Il Tempo, in sé fluire di momenti transeunti che vanno accolti, si apre a un "oltre" custode Eterno di valori trascendenti che vanno abitati. Vicende e realtà tendono alla suprema fusione nell'infinita Totalità, anima di ogni Speranza.

mercoledì 23 marzo 2005

ENRICO DE MAS - LO STUDIOSO, IL MAESTRO, L’AMICO - (Pisa, 1926-1990)

UNA VITA CON UN SOGNO: ESSERE COSTRUTTORE DI PACE

Il 27 marzo 1990, vinto in poco tempo da malattia inguaribile, moriva a Pisa, dov’era nato il 15 luglio 1926, Enrico De Mas. Il prof. Giuliano Marini, comune amico fraterno, in quell’occasione pronunciò un indirizzo di commiato: parole brevi e fluide, dettate spontaneamente dalla condivisione di tante esperienze umane e culturali e dalla comunanza di ideali di civiltà e di sentimenti religiosi: cioè dall’antica partecipata meditazione - in profonda sintonia di pensiero e intima coesione di spirito - di progetti e di sogni di possibile rinnovamento dell’umanità. Nessun tratto di ostentazione; nessuna ricerca di visibilità; nessuna rivendicazione di primato e di primogenitura. Le parole pronunciate allora erano contenute in tre pagine, che l’amico Marini mi diede privatamente, conoscendo l’affetto e devozione che io nutrivo verso De Mas. Ho letto più volte quelle pagine, ripensando alle lunghe conversazioni col mio “maestro e amico”; soprattutto a quelle dei suoi ultimi giorni di vita. Sono passati quindici anni, e ritengo “bello” rileggere e commentare alcuni pensieri di quello scritto.

“Si rimane impressionati – disse il Marini, ricordando lo studioso – dall’ampiezza delle ricerche condotte da De Mas, e dalla vastità della sua erudizione storica e filosofica. Soltanto una vita operosissima, condotta al riparo dalle mode, poteva consentirgli, nei nostri tempi dispersivi, una tale messe di risultati”. Infatti, l’amico Enrico De Mas, nella sua non lunga vita, “seppe convogliare nella sua operosità scientifica lo spirito filosofico e l’attenzione alla concretezza storica, unite sempre da un preminente senso morale”.

Enrico De Mas si era laureato in Filosofia con Armando Carlini e, successivamente, in Scienze Politiche con Giacomo Perticone. Studia sin dall’inizio Vico e Bacone, anche se il suo Autore preferito e veramente amato rimane sempre Francesco Bacone. Nel 1959 scrive il piccolo lavoro Bacone e Vico; nel 1964 pubblica alcune sue profonde meditazioni su Francesco Bacone da Verulamio: la filosofia dell’uomo: è l’inizio della grande fatica durata alcuni anni, durante i quali dà alla luce la “sua” traduzione italiana delle opere del filosofo inglese: Opere Filosofiche (1965), Novum Organum (1968), Scritti politici, giuridici e storici (1971), l’opuscolo Francis Bacon (1978). Il Bacone di De Mas è il banditore della filosofia, della scienza e della tecnica che, ispirate da spirito cristiano, avrebbero consentito il perseguimento di un realistico regno dell’uomo sulla terra. “Il suo secolo – disse Giuliano Marini - si confermava, negli studi degli anni successivi, quel Seicento che era stato intravisto o sperato come epoca di una cristianità ricomposta e pacificata, nel segno di interpretazioni bibliche e di approfondimenti teologici che restituissero il deposito antico della fede cristiana, liberandolo da incrostazioni positive e da artificiose divisioni ecclesiastiche. La più ampia di quelle indagini si ebbe nel 1982 con L’attesa del secolo aureo (1603-1625), splendido affresco di un’età pervasa da fremiti religiosi e politici”. Seguirono lo studio sulla Descrizione della Repubblica di Cristianopoli nel 1983 e, nel 1987, le Lettere di Fulgenzio Micanzio a William Cavendish.
Gli interessi speculativi di De Mas investono, contemporaneamente ma soprattutto negli ultimi anni, un altro campo di interessi: i pensatori e le correnti del Novecento filosofico italiano, con particolare riferimento alla storia della filosofia detta “minoritaria”, in quanto non in mostra né in posizione di confronto, ma non per questo meno carica d’incisività teoretica e di capacità innovativa grazie alle concrete proposte di rinnovamenti, sempre dettati da esigenze morali e sorretti da motivazioni anche religiose, ritenute sicuro lievito di dignità umana nella libertà politica. Tale posizione è esemplarmente rappresentata dai volumi Giuseppe Rensi tra democrazia e antidemocrazia del 1978 e Dibattito di filosofia politica italiana (1919-1929) del 1985, nei quali esamina (con puntualità storica) e valuta (con rigore logico e morale) teorie e prassi politiche contemporanee, dimostrando come numerosi pensatori debbano entrare a buon diritto a far parte della storia delle dottrine politiche, in quanto, essendo stati autori di analisi storiche spesso ampie, o anche solo di opuscoli impegnati, di scritti di storia e di diritto, non possono rimanere ancora al margine nemmeno nella sola discussione del problema più generale, e cioè del posto da assegnare all’attività politica nell’ordine delle scienze teoretiche e pratiche. L’intera indagine che De Mas dedica a questi autori contemporanei mira anch’essa ad evidenziare la possibilità concreta di democrazie sorrette da motivi civili e morali, sorretti sempre da spirito religioso autentico: di democrazie, cioè, che pensino società e sostengano governi fatti a vera e totale misura d’uomo, in cui siano reali, quindi, nuove prospettive culturali, alimentate da convinzioni fondamentali comuni alle varie concezioni culturali, ai diversi progetti politici, e anche alle sempre più numerose confessioni religiose.

E’, questo, uno dei motivi dominanti di tutti gli studi e della vita intera di Enrico De Mas. E negli ultimissimi mesi aveva avviato la realizzazione di un suo grande sogno, al quale teneva immensamente e nel quale riponeva speranze profonde: aveva dato vita alla pubblicazione della Collana “Eirenikon”, consegnando alle stampe i primi tre volumi da lui stesso curati: erano testi di Francesco Bacone, di Fulgenzio Micanzio e di Marc’Antonio De Dominis; nel frattempo aveva provveduto ad ‘assegnare’ ad altri studiosi (che lui desiderava – come ripeteva ogni qualvolta si presentava l’occasione - “capaci, ma anche lucidi e generosi, onesti e profondi”) la ricerca sulle opere di altri Autori, di cui aveva approntato una lunga lista che comprendeva, tra gli altri, Amos Comenio, Giovanni Keplero, Gaspare Scoppio, Goffredo Guglielmo Leibniz, Ugo Grozio, Francesco Pucci, Francesco Du Jon, John Goodwin, Michel de L’Hospital: “una ideale comunità – come commentò il Marini - di spiriti liberi In quei giorni appariva animato da un insolito entusiasmo; una gioia rara ne dipingeva lo sguardo, in genere schivo ma incisivo. I volumi freschi di stampa gli furono portati, mentre era già nel letto dove sarebbe morto dopo qualche giorno: li teneva tra le mani, guardandoli di tanto in tanto, come volesse custodirli e difenderli da ogni pericolo. “Questa collana di testi irenici ed ecumenici dei secoli XVI-XVII-XVII – aveva scritto nel Prodromo del primo volume – comincia con una esauriente raccolta degli scritti di Francis Bacon, dedicati ex professo ai problemi teologici, ecclesiologici e politico -ecclesiastici, che per certi aspetti è destinato a dare il tono generale e l’impostazione di fondo a tutta la serie. Essa tende a raccogliere e a riproporre all’attenzione degli studiosi - seguendo sempre i criteri scientifici della sistemazione storiografica e le regole della filologia del testo - le proposte concrete, meglio se inedite e conservate in antiche carte o in stampe rare, di carattere teologico, morale, diplomatico, pedagogico e filosofico, che furono dettate in quei secoli da scrittori eminenti e influenti, per la notorietà che ebbero nella repubblica delle lettere e per la particolare competenza e padronanza dei mezzi idonei ad affrontare il problema più rilevante ed aspro del momento: lo scandalo delle guerre di religione fra i cristiani di opposta confessione o appartenenti a chiese e sette rivali”.
“Quest’ammirevole progetto, insieme scientifico ed etico-religioso, – annotò con razionale amarezza il Marini – è stato bruscamente interrotto, e siamo bruscamente richiamati alla coscienza della provvisorietà nostra e delle nostre opere. Nella sua mitezza, insospettato sognatore, il nostro amico coltivò arditi sogni della ragione. ‘Uomo dei dolori che ben conosce il patire’ – se è lecito usare le parole di Isaia – egli seppe trasformare le asprezze quotidiane in strumento per un silenzioso esercizio di rigore su se medesimo e per la conquista di nuovi orizzonti per la comunità scientifica (…). Tutti coloro che lo hanno conosciuto ricordano commossi lo studioso, il maestro, l’amico”.

Durante le festività natalizie del 1989, prima di salutarci nella stazione di Pisa, mi fece leggere alcune pagine dattiloscritte: era il regalo natalizio che mi aveva preparato nella solitudine del suo studio; non glielo avevo chiesto, ma sapeva che ne sarei stato contento: Erano pagine di Presentazione al mio volume di ristampa della monografia scritta nel 1943 da Alfredo Poggi su Piero Martinetti. Ricordo la sua espressione sorridente di soddisfazione, unita a profonda consapevolezza che la vita va accettata sempre e comunque, con umana razionalità e religiosa disponibilità. Ne avevamo parlato tante volte tra di noi, ma in quei giorni egli vi aveva insistito: mi aveva confidato di non sentirsi bene, ma nulla di più. Avrei anticipato il mio ritorno a Pisa solo qualche settimana dopo, ma non per “chiacchierare” (come amava chiamare le nostre lunghe conversazioni) ma per raccoglierne le ultime confidenze. La sua era ormai lucida e malinconica accettazione.
Enrico De Mas non vide il mio volume pubblicato; era ancora in stampa, ed io potei solo aggiungervi un Post-Scriptum, dove scrissi, tra l’altro che “una malattia mortale l’ha sottratto alla terrena repubblica delle lettere, di cui egli è stato degno e prestigioso cittadino. Riteniamo siano state le ultime pagine da lui scritte. E se per tutti esse trasmettono il messaggio che documenta la sua nobiltà d’ingegno e la sua elevatezza di sentimenti, per noi custodiscono il testamento spirituale dell’amico disinteressato e del maestro profondo ed umile. Eredità feconda rimane il suo realismo ricco di entusiasmo e di fiducia in un mondo concretamente perfettibile grazie alla pacifica laboriosità di uomini moralmente responsabili. Ed in tutta la sua opera egli ha trasmesso con autorevolezza e suadente vigoria i segreti della fede nelle veraci conquiste dello spirito umano, incessantemente proteso verso il trascendente, creduto con incrollabile fermezza”.

lunedì 21 marzo 2005

QUANDO IL “SILENZIO” NON E’ CONSENSO (SPESSO SERVILE), MA DIFESA (SPESSO EROICA) DELLA LIBERTA’, FONDAMENTO DELLA DIGNITA’ UMANA

Il 28 marzo 1926 si aprivano, a Milano, i lavori del VI congresso filosofico nazionale, promosso dalla Società Filosofica Italiana. Il congresso era stato organizzato dal filosofo Piero Martinetti, il quale, presidente d’allora della Società Filosofica Italiana, lo inaugurò solennemente con un discorso, che fu stampato postumo col titolo I congressi filosofici e la funzione sociale e religiosa della filosofia (in “Rivista di Filosofia”, 1944, n. 3-4, pp. 101-109; ora in Saggi filosofici e religiosi, a cura di Luigi Pareyson, Torino, Bottega d’Erasmo 1972, pp. 37-44).

Al congresso erano stati invitati tutti, senza distinzione d’orientamenti dottrinali e di credo religiosi; ma non vi fu l’adesione dei gentiliani né la partecipazione dei cattolici.

Il 29 marzo teneva la sua relazione Benedetto Croce su La filosofia italiana da Campanella a Vico; il 30 marzo Francesco De Sarlo pronunciava – tra molti applausi – la sua relazione su L’alta coltura e la libertà; il giorno successivo avrebbe dovuto parlare Ernesto Buonaiuti su La religione nel mondo dello spirito: ma il congresso fu sospeso e sciolto con l’intervento autoritario del commissario di polizia. Anche la “Società Filosofica Italiana” fu soppressa e sostituita dal “Regio Istituto Filosofico Italiano” sovvenzionato dallo Stato e retto da un organo ufficiale, la cui presidenza era affidata per nomina governativa.

Eugenio Garin, riferendosi a questi avvenimenti, evidenzia come Martinetti, difendendo la ragione quale sicura salvaguardia dell’autentica libertà, si veniva a trovare in comunione con “pensatori tra loro lontani”, e proprio per questo – sottolinea – non fu certamente un “fiore retorico” l’affermazione di Martinetti a proposito della “presenza dello scomunicato Buonaiuti e del ritiro dei cattolici: “non potevo rendermi esecutore di un decreto di scomunica io, filosofo, cittadino di un mondo nel quale non vi sono né persecuzioni né scomuniche” (Eugenio Garin, Cronache di filosofia italiana, Bari, Laterza 1966, p. 390).

Qualche anno dopo, nel 1933, il Martinetti fu uno dei dodici professori universitari – su circa dodicimila – che si rifiutò di prestare il giuramento richiesto autoritariamente dall’allora governo fascista: preferì la difesa della dignità umana e professionale, e scelse la libertà della ragione, rinunciando “dignitosamente” alla vita accademica e alla cattedra universitaria, che si era conquistato con il valore dei suoi studi e che aveva onorato con la ricchezza speculativa del suo pensiero e delle sue opere. Si ritirò a vita privata, disdegnando la ribalta e rifiutando ogni forma di ostentazione. Senza mai mettersi in mostra, continuò i suoi studi al riparo da ricatti miserevoli e da condizionamenti spregevoli. Dal santuario della solitudine della sua casa continuò a essere maestro di libertà morale e civile, esempio indiscusso di coerenza profonda e umile. Rimase totalmente fedele e assolutamente libero nell’intimità del suo spirito, imponendosi – suo malgrado - come perenne rimprovero vivente a chiunque aveva barattato (e continuava a farlo) la dignità dell’essere umano per ottenere o conservare carriere, onori e potere.

“Non si può ritenere che la fede di tante generazioni sia tutta nelle fredde testimonianze dei suoi interpreti ufficiali. Invisibili, innumerevoli altri legami congiungono noi al Cristo. Senza di essi il Cristianesimo sarebbe una religione di pergamene e una fede di amanuensi”.
(ERNESTO BUONAIUTI, Prefazione alla Storia del Cristianesimo, Milano, 1942-1943).
“Il prurito del disputare in teologia viene dalla scabbia delle Chiese”.
(HENRY WOTTON, personalità inglese del XVII secolo, grande conoscitore dell’Italia del tempo, per tre volte ambasciatore inglese presso la Repubblica di Venezia).
“Esiste un ordine o ‘gerarchia’ nelle verità della dottrina cattolica, essendo diverso il loro nesso col fondamento della fede cristiana”.
(Decreto sull’Ecumenismo 11 Unitatis redintegratio; mons. PANGRAZIO, Vescovo di Gorizia).