Il Tempo, in sé fluire di momenti transeunti che vanno accolti, si apre a un "oltre" custode Eterno di valori trascendenti che vanno abitati. Vicende e realtà tendono alla suprema fusione nell'infinita Totalità, anima di ogni Speranza.

lunedì 21 marzo 2005

QUANDO IL “SILENZIO” NON E’ CONSENSO (SPESSO SERVILE), MA DIFESA (SPESSO EROICA) DELLA LIBERTA’, FONDAMENTO DELLA DIGNITA’ UMANA

Il 28 marzo 1926 si aprivano, a Milano, i lavori del VI congresso filosofico nazionale, promosso dalla Società Filosofica Italiana. Il congresso era stato organizzato dal filosofo Piero Martinetti, il quale, presidente d’allora della Società Filosofica Italiana, lo inaugurò solennemente con un discorso, che fu stampato postumo col titolo I congressi filosofici e la funzione sociale e religiosa della filosofia (in “Rivista di Filosofia”, 1944, n. 3-4, pp. 101-109; ora in Saggi filosofici e religiosi, a cura di Luigi Pareyson, Torino, Bottega d’Erasmo 1972, pp. 37-44).

Al congresso erano stati invitati tutti, senza distinzione d’orientamenti dottrinali e di credo religiosi; ma non vi fu l’adesione dei gentiliani né la partecipazione dei cattolici.

Il 29 marzo teneva la sua relazione Benedetto Croce su La filosofia italiana da Campanella a Vico; il 30 marzo Francesco De Sarlo pronunciava – tra molti applausi – la sua relazione su L’alta coltura e la libertà; il giorno successivo avrebbe dovuto parlare Ernesto Buonaiuti su La religione nel mondo dello spirito: ma il congresso fu sospeso e sciolto con l’intervento autoritario del commissario di polizia. Anche la “Società Filosofica Italiana” fu soppressa e sostituita dal “Regio Istituto Filosofico Italiano” sovvenzionato dallo Stato e retto da un organo ufficiale, la cui presidenza era affidata per nomina governativa.

Eugenio Garin, riferendosi a questi avvenimenti, evidenzia come Martinetti, difendendo la ragione quale sicura salvaguardia dell’autentica libertà, si veniva a trovare in comunione con “pensatori tra loro lontani”, e proprio per questo – sottolinea – non fu certamente un “fiore retorico” l’affermazione di Martinetti a proposito della “presenza dello scomunicato Buonaiuti e del ritiro dei cattolici: “non potevo rendermi esecutore di un decreto di scomunica io, filosofo, cittadino di un mondo nel quale non vi sono né persecuzioni né scomuniche” (Eugenio Garin, Cronache di filosofia italiana, Bari, Laterza 1966, p. 390).

Qualche anno dopo, nel 1933, il Martinetti fu uno dei dodici professori universitari – su circa dodicimila – che si rifiutò di prestare il giuramento richiesto autoritariamente dall’allora governo fascista: preferì la difesa della dignità umana e professionale, e scelse la libertà della ragione, rinunciando “dignitosamente” alla vita accademica e alla cattedra universitaria, che si era conquistato con il valore dei suoi studi e che aveva onorato con la ricchezza speculativa del suo pensiero e delle sue opere. Si ritirò a vita privata, disdegnando la ribalta e rifiutando ogni forma di ostentazione. Senza mai mettersi in mostra, continuò i suoi studi al riparo da ricatti miserevoli e da condizionamenti spregevoli. Dal santuario della solitudine della sua casa continuò a essere maestro di libertà morale e civile, esempio indiscusso di coerenza profonda e umile. Rimase totalmente fedele e assolutamente libero nell’intimità del suo spirito, imponendosi – suo malgrado - come perenne rimprovero vivente a chiunque aveva barattato (e continuava a farlo) la dignità dell’essere umano per ottenere o conservare carriere, onori e potere.

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