Il Tempo, in sé fluire di momenti transeunti che vanno accolti, si apre a un "oltre" custode Eterno di valori trascendenti che vanno abitati. Vicende e realtà tendono alla suprema fusione nell'infinita Totalità, anima di ogni Speranza.

venerdì 14 gennaio 2005

ALBERT EINSTEIN, CINQUANT'ANNI DALLA MORTE - (Ulm 1879 - Princeton 1955)

UNA SCIENZA AL SERVIZIO DELLA PACE, ovvero FILOSOFIA PRATICA E SOLITUDINE MORALE

Il 18 aprile 2005 ricorre il cinquantesimo anniversario della morte di Albert Einstein. Il 2005 è pure il centenario della pubblicazione su "Annalen der Phisik" del suo saggio Sull'elettrodinamica dei corpi in movimento, nel quale il fisico tedesco esponeva i fondamenti della sua teoria della relatività speciale; sempre nel medesimo anno (appunto nel 1905) elaborava il primo modello matematico in grado di essere utilizzato nello studio dei moti browniani e presentava, infine, una memoria contenente la spiegazione dell'effetto fotoelettrico, per la quale gli sarà assegnato il premio Nobel. "Voglio capire - scrive Einstein nel 1929 nel suo Il mondo come io lo vedo - come Dio ha creato il mondo. Non mi interessa questo o quel fenomeno in particolare: voglio penetrare a fondo il Suo pensiero. Il resto sono solo minuzie (...). L'esperienza più bella che possiamo avere è il senso del mistero. E' l'emozione fondamentale che accompagna la nascita dell'arte autentica e della vera scienza. Colui che non la conosce, colui non può più provare stupore e meraviglia, è già come morto, e i suoi occhi sono incapaci di vedere". Einstein non vuole, quindi, intuire la presenza di un ipotetico Creatore, ma scoprire il significato intrinseco delle cose del mondo. A lui interessa, perciò, comprendere "come" Dio ha creato il mondo; e lo fa immergendosi, con audacia e totalità, nell'indefinito oceano del mistero, che lo scienziato desidera penetrare e, senza violentarne la sacralità, illuminarne quelle parti, che la sua intima meditazione e la sua tenace riflessione sapranno conquistare. E' la solitudine esplosiva della ricerca scientifica che consente allo scienziato di "vedere il mondo" a modo suo: solo così può sperare di conquistare il senso delle cose, impossessarsene e parteciparlo poi, gratuitamente e incondizionatamente, all'umanità. Significativo, allora è quanto scriverà nel 1945, quando si ritirerà ufficialmente dall'insegnamento: "Oggi l'energia atomica non è un bene per l'umanità, ma una minaccia". Sperava che una simile minaccia incitasse gli uomini ad cercare maggiore saggezza e, comunque, tale da spronarli a inventare forme di vita associata a livello anche internazionale che garantisse la sopravvivenza dell'umanità, preservandola dalle conseguenze di quelli che egli definiva "gli orrendi ordigni inventati in questi anni".

Einstein unì costantemente l'attività di scienziato all'impegno etico e sociale, ispirandosi all'ideale morale e politico di Gandhi. Il pacifismo militante contraddistinse l'intera vita dello scienziato; la pace tra le nazioni costituì un anelito intimo e appassionato, che lo accompagnò ogni giorno della sua esistenza; anche poche ore prima della morte, scrivendo all'allora premier indiano Nehru, diceva: "le armi per la distruzione di massa hanno raggiunto una potenza tale che il mondo può essere distrutto, se l'uomo non trova i mezzi per vivere in pace con i suoi simili". Queste preoccupazioni per il destino dell'umanità, che peraltro resta determinato notevolmente dalle capacità intellettive dell'uomo e, quindi, fortemente legato alle risorse culturali e morali dell'uomo, fanno di Einstein un filosofo impegnato, anche se non teoretico. Il padre della relatività, infatti, non formula domande speculative sulla natura del mondo, né si pone interrogativi astratti sull'esistenza dell'uomo. Per lui la filosofia vera, o comunque quella che lo interessa e lo coinvolge, non può soffermarsi a discutere sull'essere, sul non-essere o sul divenire; la filosofia per lui assume validità solo in quanto diventa operativa, nel senso che, senza indugiare a meditare su problematiche astratte (considerate come proprio oggetto di studio), s'impegna a chiarificare i grandi problemi, che forse inizialmente hanno costituito il territorio specifico della filosofia tradizionale, ma che ora sono divenuti ormai oggetto di altre scienze, quali la matematica, la fisica, la psicologia, la biologia, la sociologia, la politica. Ed i concetti di spazio e di tempo, di geometria e di aritmetica diventano, così, grazie all'impegno di Einstein, patrimonio della fisica, la quale non può e non deve occupare energie a discutere sull'ipotesi dell'esistenza di un etere e sulla concezione di un sistema di coordinate inerziale; Einstein fonda ormai la fisica su dati evidenti e chiari, che la rendono razionale per cui i confini tra fisica e filosofia, se non coincidono, non hanno più una linea di demarcazione. "Io credo che ci sia una realtà al di fuori di noi": così rispondeva a chi gli chiedeva se esistesse un mondo oggettivo reale. Io credo: la scienza, cioè, è creazione della mente umana; è una libera invenzione dell'umana creatività, mediante la quale si vuole comprendere in schemi spiegativi sempre più vasti e meno incerti il sempre più esteso e ricco mondo dell'esperienza umana. Einstein scienziato contempla in sé stesso le proprie idee, che rinnova in una lotta drammatica condotta per sempre meglio capirsi e capire; è una lotta che dura all'infinito; è la lotta che racconta la storia della scienza. La scienza risolve molte difficoltà, e spesso con vere rivoluzioni culturali, ma continua a crearne anche delle nuove, che pongono a loro volta problemi nuovi e nuove contraddizioni, il cui superamento determinerà gli ulteriori sviluppi e l'avanzamento del sapere scientifico.

La scienza è, quindi, costruzione audace ma fondata dall'intelligenza umana; e tuttavia Einstein si chiede cosa esprima la scienza: esplicita essa la struttura reale di un mondo oggettivo? Ma, un mondo oggettivo c'è realmente? E, ponendosi al di là delle risposte dei filosofi sia realisti sia idealisti, e respingendo l'atteggiamento presuntuoso e negativo dei logici neopositivisti (i quali deriderebbero la domanda stessa), Einstein accoglie il senso umano del quesito scientifico e, inoltrandosi nel regno della sacralità religiosa, risponde nel suo saggio del 1929 Il mondo come io lo vedo: "L'esperienza più bella che possiamo avere è il senso del mistero. E' l'emozione fondamentale che accompagna la nascita dell'arte autentica e della vera scienza (…). Lo scrutare nei misteri della vita, anche se misto alla paura, ha dato origine alla religione. Sapere che ciò che per noi è impenetrabile esiste realmente, manifestandosi come la più alta saggezza e la più radiosa bellezza che le nostre povere facoltà possono comprendere solo nelle loro forme più primitive - questa conoscenza, questo sentimento, sono al centro della vera religiosità. In questo senso, io appartengo alla schiera degli uomini profondamente religiosi". Ecco la religione in Einstein: la chiave essenziale che apre le serrande della vita stessa, sia dal punto di vista della conoscenza, là dove il senso comune fallisce e occorre trovare più alte vie d'illuminazione interiore; sia dal punto di vista dell'azione, là dove la mistica dell'ubbidienza passiva e la forza sfrenata del volere vengono rivendicate come unico rimedio per evitare le ambigue vie dell'utile e i tortuosi sentieri della morale dell'obbedienza incondizionata. Scienza, filosofia e religione, nel sentire del fisico tedesco, sono un trinomio indissolubile e necessario al senso della vita dell'umanità, soprattutto nei brutti tempi della storia, quali quelli che si stavano profilando in quel periodo: sotto le apparenze delle democrazie si scorgeva già (ieri come oggi) un diffuso agnosticismo individuale e un dilagante utilitarismo nazionale, e dietro la facciata delle pubbliche libertà stava in agguato (ieri come oggi) il più turpe conformismo ideologico, terreno fertile per le tirannidi. E Einstein ammoniva: la libertà di pensiero è una conquista che si ottiene per gradi e con un continuo approfondimento della libertà di coscienza. Questo fa di Einstein non uno spettatore passivo delle vicende europee e mondiali, ma un osservatore attento e partecipe, anche se senza quei coinvolgimenti emotivi che ne avrebbero alterato la visione dei fatti; è lui stesso a dircelo nel medesimo saggio del 1929: "Il mio appassionato interesse per la giustizia e la responsabilità sociale è sempre stato in curioso contrasto con una spiccata assenza del desiderio di una associazione diretta con uomini o donne. Io sono un cavallo fatto per il tiro a uno, e non sono tagliato per lavorare in pariglie o in tiri a quattro. Non ho mai appartenuto con tutto il cuore a un paese o a uno stato, alla mia cerchia di amici o anche alla mia stessa famiglia. Questi legami sono stati sempre accompagnati da un vago senso d'indifferenza, e il desiderio di ritirarmi in me stesso aumenta col passare degli anni. Questo isolamento è talvolta amaro, ma io non rimpiango di essere escluso dalla comprensione e dalla simpatia degli altri uomini. Con ciò, non lo nego, io perdo qualcosa, ma di questa perdita io sono ricompensato col rendermi indipendente dalle abitudini, dalle opinioni e dai pregiudizi degli altri, e non sono tentato di riporre la pace del mio spirito su fondamenta così instabili".

Disprezzò sempre, anzi odiò la violenza, la prepotenza, l'ingiustizia. Egli, che dimostrò sempre disponibilità al dialogo e al confronto, non esitando mai ad andare in aiuto di chiunque glielo chiedesse, restò risoluto e inflessibile dinanzi ad ogni tentativo di piegarlo verso politiche che simpatizzassero per sistemi illiberali o, tanto peggio, liberticidi. Nel 1930, in un discorso tenuto a una manifestazione studentesca per il disarmo, affermava: "Trasmettendoci una scienza e una tecnica altamente sviluppate, le passate generazioni ci hanno fatto dono di uno strumento prezioso, capace di migliorare e arricchire la nostra esistenza in una misura fin qui sconosciuta. Tuttavia, esso reca con sé anche dei pericoli che rappresentano una inaccia per il genere umano". L'anno successivo, durante la conferenza del disarmo, sosteneva: "I benefici apportati dal genio inventivo dell'uomo nel corso degli ultimi cento anni, potrebbero rendere la vita felice e libera da preoccupazioni, se al progresso tecnico avesse corrisposto un pari sviluppo nel campo dell'organizzazione sociale. Allo stato attuale delle cose, nelle mani della nostra generazione le conquiste raggiunte con tanti sacrifici hanno lo stesso senso di un rasoio adoperato da un bambino di tre anni. I meravigliosi strumenti di produzione di cui disponiamo hanno portato, anziché libertà, dolore e fame". Il 30 luglio 1932, aderendo alla richiesta delle Nazioni Unite, scrive una lettera a Freud, chiedendo al padre della psicanalisi lumi sulla domanda: "C'è un modo per liberare gli uomini dalla fatalità della guerra? E' ormai risaputo che, col progredire della scienza moderna, rispondere a questa domanda è divenuto una questione di vita o di morte per la civiltà da noi conosciuta, eppure, nonostante tutta la buona volontà, nessun tentativo di soluzione è purtroppo approdato a qualcosa". I suoi convincimenti li troviamo espressi con chiarezza in due documenti del 1939. Il primo è la lettera scritta il 2 agosto al presidente degli Stati Uniti d'America, con la quale lo scienziato riesce a rompere la compattezza marmorea della mentalità militare; suggerisce, infatti, al presidente "l'opportunità di stabilire un collegamento permanente tra il governo e il gruppo di fisici che, in America, lavorano alla reazione a catena, collegamento che potrebbe essere facilitato dalla nomina di un responsabile di Sua fiducia, autorizzato ad agire anche in veste non ufficiale". Il secondo documento è lo scritto Solo allora saremo liberi, nel quale scrive: "La scienza ha fatto sorgere questo pericolo, ma il vero problema è nella mente e nel cuore degli uomini. Noi non cambieremo i cuori di altri mediante meccanismi, ma solo cambiando i nostri cuori e parlando onestamente. Dobbiamo essere generosi nel dare al mondo la conoscenza che noi abbiamo delle forze della natura, dopo aver preso le opportune precauzioni contro ogni abuso. Noi dobbiamo essere non solamente disposti, ma attivamente premurosi di sottometterci a un'autorità superiore necessaria per la sicurezza del mondo. Dobbiamo renderci conto che noi possiamo fare contemporaneamente progetti di pace e di guerra. Quando saremo limpidi di cuore e di mente, solo allora troveremo il coraggio di superare la paura che incombe sul mondo".

Noi oggi, cittadini di un mondo che ama dirsi e si vanta d'essere "globalizzato", continuiamo a essere grati ad Albert Einstein: esempio di saggezza e di bontà, pari alla sua lungimiranza coraggiosa e disincantata, proprio perché dettata dalla conoscenza profonda delle cose del mondo e dell'animo umano.

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