sulla Terra, a causa della divisione disuguale del circolo del giorno naturale) ora è più lungo il giorno, ora a sua volta, è più lunga la notte113.
Se per i Privolvi il rallentamento cade in mezzo alla notte, esso si aggiunge alla sua maggiore durata rispetto al giorno; se, invece, cade nel giorno, allora esso e la notte sono un po’ più uguali: cosa che avviene una sola volta ogni nove anni. Per i Subvolvani accade il contrario114.
Basta questo per quanto avviene in qualche modo in comune nei due emisferi.
L’emisfero dei Privolvi.
Ora, per tutto ciò che attiene in particolare ciascuno dei due emisferi, si presenta una grande diversità tra loro. Infatti, non sono soltanto la presenza e l’assenza della Volva a presentare aspetti molto diversi, ma anche gli stessi fenomeni comuni hanno effetti diversissimi da una e dall’altra parte, tanto che si può dire forse più giustamente che l’emisfero dei Privolvi non ha un clima temperato, mentre lo ha l’emisfero dei Subvolvi. Infatti, nell’emisfero privolvano la notte è lunga quindici o sedici dei nostri giorni naturali, è resa orribile per le continue tenebre simile a quelle nostre durante le notti senza la Luna, poiché non viene mai illuminata neppure da un raggio della Volva; perciò, ogni cosa è gelata dal freddo glaciale e dalle nevi115, oltre che dai forti venti freddissimi e rigidissimi116. Alla notte succede il giorno, lungo quattordici dei nostri giorni naturali o poco meno117, durante il quale vi è il Sole più grande118 e più lento rispetto alle Stelle fisse119, e manca assolutamente ogni soffio di vento120. Di conseguenza, un intenso calore immenso. E così, nello spazio di un mese terrestre o di un giorno di Levania, si susseguono in un medesimo luogo per quindici giorni una vampa più cocente che nelle nostre terre africane e un gelo più intollerabile di quello delle nostre regioni polari artiche.
In particolare bisogna notare che il pianeta Marte appare – a mezzanotte per quelli che stanno al centro dell’emisfero privolvano, e per gli altri in un momento specifico della notte - quasi due volte più grande di quanto appaia a noi sulla Terra121.
L’emisfero dei Subvolvi.
Passo a trattare di quest’emisfero; e comincio dai suoi abitanti che abitano al confine, e che dimorano presso il circolo divisore. E’ una peculiarità di questi Lunari, infatti, osservare le digressioni di Venere e di Mercurio dal Sole molto più grandi che noi abitanti della Terra122; e a loro in determinati periodi anche Venere appare due volte più grande che a noi123, soprattutto a quelli che abitano verso il polo settentrionale124.
Ma la cosa più piacevole in Levania è la contemplazione della sua Volva, della cui vista essi godono in luogo della nostra Luna, della quale sono completamente privi tanto i Subvolvi quanto i Privolvi125. E dalla continua presenza della Volva, quella regione viene denominata Subvolva, così come l’altra è detta Privolva proprio per la sua assenza; poiché sono privi della vista della Volva.
A noi abitanti della Terra, quando la nostra Luna sorge piena, e penetra nelle case remote, appare grande quanto il cerchio di un orcio; quando poi s’alza in mezzo al cielo, disegna appena la grandezza del volto umano. Ai Subvolvi, invece, la loro Volva appare di un diametro un poco minore del quadruplo del diametro con cui appare a noi terrestri la nostra Luna anche nel mezzo del cielo (e occupa questo sito per gli abitanti che stanno al centro ossia all’ombelico del suo emisfero)126. La Volva, inoltre, a quelli per i quali sta sempre fissa all’orizzonte, mostra da lontano l’aspetto di un monte infuocato.
Quindi, come noi distinguiamo le regioni secondo la maggiore o minore elevazione del polo, anche se non lo vediamo con gli occhi, allo stesso modo i Subvolvi si servono dell’altezza, sempre diversa nei diversi luoghi, della Volva, che è sempre visibile.
Infatti, come ho detto, quando la Volva sovrasta alcuni luoghi, in altri luoghi appare bassa verso il circolo dell’orizzonte; in altri ancora declina dallo Zenit verso l’orizzonte, e mostra in un certo luogo geometrico sempre la medesima altezza127.
Inoltre, hanno anch’essi i loro poli128, i quali, però, non vengono collocati presso quelle Stelle fisse, dove noi abitanti della Terra collochiamo i poli del pianeta129, ma presso altre Stelle, che noi utilizziamo come indicatori dei poli dell’eclittica, e percorrono, intorno a questi, nello spazio di diciannove anni lunari, dei piccoli circoli nella costellazione del Dagro e quella opposta del Pesce Spada (costellazione del “Pesce Dorado”), del Passero (costellazione del “Pesce Volante”) e della Nebulosa Maggiore130. E ancora: questi poli distano di circa un quadrante di cerchio dalla loro Volva, sicché quelle regioni si possono descrivere sia secondo i poli sia secondo la Volva131. Da ciò appaiono chiari i notevoli vantaggi della loro situazione. Infatti, essi osservano e definiscono la longitudine dei luoghi rispetto alla loro Volva immobile132, esprimono la latitudine rispetto alla Volva e ai poli133; noi, invece, per le longitudini non disponiamo di nient’altro che della declinazione del magnete, che è del tutto insignificante e a stento percettibile134.
Per loro, quindi, la loro Volva sta ferma, quasi attaccata con un chiodo al cielo, immobile nella sua posizione, mentre le altre stelle e anche lo stesso Sole135, muovendosi da oriente verso occidente, passano sopra di essa; e non vi è notte, durante la quale qualcuna delle stelle fisse che stanno nello zodiaco, non si occulti dietro questa Volva, per riapparire dall’opposta regione del cielo136. Ma non tutte le notti fanno ciò le medesime stelle fisse137, ma tutte quelle che si trovano distanti dall’eclittica sei o sette gradi si avvicendano per un ciclo di 19 anni138, compiuto il quale si ritorna alle posizioni iniziali139.
E ancora: la loro Volva cresce e decresce non meno di quanto faccia presso di noi la Luna140; e per entrambe la causa è la medesima, cioè la presenza o l’allontanarsi del Sole; e, se si osserva attentamente il corso delle cose, anche il periodo di tempo è in sostanza il medesimo; solo che i lunari lo calcolano in un modo, mentre noi lo calcoliamo in un altro; essi considerano un giorno e una notte lo spazio di tempo in cui si effettuano tutti gli incrementi e tutte le diminuzioni della loro Volva, mentre per noi il medesimo tempo lo consideriamo un mese. La Volva, per la sua grandezza e luminosità, non rimane mai nascosta per i subvolvani, quasi neppure in novivolvio141, soprattutto per gli abitanti delle zone polari quando non c’è il Sole; per questi la Volva rivolge le punte in alto verso il Mezzogiorno anche durante il tempo dell’intervolvio142. Infatti, per gli abitanti che vivono nelle regioni tra la Volva e i poli sul circolo medivolvano, in genere il novilunio è il segno del Mezzogiorno; il primo quarto è segno del vespro; il plenivolvio divide in due parti uguali la notte, e l’ultimo quarto fa ritornare il Sole143. Per quelli, invece, che hanno la Volva e i poli situati nell’orizzonte, cioè gli abitanti delle regioni sotto l’intersecazione dell’equatore con il divisore, hanno la mattina o la sera al novivolvio e il plenivolvio, la mezzanotte o il mezzogiorno ai quarti. Da questo si ricavino indizi utili anche per quelli che stanno situati in mezzo144.
Anche per quanto riguarda il giorno, distinguono le ore con questo metodo: con il succedersi una dopo l’altra delle fasi della loro Volva. Quanto più s’avvicinano il Sole e la Luna, tanto più è vicino per quelli il mezzogiorno e per questi il vespro o il tramonto. Per quanto riguarda la notte, poi, che di regola è lunga 14 dei nostri giorni e delle nostre notti, sono molto più attrezzati di noi per misurare la durata del tempo. Infatti, oltre alla successione delle fasi della Volva, delle quali abbiamo detto che il plenivolvio è il segno della mezzanotte per il suo medivolvio, anche la Volva da sola scandisce loro di per sé le ore. Infatti, benché si veda chiaramente che essa non si muove mai dal suo posto145, tuttavia, diversamente dalla nostra Luna, gira sul posto146 e rivela con evidenza e con regolare successione una mirabile varietà di macchie, che girano assiduamente da oriente verso occidente147. Quindi, i subvolvani calcolano un tale movimento di rivoluzione, quando ritornano e si fanno osservare le medesime macchie148, per un’ora di tempo149, mentre corrisponde a poco più della durata di un giorno e di una notte nostri150. Questa è l’unica misura di tempo costante151. Più sopra, infatti, è stato detto che il Sole e le stelle girano intorno agli abitanti della Luna quotidianamente con moto non uniforme; e rivela ciò massimamente questo movimento della Volva, se si paragona con essa la digressione delle stelle fisse dalla Luna152.
Sembra in generale che la Volva, per quanto concerne la parte settentrionale superiore, abbia due metà153: una più oscura e coperta da macchie quasi continue154, l’altra un po’ più chiara155; tra le due zone s’interpone come linea di divisione una cintura di luce splendente fino al settentrione. La figura è difficile a spiegarsi156. Tuttavia, nella parte orientale157 si può distinguere una figura, simile per aspetto a un busto umano secato all’altezza delle ascelle158, che s’avvicina, per baciarla, a una fanciulla159 che, con indosso una veste lunga160 e con una mano tratta indietro161, stia richiamando un gatto che le balza incontro162. Tuttavia, la parte della macchia più grande e più ampia163 s’estende verso occidente senza delineare chiaramente una figura164.
Nella seconda metà della Volva si diffonde, invece, una luminosità più estesa165 della macchia oscura166. Diresti che è la figura di una campana167 pendente da una fune168 e oscillante verso occidente169. Le cose che stanno sopra170 e sotto171 non possono essere rappresentate172.
E non basta che la Volva indichi loro, in questo modo, le ore del giorno; anzi essa offre chiari elementi per distinguere le parti anche dell’anno almeno a chi la osservi attentamente o lasci inosservata la configurazione delle stelle fisse. Anche durante il tempo in cui il Sole occupa il Cancro173, la Volva mostra chiaramente il polo settentrionale della sua rotazione. C’è, infatti, una certa macchia piccola e oscura174 sopra l’immagine della fanciulla situata in mezzo alla superficie luminosa175, che si muove dall’estremità superiore della Volva176 verso oriente e, discendendo da qui nel quadrante solare verso occidente177, si porta di nuovo da questa estremità nella sommità della Volva verso oriente; e così rimane sempre visibile178. Ma questa macchia non si distingue affatto, quando il Sole si trova nel Capricorno, poiché resta nascosta, dietro il corpo della Volva, tutta l’orbita insieme al suo polo. Durante queste due parti dell’anno, inoltre, le macchie si dirigono direttamente verso occidente179; nei tempi intermedi, invece, quando il Sole è situato nell’Ariete o nella Libra, le macchie o discendono o ascendono obliquamente, seguendo una traiettoria un po’ curva. Da questa argomentazione conosciamo anche che i poli di questa rotazione, rimanendo fermo il centro del corpo della Volva, girano intorno al loro polo, seguendo il circolo polare, una volta all’anno180.
Gli osservatori più attenti notano anche questo: che la Volva non conserva sempre la medesima grandezza. Nelle ore del giorno, infatti, in cui gli astri si muovono velocemente, il diametro della Volva è molto più grande, tanto da superare certamente il quadruplo del diametro della nostra Luna181.
Vorre parlare, ora delle eclissi del Sole e della Volva, che si verificano anche in Levania, e negli stessi momenti in cui qui, nel globo della Terra, si avvengono le eclissi del Sole e della Luna, anche se per ragioni del tutto opposte. Quando, infatti, noi vediamo eclissarsi totalmente il Sole, a loro s’oscura la Volva; a sua volta, quando a noi s’eclissa la Luna, a loro s’eclissa il Sole182. Ma non è, tuttavia, che ciò corrisponde tutto con precisa esattezza. Essi, infatti, vedono di frequente eclissi parziali del Sole, quando per noi non si nasconde nulla della Luna183; essi, al contrario, frequentemente sono immuni delle eclissi della Volva, quando noi assistiamo a eclissi parziali del Sole184. Le eclissi della Volva per loro avvengono nei plenivolvi, come anche per noi le eclissi di Luna nei pleniluni; o le eclissi di Sole nei novivolvi, come per noi nei noviluni185.
Poiché hanno i giorni e le notti così lunghi, sperimentano frequentissimi oscuramenti di entrambi gli astri. Inoltre, la maggior parte delle eclissi presso di noi passa per i nostri antipodi; al contrario, gli antipodi loro, cioè gli antipodi del privolvo, non vedono assolutamente nulla di questo genere; consegue, quindi, che solo i subvolvi assistono a tutte le eclissi.
Essi non vedono mai una eclissi totale della Volva186; per loro, tuttavia, passa attraverso il corpo della Volva una certa macchia piccola187, rossa alle estremità188, nera al centro189, la quale entra dal lato orientale della Volva e ne esce dal lato occidentale190, percorrendo la stessa via delle macchie naturali della Volva, che tuttavia supera in celerità191. Dura la sesta parte di una loro ora, ossia quattro ore nostre192.
La causa delle eclissi solari è per loro la loro Volva, così come per noi è la nostra Luna. Dal momento che la Volva ha il diametro maggiore del quadruplo rispetto al Sole, non può accadere che il Sole, passando da oriente verso occidente, attraverso il mezzogiorno dietro la Volva che resta immobile, non si nasconda molto frequentemente dietro la Volva, facendo in modo che o parte o tutto il corpo del Sole rimanga nascosto da essa. Per quanto abituale, comunque, è tuttavia molto notevole l’occultarsi di tutto il corpo del Sole, poiché dura alcune ore nostre193 e la luce di entrambi gli astri, cioè del Sole e della Volva, si spegne contemporaneamente: e questo è certamente un qualcosa di grande per i subvolvani, poiché altrimenti essi hanno le notti non molto più buie dei giorni, per lo splendore e la grandezza della Volva, perennemente presente; mentre durante l’eclisse del Sole si spengono per loro entrambi gli astri, ossia il Sole e la Volva.
Le eclissi del Sole, tuttavia, presso di loro hanno questo di particolare: spesso in maniera veramente singolare succede che, appena il Sole s’è nascosto dietro la Volva, appare dalla parte opposta uno splendore, come se il Sole si sia dilatato e ne abbracciasse in un grande amplesso il corpo intero; mentre, poi, in altri momenti il Sole si fa vedere più piccolo della Volva194. Non sempre, perciò, ci sono solo tenebre, ma solo quando i centri dei corpi si dispongono bene in congiunzione195 e lo consente la disposizione del mezzo trasparente196. E, tuttavia, la Volva non si spegne così improvvisamente da non apparire affatto197, nonostante il Sole rimanga totalmente nascosto dietro di essa, ad eccezione solo del momento centrale della eclissi totale198. Inoltre, all’inizio dell’eclissi totale in alcuni luoghi del divisore la Volva continua a splendere ancora intensamente, quasi come un carbone rimasto acceso dopo lo spegnimento della fiamma; solo dopo l’estinzione di questo fulgore, si verifica il centro della eclissi totale (questo chiarore, infatti, non si spegne quando l’eclissi non è totale); al ritorno, poi, del chiarore della Volva (nei luoghi opposti del circolo divisore) s’avvicina anche la vista del Sole. Entrambi gli astri, così, si spengono in certo qual modo insieme nel momento centrale dell’eclissi totale199.
Tutto questo viene detto per quanto appare nei due emisferi di Levania, in quello dei Subvovi e in quello dei Privolvi. Non è difficile giudicare da ciò, anche senza che io ne parli, quanto, per altre condizioni, i Privolvi differiscano dai Subvolvi.
Benché, infatti, la notte dei Subvolvi sia lunga quattordici dei nostri giorni, tuttavia la presenza della Volva ne illumina le Terre e le protegge dal freddo.
In realtà, tanta mole e tanto splendore non possono non scaldare200.
D’altra parte, benché per i subvolvi il giorno subisca la presenza molesta del Sole per un periodo di tempo pari a quindici o sedici giorni nostri, tuttavia questo è più piccolo e di potenza non così pericolosa201; e i due astri, in congiunzione, attraggono in quell’emisfero tutte le acque 202, che ne sommergono le terre, sì da lasciarne scoperta una parte assolutamente piccola203; rimane asciutto, invece, l’emisfero dei privolvi, appunto perché vi si ritirano tutte le acque204. Quando, poi, s’avvicina la notte per i subvolvi e il giorno per i privolvi, dal momento che gli emisferi hanno diviso fra loro i due astri, dividono anche le acque. Per i subvolvi, allora, si scopre la terraferma, mentre i privolvi vengono soccorsi dall’umidità, che concede loro un piccolo sollievo all’arsura205.
Levania tutt’intera s’estende per una circonferenza di non oltre 1400 miglia germaniche, che corrispondono alla quarta parte di quella della nostra Terra206; tuttavia ha monti altissimi207, vaste valli profondissime208, tanto che essa cede molto alla Terra per quanto riguardo l’approssimazione della sfera. Nondimeno è tutta piena di pori e quasi traforata da continue caverne e spelonche209, in particolar modo nelle regioni dei privolvi210; e questo costituisce il principale riparo per gli abitanti contro il caldo e il freddo211.
Qualunque essere o che nasca dalla terra o che cammini sulla terra212 è di una grandezza straordinaria. Gli accrescimenti avvengono con grandissima celerità; le vite sono tutte brevi, poiché sviluppano una così immane massa dei copri 213.
Per i privolvi non c’è alcuna forma di nido, non c’è alcuna abitazione costruita saldamente; nello spazio di uno dei loro giorni vagano a schiere per tutto il globo: parte a piedi, e questi superano di gran lunga i nostri cammelli, parte con le ali, parte navigando, seguono le acque che si ritirano; oppure, se hanno bisogno di sostare qualche giorno in più, si rifugiano nelle spelonche: a ciascuno secondo la propria natura.
Ci sono moltissimi nuotatori; tutti gli esseri viventi respirano naturalmente con molta lentezza; perciò vivono sotto le acque nelle profondità, aiutando in ciò con l’arte la natura214. Dicono, infatti, che in quelle insenature profondissime l’acqua perdura fredda, anche quando in superficie le onde sono bollenti per il Sole215; qualunque essere si trattenga sulla superficie, viene cotto dal Sole a mezzogiorno e diventa pastura per le orde di abitanti che sopraggiungono nel loro girovagare216. L’emisfero subvolvano, infatti, è in generale equiparabile ai nostri villaggi, alle nostre città e ai nostri giardini; mentre l’emisfero privolvano è paragonabile ai nostri campi, alle nostre selve e ai nostri deserti.
Quelli che hanno più bisogno di respirare, spingono in spelonche attraverso uno stretto canale le acque cocenti, affinché vengano accolte dopo un lungo cammino nei tratti più remoti e si raffreddino a poco a poco. Lì si trattengono per la maggior parte del giorno, servendosene per bere; quando sopraggiunge la sera, escono fuori per nutrirsi217.
Nelle piante la corteccia, negli animali la pelle o altra cosa che ne faccia le veci, coprono la maggior parte della massa del corpo, che è spugnoso e poroso. Qualunque cosa, inoltre, sia stata allo scoperto durante il giorno, s’indurisce nella parte superiore e si dissecca; quando giunge la sera, si scortica218.
Tutti gli esseri che nascono dalla Terra, benché siano pochi sui gioghi dei monti, per lo più nascono e muoiono nel medesimo giorno, mentre al loro posto ne spuntano dei nuovi.
In generale prevale la natura dei serpenti. Desta meraviglia, infatti, il fatto che s’espongano al Sole a mezzogiorno, spinti quasi da un desiderio intenso di goderne; e, tuttavia, non in altro luogo, se non davanti all’entrata delle spelonche, per aver l’accesso sicuro e pronto219.
Al alcuni il respiro esausto e la vita estinta dal caldo del giorno ritornano durante la notte, ma in modo opposto a quello delle mosche presso di noi220.
Sul suolo sono sparse ovunque grandi masse dalla figura di pigne che, arsa la corteccia durante il giorno, a sera si schiudono quasi rivelando il loro segreto, e generano esseri viventi221.
Il principale sollievo al caldo eccessivo nell’emisfero subvolvano sono le nuvole e le pioggie continue222, che talora occupano mezza regione o poco più223.
Giunsi fino a questo punto, stando immerso nel sogno; si sollevò, però, il vento e fui svegliato dallo strepito della pioggia, che cancellò nello stesso tempo la fine del libro che avevo comprato al mercato di Francoforte. Io, perciò, abbandonati il Demone narratore e quelli che lo ascoltavano, cioè il figlio Duracoto e la madre Fiolsilde, così come stavano con il capo coperto, ritornato in me, mi trovai davvero con la testa sotto il cuscino e il corpo avvolto dalle coperte.